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NATALE TRA PRESEPI VIVENTI E TEMI FOLKLORICI

di Marcello Barberio

 

Il presepe vivente calabrese più suggestivo del 2007 è stato, senz’ombra di dubbio, quello allestito nel vecchio centro storico della “Petragarilla” di Crichi (cz), dove, al posto dei soliti personaggi, sono stati fatti rivivere gli antichi mestieri e le arti della tradizione locale, ricreando scene di ordinaria quotidianità con le putiche, u caccamu, il forno, la forgia, la mandria con lo scarazzu per gli agnelli, u trappitu, il telaio a mano, il mercato e, ovviamente, la capanna della Natività, i cavalli dei soldati romani e dei Magi bardati a festa. Guai a parlare di amarcord con gli organizzatori o di  banalizzare l’evento a semplice specchietto per le allodole della promozione turistica, che troppe volte invade e stravolge la cultura popolare, rendendo falsi i contenuti folklorici, inseriti in contesti inautentici. Si è inteso, invece, andare oltre il generico e compiaciuto museo della memoria, in un tentativo di storicizzare e problematizzare l’evento stesso, qualificando le scelte e offrendo informazioni sulla persistenza nella cultura attuale degli aspetti della vita sociale “messa in scena” con rigore demologico. C’è stato chi ha azzardato per il futuro una rappresentazione multietnica e multiculturale, salvaguardando comunque il sentimento religioso e la pietas della devozione popolare.

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Intanto la panetteria del presepe era sistemata significativamente nella vecchia abitazione di Nicola Barbuto, il parroco del luogo che nel 1839 denunciò alla polizia borbonica i patrioti Luigi Settembrini e Benedetto Musolino, appartenenti alla setta carbonara de “I Figlioli della Giovane Italia”, d’ispirazione anarchico-repubblicana. Nelle “Ricordanze” il parroco Barbuto di Crichi è stato descritto come un uomo ribaldo e ripugnante, “ch’egli era brutto e nero come un topo e aveva il labbro leporino…indegno sacerdote sospeso a divinis, accusato di brutte infamie”. Dalla sua vicenda Giovanni Patari, in “Catanzaro d’altri tempi”, ha costruito il prototipo del delatore per antonomasia, e dei “testimoni falsi”.

Nessuno degli organizzatori, però, ha inteso chiarire il significato allegorico di quella scelta, anche se appariva del tutto evidente il riferimento alla condizione di prete-contadino povero del nostro antieroe. Venti metri oltre faceva bella mostra di sé la tenda di Erode e delle ballerine di Salomè, per evocare la prima persecuzione di Gesù, che la storia ci ha tramandato come “La strage degli Innocenti”. Proprio sul luogo dov’era stata allestita la coreografia della tenda, nell’estate del 1809 si consumò  quella che i giornali europei del tempo definirono “La novella strage degli innocenti di Crichi”, cioè l’uccisione di 38 bambini, figli dei legionari filo-francesi, da parte dei briganti filoborbonici della banda di Bartolo Scozzafava di Tiriolo. L’orrenda strage dei bimbi scannati e buttati nel fuoco è rimasta immortalata in una grande tela dal compianto pittore Domenico Cefaly.

Insomma, per 15 giorni la ruga è tornata alla vita usata e la storia si è fatta palpabile, attraverso la rievocazione di frammenti del tempo che fu, le cui tracce persistono nella tradizione orale.

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A metà percorso, comodamente seduti su balle di paglia, si erano sistemati gli strinari, impegnati a intrattenere il lungo corteo di visitatori con racconti , strine e filastrocche benauguranti, dettate da un raccoglitore-esecutore di canti del folklore locale, che così iniziava il suo racconto: “Quand’ero bambino si celebrava la novena di Natale: per 9 sere consecutive, tutti, maschi e femmine, si andava alla messa vespertina, durante la quale il parroco ci permetteva di suonare le pipitelle di canna marina, prima di seguire festanti, lungo le viuzze del paese, i cerameddari, che suonavano la zampogna e la ciaramella: si fermavano davanti alle porte di casa delle persone più in vista e accordavano antiche nenie in onore del Bambino e della Madonna.

