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SAN BARTOLOMEO DA SIMERI

di Marcello Barberio

 

Attraverso un sentiero scosceso del diruto quartiere della Grecìa di Simeri, si  possono raggiungere  “ le grotte dei santi ”, tre scavi rupestri assimilati alle costruzioni trogloditiche, alle quali si accede dai fianchi dello sperone roccioso  su cui sorge il castello, separato da una rupe e da profondi burroni cadenti a picco nella vallata del fiume omonimo.Il paese, infatti,  si sviluppava secondo il sistema dei due quartieri posti su due spianate a quote differenti: la terrazza superiore, detta  il “Vaglio”, ospitava i profughi di stirpe latina della città costiera di Trischene e la chiesa di Santa Maria Itriae Latinorum[1]  (collegiata di jus patronatus), mentre nella parte bassa del quartiere della Grecìa restavano le chiese di San Fantino, dell’Annunziata, di San Nicola, di San Pietro, di San Filogonio, di San Giacomo.

Nella “Chronica Trium Tabernarum” del canonico Carbonello, del XII secolo, è scritto che “apud Simarum “ dimorava il vescovo latino delle Tre Taberne, il quale “Ecclesiam fabricavit….vixit in Episcopatus anni multis”; gli succedette Andrea Cathezujum, poi “Macantius de Simero, qui erat Graecus” e infine, nel 1062, Leonzio de Risu, vescovo latino.[2]

“Ex hoc loco fuit Bartholomeus Abbas”, annotava Gabriele Barrio in « De situ et antiquitate

Calabriae ».

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Simeri, veduta panoramica

 

Il modello urbanistico del quartiere bizantino della Grecìa, situato su una terrazza tra due rupi, era assai diffuso e si riproponeva anche a Catanzaro e a Santa Severina. Dalle cronache medievali[3], infatti, risulta che nel quartiere greco-bizantino di Catanzaro insistevano le chiese di Santa Maria di Cataro ( oggi del Carmine), di Santa Barbara, di S. Nicola di Pitinto, di S. Nicola di Favatà, di S. Basilio de Murmuris, di S. Maria de Figulis o dei vasai (oggi di Montecorvino) e le abbazie di S. Leonardo fuori le mura (a Pratica) e di S. Maria di Cinnapotimo o Zarapotamo.

La Grecìa di Santa Severina, distrutta dal terremoto del 1783, era situata sotto la chiesetta di Santa Filomena ed annoverava le chiese di S. Pietro  e di S. Nicolò. Non distanti dalle Grecìe sorgevano le Giudecche, cioè i quartieri degli Ebrei, con le loro sinagoghe.[4]

In tutte le chiese bizantine di Calabria  si celebravano le feste mariane dell’Annunciazione, della Natività della Vergine e della Dormizione della Beata Maria, che il calendario liturgico del rito greco faceva precedere o seguire i grandi eventi cristologici del Natale e della Pasqua.

 

Anche ai piedi del maestoso castello di Simeri hanno resistito agli smottamenti e ai  frequenti terremoti altre “grutti di remiti”, ricavate nell’arenaria miocenica: sono celle o chiese ipogee di più vani  –  alcune abitate sin dall’età neolitica, come i Sassi di Matera  –  che nel corso dei secoli hanno dato asilo anche a briganti e latitanti e sono state utilizzate come rifugio antiaereo durante i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale.

grotta

Simeri, grotta eremitica

 

Fino agli anni ’70 del secolo scorso la cripta più grande ha ospitato una famiglia del luogo e ricordo chiaramente che l’accesso era inibito da una porta metallica, opportunamente  incernierata nella roccia.[5]

I due ordini di cripte (della Grecìa e  del Vaglio) costituivano altrettante laure di monaci basiliani, cioè modesti raggruppamenti di celle separate, funzionali alla vita esicastica, secondo la tradizione del monachesimo orientale, siriano, egiziano e palestinese. Nelle grotte, come nelle spelonche e nel deserto, gli asceti, corroborati dalla grazia della pazienza, praticavano l’apàtheia ( superamento delle passioni) con l’ esìchia ( silenzio interiore), nell’itinerario mistico  verso la contemplazione luminosa divina, attraverso le tre tappe della dottrina spirituale dei Padri, cioè la purificazione, l’illuminazione e  l’unione mistica con Cristo.

Morire alla propria volontà e al proprio Io, per vivere in Dio, superansenza il turbamento dei sensi, in uno stato di quiete e d’immobilità[6]: così si perseguiva la comunione con l’Incomunicabile e la conoscenza con l’Inconoscibile, rese possibili dall’incarnazione do ogni visione naturale e ogni  limite, senza movimento, senza il turbamento dei sensi, in uno stato di quiete e d’immobilità[6]: così si perseguiva la comunione con l’Incomunicabile e la conoscenza con l’Inconoscibile, rese possibili dall’incarnazione del Verbo.

La Pragmatica Sanctio dell’imperatore Giustiniano  –  con la quale, nel 554, il “Corpus Juris Civilis” veniva esteso alle regioni italiane conquistate da Costantinopoli –   prevedeva anche lo stato cenobitico dei monaci, cioè la vita comunitaria, con la libertà di ritirarsi in romitaggio in una laura, ma con l’obbligo di praticare, oltre all’ascesi, anche il lavoro manuale e la lettura.

