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ROSINA LUPIA, CONTADINA-POETESSA ANALFABETA

di Marcello Barberio

Solo recentemente Franco Santopolo mi ha fatto conoscere la storia di Rosina Lupia di Belcastro (CZ), poetessa-contadina senza scuola, protagonista delle lotte per l’occupazione delle terre incolte del Marchesato Crotonese e dei territori ionici contermini durante l’ultimo dopoguerra, nonché interprete originale e profonda della cultura popolare identitaria, a lungo condannata alla marginalizzazione, all’insignificanza e all’oblio.

“Una donna bellissima e dotata di grande carisma, intelligenza e sensibilità, inventava poesie e canzoni”, che dettava a un bambino, sottraendole così all’oblio del tempo, ma non all’incuria degli uomini, soprattutto dei cultori della retorica contadina e dei valori naturali e primitivi, come Curzio Malaparte e Giovanni Papini: “mi sento profondamente d’accordo con le vacche e con la nostra cara e buona lingua di bifolchi e di genii”.

Rosina partiva dal gradino sociale più basso, essendo donna, povera e analfabeta, puntualizza Santopolo, integrando quanto scritto da Alberto Iacoviello sull’Unità il 31 marzo del 1950: “E’ una specie di genio contadino, parla un linguaggio che contiene la saggezza di secoli e la verità comune a migliaia di contadini”. Una ribelle (secondo i canoni di Eric J. Hobsbawm), non il buon selvaggio o il genius loci del folclore locale, da rinchiudere nello spazio sociale e letterario del caso singolare. Rosina è poeta del mondo contadino calabrese, cantora della giustizia e della fratellanza, dei valori identitari della cultura subalterna e della tragica regressione del Sud negli anni del boom economico del Nord, che ispirava a P.P. Pasolini il famoso epigramma: “chi era coperto di croste è coperto di piaghe/ il bracciante diventa mendicante/ il napoletano calabrese/ il calabrese africano/ l’analfabeta una bufala o un cane”. Una figura marginale nella gerarchia della società locale   –   subalterna ed esclusa   –   che riesce a conquistare una sicura centralità ed evidenza sociale, col suo carico eversivo rivoluzionario (donna senza marito, povera e senza scuola) di soggetto organico e vivo di un collettivo-casa, vissuto come un’altra religione del suo tempo. Aveva rifiutato l’emigrazione assistita e programmata in Brasile, dove l’Istituto Nazionale per il Lavoro all’Estero aveva pianificato la fondazione di una colonia agricola a Pedrinhas, al confine col Paranà, sul presupposto che “la terra è insufficiente per trattenere i contadini in Calabria”.

 

 

Molte famiglie continuavano a sopravvivere con un pane al giorno e con una minestra di cicorie selvatiche o di fagioli; il pane veniva diviso in due parti, metà per il capofamiglia procacciatore di reddito e l’altra metà per i figli e la madre. Qualcuna era morta letteralmente di fame, dopo aver allattato l’ultimo nato. Emigrarono in Brasile oltre 110.000 Italiani, più del doppio in Venezuela, 464.000 in Argentina e mezzo milione negli Usa e in Canada. Intanto in Calabria, seguendo il principio dell’appoderamento, venivano costruiti 24 nuovi borghi e 4.736 casette rurali sui 74.813 ettari di terreni espropriati o acquistati dall’Ente di Riforma (OVS) e assegnati dalle prefetture e dalle apposite commissioni circondariali a 18.759 famiglie contadine povere, al fine di mitigare le tensioni sociali nelle campagne. Sull’onda delle occupazioni spontanee di massa (invasioni per i latifondisti) di settembre del ‘46, Rosina, alla testa di una cooperativa di contadini e di braccianti di Belcastro, aveva occupato e colonizzato una quota dell’uliveto incolto del marchese Giulio Berlingieri, gravato di usi civici. L’occupazione degli uliveti era stata considerata da più parti come una vera e propria forzatura interpretativa del r.d.l. 279/1944 (decreto Gullo) e del significato di terreno mal coltivato nel latifondo dagli assetti agrari arcaici. A metà degli anni ’60, si tentò di espropriare la sua chiusa, col pretesto dell’attuazione di un progetto di ammodernamento della strada provinciale adducente alla S.S.106: uno smacco o una vendetta politica per la nostra poetessa, la quale non esitò ad adire fruttuosamente le vie legali (la Pretura di Cropani) e a rivolgersi direttamente al Presidente della Repubblica, on. Giuseppe Saragat, lanciando nel contempo strali e ammonimenti ai suoi avversari: “…. cu’ vö mala a mia/gira a nu fusu e non conchjuda nenta!”

