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RITUALI DI MORTE A OCRICOLI

  di Marcello Barberio

 

Ancora nell’ultimo dopoguerra, l’ideologia folklorica della morte era fortemente radicata nella società tradizionale dei paesi calabresi a basso grado di differenziazione sociale, prima delle tumultuose trasformazioni dell’attuale società complessa, nella quale s’intrecciano passato e futuro, promiscuità e solitudine e dove l’uomo paga l’assillo della quotidiana migliore rappresentazione di sé sul palcoscenico della vita sociale (1). Cinquant’anni fa, a Ocricoli, la morte era corale, dignitosa, edificante, realizzata quasi sempre in un letto circondato da affetti e non, invece, spaventosa, muta e meccanica come in ospedale, dove le incombenze delle esequie vengono affidate ai professionisti del “caro estinto”. Così, però, non è per i riti funebri del cordoglio o almeno per quelle manifestazioni ancora non dissolte nella modernità, che presenta, in  forma sincretica, “relitti” di miti arcaici mediterranei e di antiche credenze necrofobiche, come quelle ricordate da Sant’Agostino sui Lemuri, spiriti malvagi e persecutori.(2).

Ernesto De Martino, Luigi M. Lombardi Satriani, Mariano Meligrana, Francesco Faeta, Alfonso M. Di Nola, Giuseppe Pitrè parlano di operazioni antropiche di allontanamento della morte, di retaggi pagani di esorcizzazione rituale del dolore per stemperare l’angoscia del distacco, ma anche di  tecnica ed espediente per impedire il ritorno del defunto. Infatti, il “repitu”stereotipato si chiudeva sempre con la formula :”[…] Non ho più lacrime da piangere, mi sembra d’aver fatto tutto, ma se ho dimenticato qualcosa, vienimi in sogno e dimmi se sei contento”.

Il rituale della lamentazione funebre era un retaggio della civiltà agro-pastorale   –   risemantizzato dalla poesia sepolcrale classica (3) e dalla religiosità popolare  –   strutturato come un formulario in diverse fasi: il preliminare del ricordo sotto forma di urla strazianti e incomposte,  l’elogio cadenzato accompagnato dall’oscillazione corporea (mimica del cordoglio con funzione ipnogena), le interruzioni dialogate  per le visite di amici e parenti, il parossismo intervallato da profonde pause di smarrimento e, infine, il rauco urlo d’addio (repente, l’acutissimo strido) all’arrivo del prete.  La reiterazione del lamento corale e dei gemiti apparentemente indistinti, l’andamento ciclico dei tempi convenzionali aiutavano i protagonisti nella elaborazione adattiva del lutto, rendendo più sopportabile il dolore per la perdita.

Il potenziale dirompente di tali riti fa fatica a superare la soglia di compatibilità con la società attuale, dove le manifestazioni folkloriche vengono percepite come estranee, primitive, conflittuali, da “assorbire” (marginalizzandole) nei processi d’interazione e d’innovazione, in una realtà attenta a proiettarsi nel futuro piuttosto che a legittimarsi nei miti del passato, dimenticati dall’ antropologia sociale e distorti dalle mode consumistiche delle sagre turistiche.(4)

Intanto va registrato che, da almeno 30 anni, è in disuso il ricorso alle lamentatrici professionali (cianciaturi delli Jarbi) (5), a Ocricoli come negli altri paesini pedemontani del Catanzarese, sovente assunti ad archetipo di conservazione e di chiusura. La morte era un evento assoluto, fatale, e le uniche difese contro il suo potere erano codificate nella tradizione del rituale funebre e nelle pratiche solidaristiche, che iniziavano con la veglia e proseguivano col trigesimo e con gli anniversari. L’agonia era vissuta come momento di passaggio, durante il quale le donne accorse al capezzale del moribondo reiteravano, in forma rituale, gesti e parole di conforto civile e religioso e mettevano in atto le ultime cure palliative, con la recita del Rosario e delle preghiere della buona morte. La veglia aveva una duplice funzione, solidaristica e di filtro verso il moribondo e verso i familiari superstiti. Il prof Lombardi-Satriani le attribuisce anche una funzione di controllo, “affinché il morto non superi la  barriera della morte contagiando i vivi, irrompendo nello spazio della vita [..], per evitare l’eccessiva contiguità col morto e con la morte […] perché il morto veicola morte”.