L’ascetario di Simeri   –  che richiama nella struttura le “Pente” di Rossano, ma anche le grotte dei nabatei orientali e i templi indiani della roccia dedicati a Shiva –  è di scarso valore architettonico, in quanto, per la vita di austerità  degli eremiti che le abitavano,  tutto era ridotto al minimo indispensabile e la vita si svolgeva simile a quella degli uomini trogloditi: all’interno vi erano giacitoi di pietra, reclinatoi che servivano da letto, nicchie-ripostiglio, pietre sporgenti adoperate come porta- lucerna e l’achiropita icona della Theotokos (Madre di Dio) e degli Evangelisti

In queste grotte i monaci  coltivavano in penitenza il loro ideale ascetico, in intimo colloquio col Padre e, al  mattino, uscivano insieme a cantare gli inni al Signore. I primi Basiliani[7] erano giunti in Calabria nel VI secolo, provenienti dal lontano Oriente, da dove, ancora nell’VIII secolo, tornarono a fuggire per scampare alle persecuzioni iconoclaste dell’imperatore bizantino Leone III Isaurico, il quale, contro la volontà di Papa Gregorio II, con editto del 726, aveva vietato il culto delle immagini sacre e aveva confiscato il Patrimonium Sancti Petri delle chiese della Sicilia e della Calabria, reintegrandole nella giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli.

A Bisanzio  – o per delega alla Metropolia di Reggio  –  e non più a Roma venivano consacrati i rettori delle chiese “cattoliche”, ai quali veniva assegnato il titolo di Prothopapi o Ditterèi.[8]

La chiesa latina dovette grecizzarsi e finanche i monasteri Castellense e Vivariense, fondati da Cassiodoro nel VI secolo, dovettero subire le persecuzioni iconoclastiche: per 4 secoli il papato perse ogni autorità sulle province ecclesiastiche del Bruzio, sulle metropolìe di Reggio e di Santa Severina come  sulle  diocesi suffraganee di Vibona, Tauriana, Locri, Squillace, Crotone, Tropea, Rossano, Amantea, Nicastro, Cosenza, Nicotera, Bisignano, Umbriatico, Acherenthia e Isola.

Le persecuzioni iconoclaste, ma anche le incursioni arabe, provocarono diverse ondate di arrivi nel Meridione d’Italia di monaci melchiti, copti e basiliani: prima con le armate di Belisario e Narsete contro i Goti e successivamente dalla Siria, dalla Palestina e dall’Egitto. Le nostre contrade, come quelle della Puglia e della Sicilia, pullularono di  cenobi, di ascetari anacoretici e di laure eremitiche dei discepoli di San Basilio di Cesarea e vennero  così di nuovo ellenizzate nella cultura e nei riti religiosi. Sorsero i  monasteri di Aulinas a Reggio, di S. Giovanni Therestis a Stilo, di S. Filarete a Seminara, di S. Pancrazio a Scilla, di S. Adriano a San Demetrio Corone, di S.Maria di Zarapotimo di Catanzaro, della Beata Maria “ de Rokella apud Palaepolim “[9], della Vergine Deipara di Taberna Montana[10], del Mercurio nella valle del Lao, al confine col Principato longobardo di Salerno.

Con l’affermazione dell’egemonia bizantina nell’Italia Meridionale, venne reintrodotto il greco come lingua[11] ufficiale della chiesa e dell’amministrazione, scomparve l’antico principio romano della divisione dei poteri civili e militari e fu instaurato il regime dei “Themi” e delle “tourme”, cioè delle circoscrizioni territoriali rette da un unico e potente “Stratego”, detto Catapano. Parte del governo, però, fu intenzionalmente lasciato all’aristocrazia indigena, che viveva nel castron, attorno al quale ruotava l’economia della zona.

bartolomeo

Bartolomeo

 

Con lo scisma d’Oriente del 1054, i cristiani ortodossi del patriarca Michele Cerulario non intesero riconoscere l’infallibilità e il primato del papa romano (Leone IX) né il dogma della SS Trinità e il celibato degli ecclesiastici, pur mantenendo in comune con i cattolici romani i riti e i sacramenti.

Nel concilio di Melfi del 1059, Roberto il Guiscardo veniva proclamato duca di Puglia e di Calabria, diventando formalmente vassallo del papa.

Con l’arrivo dei Normanni in Calabria e la loro definitiva vittoria nel 1064 contro Bisanzio, iniziò il declino dell’ordine basiliano e la liquidazione del grecismo, a favore della rilatinizzazione della Calabria:  la gerarchia ecclesiastica fu staccata dal Basileus di Costantinopoli e i vescovi greci furono sostituiti con quelli latini, degli ordini dei benedettini, dei cistercensi, dei forensi e dei certosini.  Sorsero anche nuovi conventi e abbazie, come quella di Santa Maria della Sambucina e del Carbone, di S. Maria di Arena, di S. Gregorio di Briatico, di S. Jannis  e S. Nicolai di Cerenzia, di Santa Maria di Stilo, nelle quali vigeva la “Regola Monachorum” di San Benedetto da Norcia, incentrata sull’obbligo della povertà, della castità, della sottomissione all’autorità ecclesiastica e sul  motto “Ora et labora”.