Una specie di “aiutante” intabarrato provvedeva a raccogliere la strina in un cesto grande, che ogni sera veniva  riempito più volte di prodotti tipici locali, come salcicce e soppressate piccanti, fichi secchi ‘nchjettati o infornati, crispeddi, turdiddi, uova, formaggio, ciciari e posa cucivuli.

La strina, infatti, era un canto augurale e laudativo, ma anche di questua, cioè ‘e vùsciula.

I più grandi di noi potevamo rimanere attorno al grande falò fino a tarda ora. Il fuoco era riconducibile a due distinti riti, uno pagano e l’altro cristiano: bruciava il male accumulato durante l’anno, distruggeva il peccato originale e metaforicamente serviva a riscaldare il Bambinello nella grotta della lunga notte di Betlemme, durante la quale si rinnova il grande miracolo dell’Incarnazione, in quella che gli Spagnoli chiamano Noche Buena e i grecanici  calabresi Christòjenna. Nella tradizione locale, preparare e friggere i dolci natalizi continua ad assumere un significato simbolico particolare, propiziatorio e di letizia, per cui le famiglie che durante l’anno sono state colpite da un lutto devono rinunciare, ma possono accettare la strina degli amici, come si fa con  u dazzitu del maiale, secondo il rituale del sistema dei doni della civiltà agro-pastorale.”

Al microfono di una televisione privata il nostro cantore-custode delle tradizioni locali ricordava che il presepe fu inventato da San Francesco d’Assisi nel 1223, per costringere il cardinale Ugolino dei Conti di Segni a celebrare la messa in una grotta a Greccio, nel Reatino, accanto alla mangiatoia, al bue e all’asinello. Intendeva così riportare la pietà popolare alle tradizioni di semplicità e povertà del primitivo cristianesimo.

L’albero di Natale, invece, – sempre secondo la spiegazione del dotto cantore – è di derivazione nordica, essendo connesso alla festa di Adam und Eva Spiele, che si celebrava il 24 dicembre in Germania: era l’albero del Paradiso, dai cui rami discendevano ricchi doni, come le nostre pignolate  e le pitte ‘nchiuse della Sila.

“La festa di Natale” – continuava l’intervista  –  “è assai antica, essendo legata al solstizio d’inverno, quando si festeggiava la nascita del dio-Sole: Horo di Iside in Egitto, Ishtar della Mesopotamia, Wiracocha dell’Inti Rajmi degli Inca, Mitra dei Romani e dei Persiani.

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Nel calendario romano Dicembre era caratterizzato dall’inizio della mungitura e dalle feste Agonalia del Sole Indigete, dei Saturnali (che sovente assumevano carattere orgiastico e di sovvertimento dell’ordine sociale), della Sigillaria o festa dei doni (delle statuette di coccio o sigilla che si scambiavano amici e parenti): i festeggiamenti si concludevano il nono giorno del mese successivo con le Agonalia,   ratterizzate sempre da lauti banchetti, sacrifici, danze, canti augurali e scambi di doni.

Nel terzo secolo, l’imperatore Aureliano istituì a Roma, al 25 dicembre, la festa del Natalis Solis Invicti, sulla quale la Chiesa ha innestato il Natale di Cristo, festa astrologica e cosmica per eccellenza del Sole che nasce, in una notte carica di prodigi e di enigmi, tanto che, secondo una credenza locale, anche gli animali parlano e criticano i loro padroni, se non trovano la greppia piena di fieno e di biada. Nella notte magica le anime dei morti scendono sulla Terra, scananu il pane nella madia e partecipano ai conviti, per cui le tavole devono essere lasciate imbandite, per ogni evenienza.”

Conclusa l’intervista, il primo strinaru così si rivolgeva ai passanti incuriositi:

 

Fermativa, amici mei, non jati avanti,

Ca ccà si fermanu puru li venti,

ca ccà si fermanu li soni e li canti,

ca pene non ci stannu e né lamenti”.