Problemi assai incresciosi si presentavano allorquando l’agonia si protraeva per troppo tempo e il malato non riusciva a morire, costringendo i familiari a mettere in atto le sperimentate strategie della  tradizione. Si cominciava col mettere un Crocifisso sotto il cuscino del moribondo, magari accanto all’immaginetta dell’Addolorata, di Santa Rita o del Santo Patrono, imprimendo intenzionalmente  una sorta di accelerazione propiziatoria alla recitazione delle giaculatorie. Se ancora la  Signora Nera non giungeva a completare la sua opera, allora bisognava ricorrere all’esperienza delle  “donne mediatrici”, che gli antropologi definiscono “sacerdotesse della morte”.

Attraverso un riservatissimo colloquio con i familiari del malato, bisognava individuare la causa profonda della resistenza alla morte: se il malato viveva in peccato, era d’obbligo allontanare la concubina; se si trattava di una meretrice o di un giocatore fraudolento, bisognava bruciarne i vestiti, dopo aver ottenuto un’esplicita ammissione della colpa e la richiesta di perdono misericordioso a Dio e agli offesi. Gli scomunicati   –   particolarmente quelli che avevano rubato in chiesa o profanato il Tabernacolo, che avevano usato violenza sui ministri della Chiesa o sui propri genitori  –    non potevano accedere ai sacramenti religiosi e non avevano diritto al funerale in chiesa e alla sepoltura nella parte consacrata del cimitero sub-urbano. Non potevano finanche “ascoltare” il suono delle campane, per evitare il “risentimento” degli altri morti e della stessa comunità locale, rispettosa dei sacri precetti e delle consuetudini dei padri. In un contesto sociale fortemente mitico e superstizioso, perciò, si presentava assai  arduo e faticoso il rituale  di morte dei sacrileghi, condannati dalla credenza popolare ad un’agonia prolungata e dolorosa, quasi senza fine.

Per prima cosa bisognava scoprire la natura del sacrilegio (antropologico), che impediva alla vita di liberare il suo prigioniero: quale tabù della civiltà contadina era stato violato? Quale norma sociale, religiosa o morale? Forse il moribondo aveva rubato o bruciato un giogo (juvu), una zappa, un telaio, un alveare? Gli era morto l’asino “a manu sua”, aveva ucciso un gatto o un cane o aveva violato i confini di proprietà o un qualunque altro tabù dell’area mediterranea?

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                                                                                              Juvu

 

In tal caso bisognava poggiare  –  anche maldestramente (sic!)  –  la testa del moribondo su un giogo o su un subbio di telaio e ottenere sempre l’ammissione della colpa e la richiesta di perdono, da suggellare col sacramento dell’estrema unzione da parte del sacerdote, verosimilmente ignaro delle pratiche della pietas popolare.

Di altri rituali di morte sofferta, ancora più radicali e arcaici, gli anziani intervistati parlano con imbarazzo e fastidio e se nessuno ha mai conosciuto direttamente un’accappatora, tuttavia non escludono forme di “cura pietosa”, da parte di figure emblematiche e cariche di metafore, come le mammane,  nonostante la condanna della Chiesa Cattolica di ogni forma di eutanasia, compresa quella con pretese finalità umanitarie. Anche la pratica della distruzione degli amuleti, custoditi in casa a scopo protettivo, viene bollata come una superstizione legata a culti ancestrali pagani, ma i protagonisti continuano a vivere in modo naturale e per nulla conflittuale la loro partecipazione all’antica tradizione locale. Comunque sia, giunto il momento del redde rationem, la donna più prossima al malato in linea parentale raccoglieva lo spirito del defunto con un bacio e gli chiudeva gli occhi con un fazzoletto bianco: il sacrestano poteva finalmente suonare la “spirata”(6), mentre il cadavere veniva sistemato nella bara col rasoio per la barba, una paratura di calze, la coroncina del Rosario, il libricino delle massime eterne, gli oggetti d’affezione dell’ iconografia  locale e, in qualche caso, con una moneta nascosta in una tasca del vestito. Si perpetuava così, seppur con scarsa o nessuna consapevolezza, l’arcaica tradizione del pagamento metaforico dell’obolo a Caronte, per il traghettamento nel regno dell’eternità e della verità, da dove “nessunu è mmai  tornatu”.