Nel 1073 giunsero a Catanzaro e in altre parti della Calabria gli Ebrei “industriosi per loro natura e dediti alle mercantie e ad ogni genere di negotij”

Nel 1091 Bruno de Hostenfaust  di Colonia, chiamato in Italia da Grenoble da Urbano II, si ritirava sulle Serre Calabresi e fondava una certosa cistercense e la chiesa di Santo Stefano del Bosco.

Con i Normanni fu introdotto il sistema delle signorie feudali e dei feudi laici o civili: al centro della Calabria e della rete vassallatica fu creata la Contea di Catanzaro, affidata  nel 1075 a Ugone  di Falluc, poi al figlio Mahera  e infine, nel 1086, ai fratelli Ruggero e Rodolfo di Loritello.[12]

A quel tempo Mileto era un centro strategico, amministrativo ed economico prestigioso, essendo la prima sede episcopale latina di tutto il Meridione, dimora e capitale del regno del “Bosso”, cioè del conte Ruggero, figlio di Tancredi d’Altavilla . Ma nel 1105 la vedova di Ruggero, la contessa Adelaide, reggente del figlio Ruggero II, trasferì la capitale del regno a Palermo, per cui Mileto decadde prima al rango di Ducato e poi di Contea.

Intanto riprendevano, endemiche, le incursioni arabe dalla Sicilia, costringendo i Normanni a rivedere la loro politica contro il monachesimo calabro-greco, che godeva di grande considerazione tra la gente. Venne così autorizzata la costruzione di nuove abbazie greche, come il Mercurion (ad opera di  San Nilo), il Patirion di Rossano, il Trigona di Sant’Eufemia di Sinopoli  e il SS Salvatore di Messina, ad opera di San Bartolomeo da Simeri, dell’ordine basiliano.

Apollinare Agresta, narrando la vita di S. Nicodemo, stimava in circa 400 le famiglie religiose basiliane; padre Fiore, invece, elencava 93 “cenobi rovinati di questa religione”, di cui solo 15 “ con ancora in fiore l’osservanza monastica”, poiché “il rimanente se lo portò via la voracità del tempo…l’ostilità dei Saraceni…e l’insana cupidigia delle commende”.

rossano

Rossano, Patirion

 

“De’ secoli ne la leggenda

la melurgia dei greci

levasi ancora

e benedice

la semenza feconda del dolore,

la messe ondeggiante della vita,

la mano taumaturga

del Papas

antico.”       (Mario Squillace, “La cattolica”, in “Calabria”, Cz,1971)

compatrioti del medesimo spirito”, verso le montagne di Rossano, “cibandosi là solo di ghiande, di radici Per sfuggire alle incursioni saracene, nel 1050, dalle laure di Simeri partiva l’eremita Nisone,“ in compagnia di altri suoi  e di castagne”.

Verosimilmente Bartolomeo, nato in quell’anno, non frequentò l’ascetario della sua Simeri, dal momento che, giovinetto, “ si dilettava della frequenza de’ sacri Templi, ne’ quali consumava tutto il tempo di sua vita cantando inni e salmi”, prima di vestire l’abito monacale “ nel monastero qual fioriva in molta santità sotto la disciplina di San Cirillo, frammezzo tra Gimigliano e Taverna”, come si legge nel Bios del Santo, scritto in greco da un suo discepolo e tradotto in latino da Ottavio Gaetani, nella  “Vitae Sanctorum Siculorum”. Infatti il Santo non nacque in “ ornata urbs, sed in vile obscurunque oppidulum in his Calabria patribus  situs, qua meridie spectat, nomen vero patriae Simmari”[13]

 

chiesa colleg

Simeri, Chiesa collegiata

 

Dopo l’investitura ducale di Roberto il Guiscardo, Papa Nicolò II riprese con le chiese greche i contatti interrotti a seguito dello scisma di Santa Sofia del 1054: l’opera di mediazione tra la chiesa  romana e quella greca fu affidata  al monachesimo greco di Calabria e particolarmente a Bartolomeo, monaco di rito greco, ma devotissimo alla Santa Sede.

“Nella diocesi di Catanzaro è la terra di Simari, in cui nacque Bartolomeo, da Giorgio ed Elena, ambedue ricchi e nobili; nel battesimo fu chiamato  Basilio per devozione a San Basilio, di cui in progresso di tempo divenne figlio del suo ordine. Da principio  fu ben’educato nel timore del Signore, ond’egli fuggiva tutti gli spassi, giuochi ed altre cose puerili. Col tempo venne avviato allo studio delle Sacre Lettere, in cui fe’ gran progresso….Quindi segretamente partito da casa, s’incamminò alla volta del beato Cirillo monaco di gran nome”.[14]

statua

Statua di San Bartolomeo da Simeri

 

Il  manoscritto originale  del “Bios”  è contenuto nel primo dei due grossi volumi del “Messanensis Graecus 29” della Biblioteca Universitaria di Messina, già dell’archimandritale monastero del San Salvatore: scritto in greco, in forma di panegyricon, porta la data del 1307 a.D. (a.m.6816), anno di copiatura da parte di Daniele Scevofilace, addetto alla custodia degli arredi del  San Salvatore di Messina. Augusto Mancini e diversi altri studiosi non riconoscono nel copista Daniele l’autore del Bios, che viene identificato in Filigato di Cerami, monaco del Patir del XII secolo. Nel 1762, i Bollandisti inserirono il Bios in “Appendix ad diem XIX augusti” degli “Acta Sanctorum”  (Septembris, tomoVIII, pag.816-26): l’edizione a stampa è composta  dal testo greco e dalla traduzione latina di padre Agostino Florita ( “aliquot locis correcta”).