E proseguiva:

“Vi presentiamo 4 versioni di strina, raccolte in altrettanti paesi calabresi. Cominciamo con la strina di Panettieri del 1892, che era accompagnata dal ritmo dei mortai di metallo (sazieri), dei coperchi di pentole e degli zuchi-zuchi, cioè gli strumenti con i quali gli antichi Greci allontanavano le Furie dai morti e i Romani scongiuravano gli incantesimi fatti dalle streghe durante le eclissi di luna. Iniziamo!

 

 Simu arrivati a ‘ssu palazzu d’oru,

nu’ ne cumbeni di jiri cchiù avanti;

intra ce stati vue, cari signori,

‘u paravisu ccu’ tutti li santi.

 

Salutu porti ed archi e ceramili

E pue salutu a vue, cari signori,;

carissimu signori e su ‘ccillenza,

viegnu alle grazie de vossignoria:

raper mu te fazzu riverenza,

vasu a manu alla patruna mia.

Chi vore fare tantu de lu granu

Cchiù can de ìmbarca Cutru e Curiglianu.

 

Chi vore fare tantu de lu vinu

Cchiù can de ‘mbutta Curaggi appendinu.

 

Haju cantatu supra ‘nu bicchieri,

a…..’u via cavalieri.

 

A viu jiri cumu ‘na bandera

A casa casa circannu ‘a strina;

a una manu porta ‘na lumera,

a ‘n’atra manu ‘a galanti strina.

 

Nu’ dissi: bona sira, quandu vinni,

– Bonasira e salute- e jamuninni.

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Ora vogliate gradire la strina di Tiriolo, la cittadina alle porte di Catanzaro:

 

 Sugnu venutu all’uottu de Natale

La notte chi nesciu nuostru Signure.

Sugnu venutu mu mi fai la strina,

fammi la strina chi mi soli fare.

 

Nunn’è vrigogna ca ciercu la strina,

ca la strina la cercau nuestru Signure.

La strina si fa tri voti l’annu

U Vattimu, Natale e Capudannu.

 

Fammi la strina e falla de prusutti

Si nunn’hai curtieddu scoccamilli tutti.

Fammi la strina e fammila de tornisi

Pozza mu hai nu figghi gran marchisi.

 

A chista porta cc’è ‘mpenduta na rita

Prima de l’annu mu trase na zita.

A chissa porta cc’è ‘mpendutu nu spitu

Prima de l’annu mu trase nu zitu.

 

Viju na lucicedda vascia vascia,

chissu è Totuzzu chi apera ‘a cascia.

Io non vi ciercu, no, cientu ducati,

sulu la porta pemmu m’apariti.

 

Se non siete già stanchi, vogliate ascoltare ora la strina di Aprigliano, che ovviamente  inizia così:

 

Forza cumpagni ccu ‘ssu bellu cantu

Cà simu du paise ‘i Donnu Pantu

 

Fammi la strina ca me voi fare

Chilla de  Capudannu e de Natale.

 

Quattru spuntuni e quattru spuntunere

Quattrucentu anni campi la mugliere

 

Haju saputu c’ha misu cannella

Intra la vutticella de lu vinu

 

E due alevelle le volimu puru

Cà ‘ntra ‘ssa casa ce su’ de sicuru

 

‘A vurpa luongu e curtu avia lu pilu

‘un mi ne vaju e cca si prima ‘u vivu

 

Aguri assai assai e longa vita

Rapa ‘ssa porta ch’a strina è finita.

 

Canta lu gallu e gruddulìa li pinni,

ti damu ‘a bona notti e jamuninni.

 

 

Se, però, la porta non si apriva, partiva subito la strofa di cerma (imprecazione e maledizione):

 

‘Mmienzu ‘ssa casa ci penni ‘nu  rùollu,

quannu camini ti spiezzi lu cùollu!

‘Mmienzu ‘ssa casa ci penni ‘nu fusu,

chi pozza fari ‘nu figliu tignusu!