 

 

ROSINA AL PRESIDENTE

Mio caro e bene amatu Presidenta,

ti scrivu chista littara ‘e luntanu,

ppe’ mma ti dicu ca c’è nu pezzenta

chi vö ppe’ ma mi futta de stramanu,

nu pezzareddu ‘e terra d’o ponenta

ma fa ‘na strata cchi scinda a lu chjianu.

E’ megghjiu ma ‘nterveni, Presidenta,

e ma ci dici, a chistu sacristanu,

 

nomma fa u’ fissa, ca ddocu, comu nenta,

Peppinu caru, cu’ vö mala a mia,

gira a nu fusu e non conchjuda nenta!

A chistu puntu, aju fiducia ‘e tia

cchi sì cumpagnu e puru Presidenta.

Chiudu e mi firmu. Rosina Lupia.

 

In apertura di processo, chiese al suo avvocato di leggere la “Marcia di braccianti di Melissa del 29 Ottobre 1949” di Leonida Repaci, là dove è scritto: “Al breve comando di un graduato i celerini aprono il fuoco, Zito e Nigro cadono nel loro sangue [….] cade anche Angelina Mauro. Stramazza colpita in fronte […] Una giovinetta raccoglie e stringe al petto la creaturina di Grazia Palà. Sembra la neonata un enorme insetto rosso, da cui esca per miracolo un vagito umano”.                                                                                        Rosina era nota alle forze dell’ordine come sovversiva partecipante alle invasioni delle terre e alle manifestazioni per una più equa ripartizione dei prodotti agricoli e per gli scioperi alla rovescia. C’informa Santopolo: “Rosina venne da me perché le scrivessi, secondo il senso da lei voluto, una lettera di accompagnamento con la quale restituiva al Presidente la risposta presidenziale che la Prefettura intendeva cestinare”.

IL PRESIDENTE A ROSINA

Cara Rosina, ti ringrazio assai.

Ti mandu chista littara firmata,

ccussì, si hai ‘e risolvira ‘ncunu guai,

mò ti po’ dira propriu sistemata.

Va’ du’a u’ Prefettu e portaci ‘sta mia

E aspetta ‘na risposta già in giornata.

E poi ci dici ca sì Rosa Lupia

e voi chista faccenda sistemata.

Spero sarai contenta e soddisfatta

e ch’a cosa si sistema. Ppe’ tramenta

fa finta ch’esta già ‘na cosa fatta.

Chista, ppe’ mia, è robbicedda ‘e nenta:

‘nta ‘na menz’ura fatta e disfatta!

Ti mando il mio saluto. Il Presidenta.

 

ROSINA AL PRESIDENTE

Carissimo e stimato Presidenta,

ti tornu chidda littara firmata,

ca tantu a firma tua non serva a nenta

e vala, forsi, menu ‘e ‘na cacata.

‘U segretario do’ Prefettu toi,

mi dissa ca finia cestinata

e ca ‘sti littiri, sempra, prima o poi,

finiscianu a lu cessu pp‘a stujata.

Tu sì ‘n amico ma non sì sergenta 

E cunti quantu nu piruna ‘e lettu.