Attratto dalle rinomanze delle laure eremitiche di Rossano, Bartolomeo, dopo varie peregrinazioni per le spelonche del Monte Trigone, fissò la sua dimora lungo il torrente Melitino, ove affluivano molti fedeli, “non solo da vicini, ma ancora da lontani paesi, per vederlo, che a somiglianza di un altro S.Giovanni Battista nel deserto, con l’esempio e con le parole invitava tutti a far di loro peccati penitenza. Soleva anche condurre discepoli e visitatori in un oratorio sotto il nome della Beata Vergine e di San Giovanni edificato ne’ tempi addietro da un monaco chiamato Nisone, vorrà forse dire Nilo da Simeri, ch’edificò cotal luogo”.

Un giorno, mentre stava in orazione,  gli apparve la Madonna, “tutta di luce attorniata e col bambinello Gesù nelle braccia e dissegli: Bartolomeo, lascia per adesso il ritiro nella solitudine…e fabbrica un monastero. Che costruì anche con l’aiuto di Cristodulo Ammirato e di Re Rugieri”.  Infatti, l’ammiraglio Cristodulo   – dall’Amari e da Chalandon identificato con Abd-er-Rahman en Nasrani  –   lo presentò alla corte normanna, che subito appoggiò  il voto del Santo, consentendogli di erigere un  monastero di rito greco, di cui lo stesso Bartolomeo, consacrato sacerdote , fu abate, per volere della  contessa Adelasia e contro il volere del vescovo greco Nicola Maleinos di Rossano. La chiesa fondata da Nisone, ben dotata  e feudalizzata nel 1100, venne elevata a monastero archimandritale[15] col  nome di Santa Maria Odighitria[16], poi ribattezzata Patirion, in cui il Santo istituì una scuola scrittoria e di miniatura, un centro di compilazione dei codici e una ricchissima biblioteca. Le illustrazioni delle miniature venivano realizzate col minio rosso mescolato con olio di lino; le icone erano dipinte su legno pregiato, su cui si stendevano 10 strati di gesso levigati con pietra pomice: la superficie veniva ricoperta con lamine d’oro lucidate con agata, prima che l’iconografo dipingesse le immagini, utilizzando una penna sottilissima e 5 colori naturali impastati a rosso d’uovo, miele e latte di fico.

La floridezza della badia consentiva ai monaci di dare ospitalità ai poveri, ai pellegrini e ai forestieri e finanche di apprestare un piccola flotta di navigli, per il trasporto delle masserizie, noncuranti delle continue incursioni saracene.[17]

“ Qui vennero presto i suoi genitori, quali poi si rimasero con esso lui, vestiti monaci, il rimanente della lor vita ”. Il monastero fu poi feudalizzato, con grande disappunto sia del vescovo di Rossano che dei Benedettini di Mileto, del nuovo ordine latino. Per la prima volta si era verificata una vera e propria rivoluzione del diritto canonico bizantino. Prima ai monasteri era sì riconosciuto il diritto di proprietà e ai monaci  quello di possedere in proprio, ma, per tali diritti,  né l’abate né i monaci erano  obbligati al benefattore o patrono: ora, invece,  i monaci non erano più indipendenti dal sovrano e i Normanni potevano garantirsi, accanto alla sperata fedeltà della popolazione di tradizione bizantina, anche l’ingerenza nel monachesimo calabro-greco.  Bartolomeo fu consacrato abate non dal vescovo di Rossano, ma da quello di Belcastro e Santa Severina. Il conte Ruggero chiese al papa il privilegio dell’ “ abatia nullius” a favore del Patirion, che fu accordato da Pasquale II nel  1105, non solo come atto di deferenza per gratitudine verso la corte normanna, ma soprattutto per facilitare  la ripresa di amichevoli relazioni con la Chiesa d’Oriente, mediante l’opera dei basiliani di Calabria.  Della bolla si ha testimonianza storica nel codice greco vaticano 2050, proveniente dal Patir, che , al foglio 117,recita: “Il presente libro degli asceti di S. Basilio fu terminato l’8 agosto, martedì alle ore 15, dell’anno 6213, nel quale il SS Papa Pasquale concesse al nostro Padre Bartolomeo un privilegio di esenzione a favore del suo santo monastero”, dedicato alla Madonna Odighitria  o Deipara di Costantinopoli  e posto “sotto l’immediata protezione della Santa Sede”.