 

Come orami vi è chiaro, la strina può presentarsi sotto svariate versioni, come quella devozionale, di riappacificazione, conviviale, rituale, di sdegno.

Il canto devozionale inizia così:

E vinni annu e vinni de Natala/ ppe strina mi dunasti nu maiala

La strina di riappacificazione, invece, fa così:

E vinni annu e vinni de sti tempi/ ppe strina mi rumpistivu li denti

Se malauguratamente finiva di nuovo male, perché il padrone di casa non apriva la porta, l’augurio diventava:

Quanti pili tena ru ciucciu/ tanti tumini di piducchi;

quanti pili tenar ru mulu/ tanti caci a ru culu;

quanti pili tena ra gatta/ tanti cancari chi ti vatta!

Ora, signore e signori, concludiamo con la nostra strina, che si canta a mo’ di coro, con accompagnamento d’organetto e chitarra:

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Caru cumpari ca simu venuti

Ca simu venuti oilà

E ppè mill’anni sia lu ben trovatu!

 

C’è vinni annu e vinni de sti tempi,

oi de sti tempi oilà,

ppè strina mi dunastivu dui jenchi;

c’è vinni annu e vinni de Natala,

oi de Natala oilà,

ppè strina mi dunasti nu maiala.

 

Chi pozza fara de li beddi jorni

de li beddi jorni olià,

quantu c’è pampineddi a sti cuntorni.

 

Chi pozza fara de li beddi anni

de li beddi anni oilà,

ppè quantu a Roma c’ampranu li panni.

 

Viju na lucicedda vascia vascia

oi vascia vascia oilà,

pija i turdiddi dintra chidda cascia.

 

Viju na lucicedda a scala a penninu

a scala a penninu oilà,

pija a ‘mpagghiata du vinu.

 

Intra sta casa ce penna nu sozeri

ce penna nu sozeri oilà

ca ru patruna u vidimu nu cavaleri.”.

 

E de sta scala ce penna na pettinissa

na petinissa oilà,

a ra patruna a vidimu na principessa.

 

Levati, donna, de stu jancu lettu,

de stu jancu lettu oilà,

si nun hai ficu, pigghia li crucetti

Levati prestu e nun tardara tantu

nun tardara tantu oilà,

ca de lu friddu mi catta puru u mantu.

 

E da sta casa ce schiaccia na gatta

ce schiaccia na gatta oilà,

jamuninna ca la strina è fatta.”

 

All’applauso seguiva una meritata pausa: breve, ma necessaria.

Intanto i visitatori seguivano il percorso del presepe fino alla capanna della Natività, dove una giovanissima madonnina, davanti al bue e ad un asinello bianco, continuava a recitare la delicata ninna nanna di Vincenzo Padula:

“Dorma, bellizza mia, dorma e riposa,

chiuda ‘a vuccuzza chi para ‘na rosa,

dorma squietatu, cà ti guardu iu,

zuccaru miu!”

 

La capanna era stata sistemata nella piazza antistante la settecentesca chiesa parrocchiale, a 10 metri dalla statua di Padre Pio, fatto oggetto di venerazione a volte parossistica, che non tiene conto neanche della cosiddetta “gerarchia della  santità”. Così come per la grotta, davanti alla quale certa  religiosità popolare non riusciva a ben distinguere la venerazione dell’oggetto dal suo archetipo, da ciò che rappresenta, con cadute precipitose verso forme evidenti di idolatria feticistica.

Intanto alcune signore offrivano crispelle e panetti natalizi, modellati con i simboli liturgici di Cristo e della solidarietà nel mondo rurale, mentre una piccola “banda” di ragazzini intonava la nenia dello sdegno per un Natale d’indigenza e per i tristi presagi del futuro:

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Mo’ vena Natala e nun tegnu dinari,

mi pijiu na pippa e mi mintu a fumara;

moò vena Natala e pana non haju,

tornu ala casa e mi vaju a curcara.

Ma tegnu nu ciucciu chi si chiama Cudducciu

E tegnu na vacca chi si chiama Barracca,

chi quannu camina

fa tricchiti tracchi..”

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