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DOMINIO, REGINE E CAPITANI DI VENTURA

Nella Contea di Catanzaro

DOMINIO, REGINE E CAPITANI DI VENTURA

di Marcello Barberio

 

Da quando, nel 1982, Régine Pernoud ha dato alle stampe “La donna al tempo delle cattedrali”, il  secolare pregiudizio sul Medioevo oscurantista e misogino ha subito una radicale rivisitazione critica, sfociata nella controversa opera di Sue Niebrzydowski “Medioevo, prove di femminismo. Così cominciò il potere rosa”, accusata di revisionismo e di uso politico della storia e delle vicende di “donne eccezionali”  come Matilde di Canossa, Isabella di Castiglia e Giovanna d’Arco.

O come le badesse con posizioni di potere e di prestigio all’interno della  Chiesa, in vigenza della legge salica, come le donne-medico  (Trotula de Ruggiero) della Scuola Salernitana  e soprattutto come Eleonora d’Aquitania, regina di Francia e  d’Inghilterra, mecenate di trovatori e di artisti, a dispetto dell’imperante misoginia, trapiantata dalla cultura classica e da diversi padri della Chiesa, sul presupposto dell’imperfezione della donna. Mas occasionatus (maschio mancato) figlia di Eva e perciò naturalmente incline al male, “porta dell’inferno” esortata a essere santa, dal momento che era sostanzialmente estraniata dallo spazio pubblico, per essere marginalizzata nella sfera  privata. Donne inadeguate ad esercitare il potere diretto, secondo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino e sulla falsariga del diritto consuetudinario tedesco-longobardo, che riconosceva la potestà del  mundio al padre, al marito e finanche al figlio minore in caso di vedovanza della madre.  In termini di  cittadinanza,  potremmo parlare di subalternità femminile,  nonostante gli inganni delle apparenze della regalità e del diritto di proprietà.

Senza la tentazione di proporre un personale punto di vista sul tema, mi limito a raccontare la presenza del fenomeno non solo in Provenza o nel Galles, ma anche qui da noi, nella vecchia Contea di Catanzaro, sorta nel 1059, al tempo dei Normanni e per secoli  teatro di scontri tra il re di Napoli e i baroni  ribelli,  soprattutto per motivi dinastici e fiscali. In ultima analisi, di dominio.  L’incipit di questa storia è dato dalle comitissae  Seglegarda e Clemenzia, arroccate nella torre di Taverna  nel 1161, al tempo della ribellione a Guglielmo il Malo: madre e figlia furono sconfitte e ristrette nel carcere di Palermo, mentre il feudo venne incamerato nel regio demanio, fino all’avvento degli Svevi, quando Teodora fu elevata a contessa di Catanzaro  e di Crotone. Nel 1228, un’altra contessa, Simona, e il marito Riccardo di Falloch facevano cospicue donazioni alla chiesa di S. Teodoro degli Eremitani in Simeri, (1) imitati nel 1235 da Simona di Belcastro e da  suo marito Alemanno di Falloch, a favore del monastero di S. Angelo. Nel 1252, il grande maresciallo svevo Pietro Ruffo riceveva dall’imperatore Federico II l’investitura della Contea di Catanzaro, che però veniva revocata 5 anni dopo da Manfredi, inducendo papa Alessandro IV a prendere sotto la sua protezione la vedova del conte, Guida.  Con l’avvento della mala signoria angioina, però, i Ruffo ritornavano in possesso del loro patrimonio calabrese.

Sappiamo che , ancor prima delle Costituzioni Melfitane di Federico II del 1231, lo ius non scriptum o consuetudinario (con valore di legge) contemplava il diritto alla successione feudale anche per linea femminile, sul principio della primogenitura, al fine di evitare o ridurre lo smembramento del sistema feudale e dei beni burgensatici. Un potere diretto e non assistito dalla tutela maschile, un maggiorascato senza mundio delle contesse, le quali potevano godere e disporre in modo pieno ed esclusivo dei propri beni, di quelli ereditati e di quelli derivati dal rapporto vassallatico. E chi (vassallo o signore) non rispettava le regole dell’omaggio e dell’investitura  si macchiava dell’infamante delitto di fellonia, in una società nella quale il diritto di sovranità coincideva con quello di proprietà fondiaria. La formula dell’investitura prevedeva la concessione di terre “cum vaxallis”, privative e diritti particolari (come quello della provvista della dignità ecclesiastica nelle chiese patronali).