Più tardi Ruggero confermò le concessioni fatte da Guglielmo Losdun e nel 1122 Manila, madre di Gugliemo I, concedette tutte le terre poste tra i fiumi Crati e Coscile; nel 1198  Papa Innocenzo III confermò il privilegio dell’abatia nullius e le prerogative sulle chiese di S. Maria d’Orsino, S.Nicolò di Lista, S. Salvatore di Brindesi, Sant’Apollinare di Cochile, S. Maria di Scalito, S. Pancrazio della Grecia, S. Onofrio di Calovita, di S. Costantino dell’Isola, di S. Nicolò di Pania, di S. Elena, di S. Costantino di Otece, di S. Maria dell’Alimento, di S. Nicolò delle Donne, di S. Dionigi di Casobono, sui casali di Crepacuore, Libonia, S. Giorgio e Casalini.

Il catalogo degli abati o archimandriti del Patir inizia col fondatore, il Beato Nilo di Simeri, il quale “ visse in esso come superiore 30 anni e più, dall’anno 1060”[18].

Nel 1102, Bartolomeo partì con alcuni monaci per Costantinopoli, allo scopo ufficiale di procurare codici orientali e icone per il suo convento, ma , verosimilmente, gli furono affidati anche incarichi politici da parte dei Normanni e dal papa. Certo è che egli fu ricevuto con grande venerazione dal senato di Bisanzio, dall’imperatore Alessio  e dalla principessa Irene, con grande disappunto dei monaci di rito latino e delle stesse colonie anacoretiche devote della famiglia Melinos di Rossano. .

Successivamente, nel 1112, si recò una seconda volta a Bisanzio, dove, su incarico di Basilio Kalimeris, gli fu affidata la riforma del monastero di San Basilio  del Monte Athos, in Calcidia, che da quel tempo prese il nome di “ monastero del calabrese”.[19]

Il monastero era sorto al tempo di Niceforo Foca, nel 963, attorno alla figura del monaco Atanasio, il quale entrò subito in conflitto con gi anacoreti del luogo, sostenitori della povertà del deserto e delle spelonche e non già delle grandi costruzioni di pietra, come quella della Grande Lavra di Atanasio. Era l’ennesimo conflitto tra la concezione della vita monastica cenobitica  e quella esicasta, tra l’apertura  al modo e il rifiuto della propria volontà e del pensiero girovago.

L’imperatore Giovanni Zimisce aveva inviato sull’Athos il monaco Eutimio del monastero di San Giovanni di Studion, per svolgere un’inchiesta, che si concluse col riconoscimento dei diritti dei grandi monasteri di Atanasio e con la raccomandazione della lettura del “De lege spirituale”[20] e del codice disciplinare dell’imperatore-teologo Giustiniano.

Si stabilì che non esisteva alcuna supremazia dello stato eremitico su quello lavriotico o cenobitico e che tutti erano obbligati al rispetto delle “Regole Maggiori” e delle “Regole minori” di San Basilio, le quali imponevano ai monaci di mantenere la stabilitas loci, l’ascesi , la vita comunitaria, il lavoro e l’assistenza ai bisognosi.

Nel IX-X secolo sul monte Athos  si era sviluppata una colonia monastica di asceti kelliòti o kalibiti (solitari),  i quali avevano assunto lo stato giuridico di una federazione internazionale, mentre i monasteri continuavano ad offrire asilo sicuro ed inviolabile a chiunque, dal momento che era stata proclamata  l’inviolabilità del foro ecclesiastico di ogni singolo monastero, con conseguente divieto ai giudici laici d’interessarsi dei reati commessi nel monastero e nelle sue vaste pertinenze.

Sotto il regno di Alessio I (1081-1118) scoppiò un grande scandalo in quella repubblica monastica: 300 soldati valachi si erano stabiliti nella penisola con le famiglie, come servi al servizio dei monaci, con i quali le donne ebbero abituali rapporti carnali. Il protos Joannikios Balmas andò a Costantinopoli per denunciare lo scandalo al patriarca Nicola Grammatico, che però non aveva alcuna autorità sul monastero autodespoda.[21] Balmas tornò all’Athos e preparò un falso decreto sinodale, che stabiliva l’allontanamento dei valachi, delle donne e dei monaci colpevoli; il consiglio federale dei monasteri, però, chiese spiegazioni all’imperatore Alessio I sull’intrusione del patriarca.  Alessio, con un pittakion,dovette riconoscere  l’indipendenza del monastero.

Nella sua “Riforma”, Bartolomeo rimise in vigore le disposizioni di Giustiniano e modificò il Tipycon di Costantino IX Monomaco del 1052, sia per i monaci cenobiti che per gli idiorritmi,  ai quali impose un regola rigorosissima, che si è mantenuta sino ai nostri giorni. La regola, redatta sotto forma di domanda e risposta, prevedeva: vita in comune, silenzio, temperanza, digiuni frequenti a pane  e acqua, preghiera in comune, vestiti in comune, 6 ore di Uffici al giorno, obbligo del lavoro manuale, ubbidienza al protos, monofagia, cioè un solo pasto al giorno per 200 giorni all’anno, con astinenza da carne, uova, pesce, latticini e vino. Ribadì anche l’àvaton, cioè la “Regola di Platone a Saccudion”  –  ripresa dal Codice Penitenziale di Teodoro Studita  –   che interdiceva l’ingresso al monastero delle donne e di tutti gli animali di sesso femminile.[22]

L’asceta, nel suo cammino verso l’unione mistica, doveva uniformarsi al comandamento divino di non anteporre nulla a Cristo, anzi d’immolarsi per Lui e morire al proprio Io. Secondo l’insegnamento  dei “Discorsi ascetici d’Isacco di Siro” e della “Catechesi” di Simeone Nuovo Teologo, la conversione interiore (metanoia) genera uno stato di compunzione da cui sgorgano le lacrime della purificazione, preludio al perdono dei peccati e conferma della promessa d’essere ammessi al banchetto celeste, col dono della contemplazione ( theorìa) divina.