Anche la vestizione del cadavere  –  un tempo di esclusiva prerogativa dei familiari  –   è oggi è affidata agli addetti dell’impresa di pompe funebri, i quali provvedono anche alle incombenze del trasporto della bara e al disbrigo delle pratiche burocratiche.

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Brunelleschi, morte di Agostino

 

Ancora tra le due guerre mondiali vigeva la costumanza di tingere di nero le porte e le finestre delle case colpite da lutto stretto. Essendo, infatti, il nero il colore della “notte senza luna”, i dolenti si vestivano a lutto e in minor misura continuano a farlo ancora oggi, per esprimere la condizione del dolore, del silenzio e dell’introspezione. Fino a pochi decenni addietro, il decalogo del lutto stretto prevedeva, per le donne come  per gli uomini, l’obbligo di vestirsi di nero, di non truccarsi e di non tagliarsi i capelli e la barba per un periodo che variava in base alla tragicità dell’evento e al grado di parentela col morto. Era il tempo del “focu mortu” (spento), in casa e nei comportamenti sociali.

U luttu di genitori si tena n’annu, ma chiddu di figghi è ppe sempra”, era il precetto condiviso della società tradizionale, dov’era obbligatorio esternare il lutto e rendere identificabili i dolenti.

Per bonaguru, la vedova poteva eccezionalmente sospendere il lutto in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di un figlio; se, invece, dopo un anno passava al mezzo-lutto (si levava u maccaturu, lasciando scoperto il capo),  significava che l’elaborazione della perdita stava per concludersi, con le conseguenze che ognuno era libero d’ interpretare.  “Dolura ‘e guvitu e de mugghiera assai dola e pocu dura!”, recitava, infatti, la massima della misoginia popolare.

Gli uomini, col tempo, passavano alla fascetta nera sul braccio o al bottone nero all’occhiello della giacca, tranne nei casi di dolore patologico. Oggi, invece, il vestito del lutto non è considerato più la misura del dolore da parte della maggioranza della popolazione locale di ogni ceto sociale: “Il lutto si porta dentro”, è, infatti, la frase più ricorrente. Tuttavia molte persone anziane tendono a uniformarsi alle consuetudini sociali residuali, vestendo con particolare sobrietà o anche di nero per una settimana o per qualche mese, a seconda della “drammaticità” dell’evento luttuoso e del grado di vicinanza parentale o sentimentale col morto.

Anche la liturgia delle esequie religiose è stata riformata dal Concilio Vaticano II: nella messa cantata del rito latino gregoriano, il celebrante, con fare ieratico attorno al catafalco, intonava il “Dies Irae”, seguito dall’Offertorio, dalla Communio e dal Responsorio, mentre il chierichetto turiferario s’industriava a mantenere acceso l’incensiere. Nel rito attuale le sequenze sono cambiate e con esse anche i testi liturgici, finalmente accessibili ai fedeli; vengono inoltre scoraggiate le anacronistiche pratiche dello svellersi i capelli e graffiarsi il viso, anche se un pianto “contenuto e civile” risulta ancora in qualche misura vincolante per le donne di una certa età, onde evitare l’esposizione alle critiche e finanche alla maldicenza popolare.