All’inizio del XV secolo, alla contea di Catanzaro furono incorporati il marchesato di Crotone, la contea di Belcastro  (2), le baronie di Cropani e di Zagarise ed altri estesi feudi, precisa Ernesto Pontieri (3), con la conseguenza che  Catanzaro divenne il capoluogo di una delle più vaste signorie feudali del Regno di Napoli.  E Vincenzo D’Amato (4), aggiunge:

“Nel corso di questi accidenti cadè la Contea di Catanzaro in persona di Nicolò Ruffo, signor di molto spirito ma di torbidi pensieri e corrotti verso il Re Ladislao, che a Carlo terzo successe nel

1386[ … ]”

Giovanna II

Oreste Dito e Camillo Minieri Riccio (5) riportano un privilegio concesso nel 1417 dalla regina Giovanna II ai cittadini di Catanzaro, dal quale risulta che, dopo la fuga di Nicolò Ruffo,la città  era stata occupata dal conte di Belcastro Pietro Paolo de Andreis di Viterbo, che vessò la cittadinanza con esosi balzelli. Gli abitanti  di Catanzaro avanzarono ad Antomizio de Camponeschi, luogotenente del Regno, richieste di franchigie e privilegi per “li danne et estorsione et altri doni iniusti li quali avimo substenuti “.

Salvatore Di Marzio (6) conferma che l’abilissimo capitano di ventura Pietro Paolo de Andreis di Viterbo, detto Braga, alla morte di Bonifacio IX nel 1398, passò nella milizia di re Ladislao;   per volontà di Giovanna II, “perduta in licenziose feste a voglia d’indegni favoriti”, l’anno 1407 fu costituito Vicerè di Calabria, Capitano generale della Sicilia, Conte di Belcastro e Policastro e Capitano di Catanzaro e di Crotone, con i loro numerosi casali.  Accusato del delitto di fellonia, nel 1417  la sovrana gli tolse la contea, che fu trasferita ad Attendolo Sforza, padre di Francesco, futuro duca di Milano. Lo stesso anno moriva avvelenato (7) e nelle grazie di Giovanna fu sostituito da Pandolfello e da Giovannello Caracciolo (anch’egli ucciso con la complicità della regina e di sua cugina Covella Ruffo).

Il D’Amato così prosegue il racconto dell’intricata vicenda:

“Ladislao è  avvelenato in Perugia, preda delle bellezze di una certa figlia di un medico, persuasa dal padre ad ungersi le parti feconde d’un tal misto datoli, con dirgli haver virtù di maggiormente allettar il Re nel suo amore, ov’egli stimava incontrar il colmo de’ suoi diletti”. Una storia scritta al maschile (il re e il medico, detentori del potere politico e del sapere), col ruolo della donna (ingenua e subalterna a entrambi) circoscritto alla sua “naturalità”.

“Non havendo figlioli, Giovanna seconda sua sorella gli successe[…].rinnovando gli scandali e i disordini della prima Giovanna”, conclude il Di Marzio.

La nuova regina, “fatto carcerare il marito Giacomo dei Borboni di Francia e innamoratasi dal giovinetto Giovannello Caracciolo, a costui voleva dare la Contea di Catanzaro. Ciò saputo i Catanzaresi nella notte del 3 agosto 1417 assaltarono il presidio del castello ed, insorgendo contro la Regina, si dichiararono per l’infelice Re Giacomo. Corse tosto contro Catanzaro il Vice Reggente per la Regina Antonio Camponeschi, che dopo avarii combattimenti venne a patti coi Catanzaresi, i quali vollero riconosciuti i privilegi delle esenzioni della gabella della tintoria  e dell’industria del ferro”.  Qualcuno ha letto nel comportamento di  Giovanna l’anticipazione della metafora machiavellica del leone  e della volpe: l’autorità del Principe fondata sulla forza effettiva è accompagnata necessariamente dalla virtù e dalla fortuna. E Giovanna era regina  educata alla scuola del centauro, metà uomo e metà bestia, umana e ferina contestualmente, con l’assillo di dover declinare e conservare il dominio. Quello esterno e quello del proprio privato. Giudizio, però, non condiviso da Traiano Boccalini nei suoi “Commentari sopra Cornelio Tacito”, del 1677:

“Chi volesse annoverare i sconcerti de’ Regni e le catastrofi per l’oscena libidine delle donne, havrebbe troppo da fare[…] La Regina Giovanna, che come quarta furia d’Italia anche in cenere mi cuoce col fuoco dell’insatiata libidine, col quale abbrugiò la libertà di questa miserabile Provincia    [ …]  Poteva menar felicissima vita, se la sua licenziosa sensualità non l’havesse fatta primieramente impazzire dietro le bellezze d’un tale Pandolfello (8), con cui accomunò se stessa anche vivente il fratello, el marito, ma rumoreggiando poi altamente  baroni e  Popoli del Regno per l’eccessiva potenza[…] ella per quietare i torbidi, che minacciavano tempesta, condiscese a maritarsi a Giacomo Conte della Marcia del sangue di Borbone …”, poi ucciso da  Giulio Cesare Capuano. Intanto Ottino Caracciolo e Quichino Mormello  o Mormile “sollevavano la plebe”, mentre Giovanna, “incapace di freno, l’una volta stratiata lussuria, eccola in preda di Giovanni Caracciolo, huomo di presenza, sangue e volere tra i più insigni di quel Regno, al quale conferì col possesso di se stessa l’arbitrio della Corona. Facilmente la fortuna quietò questi tumulti, ma non già i rumori che dalle oscenità della sfrenata Giovanna un brutto suono per l’Italia, la fame della quale percosse il Pontefice[…] tirò Caracciolo a Roma e creò Sforza suo Capitano[ …] Ma Sforza accorgendosi essere decaduto dalla grazia della Regina, incolpandone l’assenza del Caracciolo, lo fa tornare agli antichi amplessi in Napoli. Quanti errori produsse un errore! La libidine di Giovanna tolse a lei i figli, a Napoli i Regi, alla Chiesa i Tributariy, all’Italia la libertà. Quanti mali partorisce la libidine! Tolse a Pandolfello la vita, a Giulio Cesare Capuano la testa, a Giacomo della Marcia la quiete e l’honore; al Papa il riposo, allo Sforza la fortuna, a Braccio gli avanzamenti, al Caracciolo la dignità, l’anima el corpo”. Prosegue Salvatore D’Amato: “Il Caracciolo richiese un dì alla Reina lo Stato di Salerno. A questa impertinente domanda rispose Giovanna dover bastargli il molto che possiede, senza aspirare al tutto. (Egli) alzò la mano con confidenza d’amante e glie la scaricò su la bocca e lasciolla immersa nel pianto[ …] In tal stato improvvisamente sorpresa da Covella Ruffo sua cugina […] Una reina da un vassallo così vilmente trattata? [dice Cubella].  Cugina, se parli d’honore hò errato, egli hà un pezzo che per le bocche del mondo va diffamando (ammette Giovanna). Ti rammento il rispetto che ti deve come regnante; se questo perdi, diverrai ludibrio di tutti (Cubella). Farollo uccidere (ella rispose)[…] Fu eseguito dai congiurati”.

Intanto, nell’immaginario popolare cominciavano a proliferare incredibili leggende sulla dissolutezza e insaziabilità sessuale di Giovanna II (ancor più della prima), come quella dei bagni della regina a Castelcapuano, a Poggioreale, ad Amalfi e a Sorrento, dove  accoglieva i suoi numerosi amanti   – rastrellati dai suoi emissari tra i popolani più prestanti del luogo  –  che , poi, faceva precipitare in  mare, attraverso una botola segreta. Anche Benedetto Croce ha raccolto la leggenda popolare della dissolutezza della sovrana, rimasta vittima dei suoi eccessi estremi, nel 1435.  Ma anche della sua indole e della innatezza di un’ape-regina trasgressiva, dissoluta e dissidente: corollario del principio della  “universalità di genere” o esempio dell’irriducibilità della donna a una funzione ?