Successivamente Bartolomeo curò la riforma anche del monastero del Carbone, in Basilicata, di cui divenne abate San Nilo II di Simeri, com’è testimoniato nella Collectio Seguntina e nei Decretali di Clemente III e Celestino III[23]

Il biografo del santo racconta come ogni  giorno il Patirion desse ospitalità a pellegrini e forestieri poveri, perché nella badia, con la santità dei costumi, regnava anche l’abbondanza dei beni materiali. I privilegi e la prosperità dell’abbazia provocarono la gelosia dei benedettini di Mileto, i quali congiurarono contro l’archimandrita allo scopo di discreditarlo e di limitarne l’influenza  agli occhi dei suoi discepoli, del papa, dei Normanni e dell’episcopato latino calabrese. Infatti, nel 1134, due monaci del San Miche di Mileto accusarono Bartolomeo di eresia e peculato, sostenendo che le ricchezze della badia erano frutto di astuzie e soperchierie e che l’archimandrita, per essere amico della principessa Irene e confidente dell’imperatore  scismatico di Bisanzio, era da ritenersi eretico.  L’abate di Rossano comparve davanti al tribunale di Ruggero II, che lo invitò a Messina per il giudizio definitivo.  “ Fu passato decreto che morisse incenerato al fuoco.  Mentre adunque si stava apparecchiando il fuoco, concorsa gran gente a quello spettacolo,  egli supplicò ed ottenne la licenza di celebrare.  Principiato il Sacrifcio e continuato fino all’elevarsi dell’ Ostia, ecco una gran colonna di fuoco , quale levatasi da terra poteva toccare  il cielo, con una moltitudine di Angioli quali ministravano nel Sacrificio al Santo.  Ritrovatisi presente il Conte e tutti i Primati[24], quali a veder sì gran prodigio si resero attoniti:  v’accorrè quasi tutta la città di Messina, onde stupefatti  se gli buttarono a’ piedi, supplicando il perdono. Sciolto il Santo, commandò il Conte che nel fuoco medesimo si buttassero i calunniatori e sarebbe  seguito s’egli  non avesse interceduto per loro. In detto luogo fu edificato il Monastero della Trasfigurazione di Cristo Salvatore”.

 

San Bartolomeo orate

San Bartolomeo orante

Nello stesso anno 1129, Bartolomeo[25] fondò a Messina il San Salvatore  –   per volontà e con le sovvenzioni di Ruggero  –    che divenne un importante centro di irradiazione  ellenistica in tutto il Medioevo. Vi furono inviati 12 monaci patiriensi, con a capo Luca, una consistente somma di denaro, codici e icone orientali; vi affluirono inoltre molti insegnanti di greco, alluminatori[26]  e calligrafi , come Bartolomeo di Reggio.

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Codex Purpureus Rossanensis

 

Rimasero, però, nel Patir i 400 fogli di pergamena del famoso Codex Purpureus Rossanensis del VI secolo, contenete i 4 Vangeli miniati e alcune lettere dei Padri della Chiesa  Orientale, scritti in greco con  lettere  d’oro e d’argento, su pergamene purpuree provenienti dalla Siria.

Nel 1134 i 40 monasteri basiliani furono riuniti in confraternita e posti alle dipendenze dell’archimandrita Luca del San Salvatore di Messina.

Presentendo oramai prossima la sua fine, il Santo volle tornare al Patirion, ove morì il 19 agosto 1140, in fama di santità, per essere sepolto dai suoi confratelli nella cripta dell’Odigitria. Bartolomeo, “ vir santitate plenus”, principe degli agiografi,  studioso dei Padri e delle Sacre Scritture, compilatore di codici[27], innografo tra i più insigni ed esperto diplomatico, fu riformatore di molti monasteri e continuatore della tradizione di San Nilo da Rossano. Nei mosaici di Ravenna e negli affreschi di Santa Maria Antiqua di Roma è raffigurato con capelli ricci, folta barba e con una verga per camminare (a forma di croce) oppure col bastone pastorale degli egumeni.

Nel 1741, Benedetto XIV,  con Decreto della Congregazione dei Riti del 24 marzo, approvò un particolare Ufficio del Santo per le diocesi di Messina, Catania e  Siracusa.