“I genti boni” (ceti agiati) non avevano l’obbligo di piangere i loro morti, potendo ricorrere onerosamente alle prefiche prezzolate: le donne del popolo, invece, dovevano piangere e dovevano farlo bene, come da consuetudine inviolabile, al contrario degli uomini, che, non sapendo esternare i propri sentimenti, restavano esclusi dal pianto e dovevano anche vincere la debolezza delle lacrime.

Questi gli ultimi carmi elogiativi raccolti 10 anni fa a Ocricoli (7): il primo è uno stralcio del pianto di una madre per la perdita della figlia  –  sulla falsariga della lauda sacra e drammatica del Pianto della Madonna (“Donna del Paradiso”) di Jacopone da Todi   –   mentre il secondo è il repitu di una vedova, che rimanda al canto profano monodico dei trovatori medievali.

 

A)

“S’hanu pigghiatu ‘a figghia mia,

tutti ciancianu a singhiozzu,

china sa duva s’ha portaru ‘a figghia mia?

Idda partiu e nu torna cchiù!

Intra ‘a cascia da figghiola

i cumprimenti di ziti un ce su’  chiù:

chin’u sa, figghia, duva sidi?

Ti nn’ha’ jiutu duv’è notta,

dov’è niguru e sempra sonnu.

 Duva ppe ventu ‘u si motica pampina,

duva nuddu ti lava ra robba

pemma fai bella figura

cu ri cumpagneddi toi e cu ri guali toi”.

 

B)

“O morta, morta ‘ngrata,

quantu cosi sapisti fara:

venisti ‘a ra casa mia

 e ti pigghiasti ‘u travu da casa.

O morta, morta crudela,

potia jira a tanti parti

pemma ti ‘ncacchi  pecuri e vacchi,

ed avia lassatu a mia

‘u cumpagneddu da vita mia,

 stu gran patra di figghiolleddi,

 chi restaru orfaneddi.

 E nun tegnu cchiù speranza

 Ch’iddu torna cchiù a ra casa.

Mo’  mi curcu ‘ntra ‘na fossa

E cu ttia mi nne vegnu

 Ccu ri ciri e ri cannili.

Stendardu meu…

Quannu tornavi da fatica,

standardu meu,

s’inchia ra casicedda nostra.

Quanta tafica facisti,

colonna mia!

M’hai lassata affritta intra sti quattru mura,

cumpagneddu meu,

sostegnu meu perdutu.

M’hai lassatu a menza ‘a via,

colonna mia,

ohi chi pena chi tenimu,

cumpagnu meu e patra adoratu

cosa ranna chi sì statu!”

L’accompagnamento liturgico del feretro ancora non suggellato è oramai uguale per tutti e non v’è più traccia delle variabili del pedatico “con o senza cappa”.

Il barocchismo del funerale di prima classe, dei repiti strazianti e dei gesti forsennati è da qualche decennio relegato nel limbo dei ricordi, anche se persistono, rinnovate, le manifestazioni di commemorazione civile e di saluto finale, come a voler far rivivere, nel mito della morte, l’atavico culto della memoria e del suffragio, che conosce in Halloween la più imprevista contaminazione folklorica di stampo anglosassone, amplificata dai mass-media, non senza finalità commerciali e ludiche. Se l’accompagnamento funebre, con o senza la banda musicale, rappresenta  il momento culminante del rito del distacco e dell’allontanamento dalla morte, la festa delle zucche illuminate, mimando il ritorno simbolico dei morti, trasforma il lutto in festa, riaffermando gioiosamente la vittoria della vita sulla ineluttabilità della morte, della luce sulle tenebre, della natura che si rigenera nei suoi cicli vitali, sempre uguali nel tempo. Per i bambini, ovviamente, è solo il giorno dello “scherzetto-dolcetto”, quasi l’anticipazione di un carnevale soft, senza i tratti e il vigore della matrice etnica.