L’anno  1430 moriva Nicolò Ruffo e nella contea gli succedevano prima la figlia Giovannella e, l’anno dopo,  Enrichetta, “di così rare qualità dotata dalla natura e del corpo e dell’animo, che non solo si rese amabile a sudditi, ma comunemente ammirabile”. Nel 1442 , a distanza di 7 anni dalla morte della regina Giovanna II, s’insediava sul trono di Napoli Alfonso I, il Magnifico e  nella contea di Catanzaro veniva alzata la bandiera aragonese.  A seguito di intricate trame di palazzo, la contessina  Enrichetta, impalmava il conte Antonio Centelles Ventimiglia, il quale presto si ribellò a Ferdinando d’Aragona, riuscendo a fomentare anche rivolte contadine nel Marchesato. Dai Quinternioni dell’Archivio di Stato di Napoli risulta che l’anno 1462 Enrichetta e suo marito furono reintegrati nei feudi precedentemente confiscati. Solo che, “quasi all’improvviso e senza rumore (Centelles) abbandonava il campo della lotta antiaragonese e ancora una volta prese a combattere  per la parte precedentemente osteggiata.  Dopo essere stato proditoriamente catturato, fu tradotto a Napoli e rinchiuso in una delle torri di Castel Nuovo. Di lui non si seppe più nulla. Quando e in qual modo finisse rimane un mistero”, conclude il Pontieri.

All’ultima contessa di Catanzaro, Pasquale Salvatore Alfì (9),nel 1875, dedicava la poesia:

 

 “Alta, gentile, snella e delicata

incede, come diva a passo lieve

circondata d’un lume irradiante.

In balli e suoni si passò quel giorno

di lieta festa con l’intera notte

da mille faci illuminata e bella;

e un veglio cieco, buon soldato antico,

quasi di quel castello il trovatore,

le canzoni intuonò sulla viola,

quelle canzoni che la gloria ispira:

e ci rallegra di Calabria il cielo.

e della gente il cor.

I tuoi vassalli sono, o mia Arrighetta,

in piena festa. O come son giulivi!

Mostrano a dito a’ lor  fanciulli lieti

te madre loro, te Madonna santa”

La piacevolezza del verso e il suono della viola nascondono la mistificazione del neutro e dell’universale? Per certo, mentre Enrichetta  veniva acclamata madre dei figli dei vassalli e Madonna santa, le donne della contea e del marchesato continuavano a consumare la loro vita nella maternità e nel lavoro, prive di gioie. In una terra abitata da “popoli che sono per la maggior parte rozzi di costumi, vivendo molto grossamente in case parte cavate ne’ monti, a somiglianza di spelunche”. (10)

 

 

N O T E

 

  • Atto scritto in greco dal presbitero e protopapa  Teodoro di Simeri.( Cfr F. Trinchera, Syllabus Graecarummembranarum, 1865, CCLXXXI, pag 386). Nel 1272, Taverna e Simeri erano assegnati al milite Bertrando de Malamorte, (cfr. Reg. Ang.VII- 1269-1275, pag. 157), alla cui morte Taverna veniva infeudata a Ludovico Poerio e Simeri al milite Henrico de Cimili (Reg. Ang. XX, 1277-1279, pag. 264).
  • dal 1266 Simeri ne era stato scorporato per essere incamerato nel demanio regio di Carlo I d’Angiò.
  • La Calabria a metà del XV secolo e le rivolte di Antonio Centelles, Na, 1963)
  • Memorie Historiche della Città di Catanzaro, del 1670.,
  • Dito, “La storia calabrese e la dimora degli ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI, RC 1916.; Camillo Minieri Riccio, Notizie storiche tratte da 62 registri angioini dall’archivio di stato di Napoli), Na 1877 e C.M. Riccio, Di alcune antiche

pergamene spettanti alla città di Catanzaro

  • Storia degli Italiani, vol 3, 1858
  • La contea di Belcastro fu ereditata da Martuscella Caracciolo, vedova del Braga.
  • Piscopo, detto Aloppo, per via della sua calvizie.
  • “Arrighetta Ruffo marchesa di Crotone”, Na 1875.
  • “Descrittione di tuttitalia” di Leandro Alberti, 1526.