Cchi cazzu voi? Sì sulu Presidenta,

‘on po’ cuntara quantu nu Prefettu

e ‘a vucia tua esta nu ragghjiu ‘e mulu.

Tanti saluti e va’ pigghjalu ‘n culu!

Il prodigio della poesia di Rosina evoca componimenti più diffusi a livello popolare, come Lettera al Padreterno di Mastro Bruno Pelaggi e La preghiera del Calabrese al Padre Eterno” contro i Piemontesi di Antonio Martino; il suo vigoroso realismo e “l’espressionismo linguistico violento e pungente”, inoltre, ne autorizzano l’accostamento al “Lamentu ppi la morti di Turiddu Carnevali” di Ignazio Buttitta:

Turiddu avìa li iorna cuntati

ma ncuntrava la morti e ce ridìa

cà vidìa li frati cunnannati

sutta li pedi de la tirannia,

li carni di travagghiu macinati…

Quasi tutta la poesia dialettale, infatti, rappresenta il sentire comune di un popolo, in particolare  quella del genere narrativo-burlesco e delle rime facete (come Jugale di Antonio Chiappetta, Statte tranquillu di Ciardullo e Prima cantu e doppu cuntu di Giovanni Patari, La scola cavajola di Vincenzo Gallo ‘u Chitarraru) e quella delle opere satiriche che evolvono felicemente in lirica, come in Giovanni Conia, Domenico Piro (Duonnu Pantu), Vincenzo Ammirà, Vittorio Butera e Michele Pane. Si è anche parlato di poesia delle origini della lingua e delle problematiche connesse alla trascrizione delle testimonianze orali, col rischio della contaminazione della forma, dei contenuti e finanche dello stile delle produzioni letterarie che eccedono di molto il rozzo ingegno contadino.   Ci rassicura il fatto che “i sonetti rispettano interamente il mandato di Rosina”, conservando nella riscrittura in dialetto catanzarese (1) a opera di Santopolo una grande purezza espressiva e i segni della forte identità della donna-contadina senza scuola. Temi ripresi negli anni successivi, ma condivisi in situazione con poche altre rimatrici vernacolari analfabete, come Carmela Barletta e Filomena Stancati (Volanu l’anni) e in qualche misura con Francesco Pulitanò (cantastorie delle gesta del brigante Giuseppe Musolino), col bovaro Giomo Trichilo e nei versi giocosi di Giuseppe Vono (Giuvaneddi, tenitivi stritta). Solo in seguito irromperà la poesia colta di Franco Costabile (La rosa nel bicchiere), di Achille Curcio (’A vertula d’o poeta; ‘A scola è ‘na virgogna), di Giuseppe Selvaggi (Canti ionici), di Giusi Verbaro Cipollina (Nel nome della madre; Otto tempi d’amore), di Anna Borra (Canzoniere), di Daniela Pericone, di Ermelinda Oliva (terziaria carmelitana), con la riscoperta del “lugubre assolo” nihilista di Lorenzo Calogero di Melicuccà (Quaderni di Villa Nuccia).  Ma queste sono storie ancora in cammino, nelle “scorie dei dubbi” di nuove inquietudini e di veloci frenesie.                  Intanto: “Non vidi, o Padriternu/ lu mundu ma sdirrupi/ch’è abitatu di lupi/ e piscicani” (2).

 

 

 

Note

  • Al tempo di Rosina era in estinzione la lingua albanese sia a Belcastro che ad Andali, per cui ogni comparazione col testo “catanzarese” di Santopolo diventa complicata, sul presupposto che ogni lingua nasce, cresce e muore. Può tornare utile la consultazione della “Grammatica del dialetto petronese” di Fiore Scalzi, essendo Belcastro e Petronà assimilabili alla comune isola linguistica silana.
  • Di Bruno Pelaggi, scalpellino di Serra San Bruno.