Nel monastero di San Bartolomeo di Trigona (così era anche conosciuto in N.) di Sant’Eufemia, in un reliquiario d’argento, era conservato un braccio del Santo (che veniva portato solennemente in processione), mentre sull’altare maggiore della chiesa della Madonna delle Grazie era collocato un quadro in cui era raffigurata l’apparizione della Vergine all’egumeno; un suo braccio era esposto alla venerazione dei fedeli a Messina, inserito in un busto di rame con la testa d’argento. In occasione della celebrazione del Giubileo del 2000, l’Archivio di Stato di Catania ha promosso una mostra documentaria sulla “Iconografia devozionale nei documenti dell’archivio”, comprendente anche (scheda 85) un disegno a matita su carta (mm. 432 x mm. 276), raffigurante San Bartolomeo, (“mezzo ignudo e mezzo coverto di un panneggiamento che và al nero e nell’estrema parte superiore mostra altro panno interiore bianco”) inginocchiato che tende le mani e lo sguardo verso l’alto. Tale disegno fu inviato nel 1741 da padre Teodoro Parisi all’abate Arena di Messina e nella lettera è precisato che  si tratta di una copia  – eseguita da “un prattico mediocre  –  del quadro di Sant’Eufemia, che riproduceva l’apparizione dell’Odigitria. (Cfr Archivio Trigona della Foresta, Vol. 5, c.73r).  L’altro quadro di Bartolomeo orante (in compagnia di San Benedetto e nell’atto di offrire il suo martirio alla Madonna) si trova nella cattedrale di Patti (Me) ed è opera del pittore locale Francesco Nachera (1813-1881).

 

Nel Patirion e nel SS. Salvatore, accanto ai Noviziati e alle biblioteche con gli annessi scriptoria, istituì  anche scuole laicali, per l’insegnamento della teologia, della medicina, dell’astrologia e della geografia e per la formazione dei maestri librari, degli scribi, dei miniaturisti, dei decoratori, degli ebanisti, degli orafi, i quali contribuirono a diffondere la cultura calabro-greca in Italia  e in Europa.

Copie dei documenti del Patire e numerosi codici vaticani sono raccolti negli “Atti del Congresso Storico Calabrese” del 1969, in “Calabria Nobilissima” del 1954, nel Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata del 1952 e del 1963; altri documenti sono ricordati da G. Minasi in “Le chiese di Calabria dal V al XII secolo”, Na,1893) e in “Byzantine Monastic Foundation Documents” a cura di J.Thomas e A. C. Hero (Washington, 2000). La bibliografia si arricchisce delle opere di G. Cappelli (“Madonne bizantine di Calabria” e “ Monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani”), di P. Laurent (“Les monastères basiliens de Calabre”), di P. Batiffol (“L’Abbaye de Rossano” del 1891 e “Santa Maria del Patire di Rossano”), di C. Diehl (Chiese bizantine e normanne in Calabria), di Nicola Ferrante (Bartolomeo da Simeri, in CS 1979), di A. Mancini (La critica del “Bios” di Bartolomeo da Rossano”, 1907), di Teodoro Minisci (Bartolomeo da Simeri”, in AC), di C. Pronio (Bartolomeo da Simeri”, in Diz. Biog. degli Italiani, VII), di M. Rende (Cronistoria  del monastero e della chiesa di S. Maria del Patire, Na, 1717), di Armando Romeo (Bartolomeo da Simeri e la badia del Patire di Rossano”) di E. Tisserant (I tempi e l’opera di S.Bartolomeo, in BAGG, 1955), di L. Villari (S. Bartolomeo da Simeri o Trigona), G. Giovannelli (Bartolomeo da Simeri, Biblioteca Sanctorum, II, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1962), di G. Breccia (Dalla “regina della città”. I manoscritti della donazione di Alessio Comnero a Bartolomeo da Simeri”), di Gaia Zaccagni (Il “Bios” di San Bartolomeo da Simeri”, BHG 235), di Filippo Burgarella (Aspetti storici del Bios di S. Bartolomeo da Simeri), di A:Guillon (“Le fonti diplomatiche greche del periodo bizantino e normanno in Italia”), di G. Ostrogorski (“Histroire de l’état bizantine”), di J. Gay (“Les Diocèses de Calabre à l’èpoque bizantine”), di G. Musolino (“Calabria bizantina”), di E. Pontieri (“Tra i Normanni dell’Italia Meridionale”), di F. Russo (“Regesto Vaticano per la Calabria”, Na,1957 e “Scritti storici calabresi “, Na,1957), di Antonio Borrelli (“San Bartolomeo di Simeri: eremita, fondatore e abate”), di F. Cosco (“Civiltà rupestri e siti monastici nel Marchesato Crotonese”), di G. Fiore da Cropani, di L. Marsico e di “Bizantinistica” sII( Sul processo per eresia contro Bartolomeo da Simeri).

Intanto, dal 1994, nel sacro monastero greco-ortodosso di S. Giovanni Theristis (il Mietitore) di Bivongi si è trasferita una colonia di tre monaci proveniente dalla Repubblica monastica di Monte Athos, per rinnovare la tradizione del monachesimo di Calabria: come i loro padri spirituali, vivono in celle disadorne, ma sono collegati col mondo per mezzo del  telefono e del computer, per assicurare  concretezza e attualità al loro apostolato religioso, che resta improntato alla  severa ascesi anacoretica dei discepoli di Basilio, di Nilo e di Bartolomeo.