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                                                                 Crichi, eremo  della Cona, al cimitero

 

Nel corteo funebre, il feretro è ancora oggi preceduto dalle eventuali insegne della confraternita di appartenenza e delle “magistrature” pubbliche rivestite in vita (8): una sorta di magnificazione e di esternazione del prestigio familiare, ma anche uno schermo protettivo della comunità locale contro le emergenze simboliche della morte. In segno di doverosa  compartecipazione al lutto, al passaggio del feretro, vengono abbassate le saracinesche dei bar e dei negozi e la gente si ritrae all’interno, come per difendersi dal pericolo del contagio malefico, anche se qualcuno, tra il serio e il faceto, non disdegna il ricorso agli scongiuri della tradizione (corna e toccamenti).

Precauzionalmente i malati gravi vengono messi seduti a letto, con l’auspicio di un sempre possibile miglioramento clinico.  Ad ogni buon conto, subito dopo il funerale, ognuno si preoccupa di lavarsi le mani  –  non solo per motivi igienici  –   ed evita scrupolosamente di entrare nelle case amiche prima d’essere passato dal bar o dalla propria abitazione. Alla richiesta di spiegazioni, gli anziani rispondono salomonicamente: “ Nun cianciu ca morìu ‘u tata, cianciu c’ ‘a morta s’imparàu ‘a strata”. I giovani, in maggioranza, avvertono profondo disagio e finanche sconcerto di fronte all’azione scenica del dolore e alla coralità del compianto e del lutto, di fronte a un rito che risulta incomprensibile, dal momento che ne ignorano le radici culturali e sociali, evocanti costumanze del mondo primitivo. “Non esiste più la società guerriera  e patriarcale che generava gli eroi benemeriti e il compianto corale per la loro morte: non ci sono più Troiani attorno a Priamo né ancelle che si percuotono il petto insieme ad Achille. Le moderne Briseide  non sono più schiave di guerra, ma vittime del racket internazionale. Ne consegue che la lamentazione folcklorica deve lasciare il posto al dolore privato e al cordoglio domestico”, argomenta un professorino.

Fino a una ventina d’anni fa, dopo l’inumazione del cadavere, parenti e amici stretti provvedevano al cunsulu, articolato nei 3 pasti canonici degli antichi Romani. Chi assicurava il pranzo provvedeva  anche alla colazione del mattino, mentre la cena serale  poteva essere meno impegnativa: il vino, comunque, era sempre bandito, per via delle sue molteplici valenze metaforiche, incompatibili con la condizione del lutto.

Attualmente l’inumazione è l’unica  forma di seppellimento in uso a Ocricoli, anche perché la Chiesa Cattolica la considera la più consona all’esilio del riposo, in attesa dei “segni degli ultimi giorni” e della parousia di Cristo.

Molte manifestazioni della civiltà contadina si avviano a svanire dalla memoria comunitaria e pertanto gli antichi riti del cordoglio appaiono oramai sfocati nell’immaginario collettivo; alcuni sociologi sostengono che la scomparsa o l’affievolimento del lutto dalla società attuale sarebbe il prezzo da pagare all’ideologia dell’eternità, da raggiungere attraverso la negazione della morte.

I rituali del lutto, però,  non sono del tutto scomparsi e anzi resistono ai molteplici cambiamenti culturali e di costume: così  –   dicono gli esperti  –   nelle società “solo urbane” viene “decostruita la mortalità”, la si rende irrilevante senza negarla, distogliendoci da essa.

Si moltiplicano e si accelerano le pratiche distrattive e di riadattamento, per meglio governare l’angoscia che la società moderna non riesce a sopportare, e si scongiura  il rischio della follia e della disperazione con l’estensione esponenziale della terapia del dolore e dei suoi surrogati.

Da qualche decennio, accanto ai rituali in memoria, si sono andati affermando i rituali mimetici: i primi celebrano il ricordo mentre i secondi simulano il mantenimento in vita delle persone scomparse, con riproduzioni mass-mediologiche in video e in audio (“doppi visivi”), con le memorie-teche, ma anche proseguendo i progetti del defunto. Una sorte di morte cibernetizzata e di case trasformate in santuari del ricordo e della mummificazione della memoria.