Il 19 marzo 2001, la Conferenza Episcopale Calabrese accoglieva nella ricostruita cattedrale di Catanzaro il patriarca ecumenico Bartolomeo I, pellegrino nel ricordo di Bartolomeo da Simeri, “cui è intitolata la parrocchia ortodossa di Catanzaro”: nell’omelia  venivano ricordati i comuni santi Nilo e Bartolomeo, la cui fama travalica i confini nazionali e rappresenta un  momento alto della storia religiosa, oltre che un “ponte sicuro e stabile per l’unità dei cristiani”

 

 

[1] “Rationes Decimarum Italiae” di D. Vendola, CV, 1939: cfr anno 1328

[2] Cfr. Marcello Barberio, “Da Ocriculum e Trischene”, Rubbettino, 2004;  Marcello Giovine, “Simeri e i suoi casali”, Ursini Editore

[3] Da E. Pontieri sono considerati libri di storia municipale con intenti apologetici:  V. D’Amato, “Memorie historiche dell’illustrissima, famosissima e fedelissima città di Catanzaro”; Luise Gariano,  “Cronaca di Catanzaro”; Orazio Lupis, “  Elementi di storia”

[4] O. Dito, La storia calabrese e la dimora degli Ebrei in Calabria; Sposato, Saggio di ricerche archivistiche  per la storia degli Ebrei in Calabria…; Ferronelli, Gli Ebrei nell’Italia Meridionale

[5] In un recente convegno nel salone delle scuderie del castello di Santa Severina, Elisabetta De Dominicis, F. Cosco e R. De Ruggeri hanno relazionato sulla pluralità e diversità delle grotte rupestri e i siti monastici calabresi e sulle politiche di conservazione e valorizzazione

[6] Come gli Stiliti, che facevano penitenza e predicavano su una colonna

[7] Annoverano anche due papi calabresi: San Zaccaria da Siberene e  Giovanni VII di Rossano (705-707), oltre all’antipapa Giovanni Filigato

[8] D. Vendola, op. cit.

[9] Regi Neapolitani Archivi Monumenta, Na, 1861,Vol.VI, doc.VIII, pag. 159: privilegio di Ruggero del 1094

[10] G. L. Anania, De natura angelorum,  Lib. III, Fol. 507, Ve,1576:

[11] Soppiantò o si sovrappose al latino? (controversia tra  G.Rohlfs e Giovanni Alessio sulla persistenza del greco dei primi coloni ). In Calabria si parlavano 3 lingue: il latino o romanzo, il romaico o bizantino e l’arabo.

[12] Nel 1240 l’imperatore Federico II al grande maresciallo svevo Pietro Ruffo: la casata governò fino alla rivolta di Antonio Centelles (marito di Enrichetta Ruffo) del 1459-64, contro Ferrante I d’Aragona, re di Napoli.

13 Scrive il copista Daniele: “sei di Simeri” significa di un “paese senza importanza”

[14] “Calabria Sacra e Profana” di Domenico Martire Cosentino.

[15] Gli abati erano stati elevati al grado di barone

[16] Significa “colei che indica la via”; l’ Acheropita significa “non dipinta da mano umana”, la Panaghìa è “tutta santa”.

[17] L’abbazia divenne Commenda cardinalizia nel 1500 e Commenda regia nel 1794: fu soppressa nel 1806 con decreto di re Giuseppe Bonaparte. Cfr Domenico Lodovico Raschellà, “Saggio storico sul monachesimo italo-greco in Calabria” 1925

[18] G.Gradilone, “Storia di Rossano”, Mit, CS

[19] Non si comprende perché il Batiffol metta in dubbio la presenza del santo sull’Athos

[20] Dell’asceta Marco del VI secolo

[21] Cioè autonomo e non stauropegiaco o del patriarca

[22] Marin: « Les moines de Costantinoples depuis la fondation de la ville iusqu’à Photius”, 1897).I monaci cenobiti facevano vita in comune, mentre gli idiorritmi viveno ognuno per conto proprio (in abitazioni dette kalive, raccolte attorno alla chiesa o katholicon, dove si riunivano periodicamente per le officature). Il typikòn conteneva le Regole (typoi) del monastero ; con lo stesso nome veniva indicato il libro liturgico delle officiature. Famosi : il Typikon del Monastero del Saba o del Monte Athos (athonita), il Patiriense, quello della fondazione del monastero del SS Salvatore di Messina (scritto dal Luca nel 1131 : Codex Messinensis Graecus 115) e quello di S.Bartolomeo di Trigona (cfr.Katherine Douramani, « Il Typikon del monastero di San Bartolomeo di Trigona », 2003, Pontificio Ist. Orientale).

[23] In “Revue d’histoire écclésiastique”, 1955

[24] L’adunanza del re con i maggiorenti locali era detta “Placito”, come quella tenuta dall’imperatore d’oriente a Pavia nell’851

[25] Confuso da alcuni storici  con Bartolomeo il Giovane da Rossano, secondo abate di Grottaferrata, morto nel 1044: fu seguace e biografo di Nilo, indusse Benedetto IX ad abdicare al papato per una vita monastica a Grottaferrata.

[26] Illustratori di testi antichi

[27] Come  i codici 1992 e 2021 della Biblioteca Vaticana, menzionati dal Batiffol

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