Conosciute ma poco praticate risultano alcune pratiche futuribili, come quella della fecondazione artificiale ex post, la creazione di templi crematori sul modello americano e olandese, i cimiteri virtuali nella rete. Tutto questo per eludere il rischio di morire con ciò che muore, essendo la morte iscritta nel codice della ciclicità della vita.

Si ha notizia di una dozzina di cremazioni (fuori regione) di defunti originari del paese, con conseguente conservazione delle ceneri in apposite teche, custodite con molto riserbo nelle case cittadine o riposte nelle tombe di famiglia.                                                                                                                                                                       Su internet è possibile verificare la tendenza alle sepolture online, in veri e propri luoghi di culto alternativi o complementari, dove hanno già trovato posto una dozzina di lapidi simil-marmo dedicate a defunti di Ocricoli, con tanto di foto, dedica, corone di fiori, addobbi,  arredi, candele (e sentimenti?) rigorosamente virtuali e provvisori, da sostituire onerosamente alle scadenze fissate dai gestori dei web-cimiteri dai nomi emblematici.

Persiste pure la consolidata usanza dei “ricordini”, sul modello grafico della locale iconografia del lutto, cioè con la fotografia del morto sulla prima facciata, seguita da una poesiola o da frasi elogiative più o meno convenzionali, dalla preghiera al Sacro Cuore di Gesù e dalla chiusa di rito. (8) Né mancano i biglietti plastificati da portafoglio, stampati fronte-retro, con la foto-ricordo e la preghiera personalizzata.

Sempre assai radicata è la consuetudine di visitare i cimiteri e di deporre fiori sulle tombe il 2 novembre, che il calendario liturgico della Chiesa Cattolica destina alla commemorazione dei fedeli defunti, con apposito rito di benedizione; molto meno praticata, invece, è oramai l’usanza di preparare i panicelli e i dolci dei morti a forma di ossa, profumati con chiodi di garofano, da offrire ad amici e parenti in suffragio delle anime di  tutti i defunti.

La notte di Ognissanti, in qualche casa, la tavola viene lasciata imbandita, a disposizione dei morti, i quali, nella ricorrenza della loro festa, vagherebbero in processione per le vie del paese, sotto forma di fantasmi coperti da un lenzuolo bianco. Per abitudine e anche per motivazioni che irrompono dall’inconscio, c’è chi lascia sui davanzali delle case una zucca gialla illuminata all’interno da una lucerna ad olio o, più frequentemente, da un lumino di cera, con funzione di lanterna per la processione degli ectoplasmi. Guai, però, a farsi trovare per strada al passaggio del corteo: secondo una remota leggenda, qualcuno ci avrebbe lasciato le penne, per aver profanato la segretezza della  magica processione dei defunti, i quali, col loro rito di rivisitazione, sacralizzano i luoghi e si  tramutano in antenati protettori delle famiglie e delle memorie collettive.

C’è anche chi continua ad offrire doni alimentari ai bambini poveri, richiamando così, inconsapevolmente, il simbolismo del banchetto funebre e delle ghirlande sui tumuli, antichi   strumenti di sollievo del dolore, capaci di veicolare la condivisione sociale del lutto.

Vanitas vanitatum [..]Nulla è che valga sotto il sole”, ammonisce ancora l’Ecclesiaste, nella sua incredibile modernità, quando aggiunge:

“Fumo è tutto/ vento che ha fame/

Sapienza che più cresce/ più grave si fa il tormento/

Conoscenza che più si addensa/ più acre si fa il dolore/ […]

La parola ora tace/

Dio chiama in giudizio/

Tutto il bene nascosto/ tutto il nascosto male” .

 

N O T E

 

(1)      Victor Turner, “I riti e il teatro”; Erving Goffman, “La vita quotidiana come rappresentazione”. Cfr inoltre: I riti d’istituzione di Pierre Bourdieu, “Le forme elementari della vita religiosa” di D.E. Durkheim e “I riti di passaggio “ di Arnold Van Gennep.

(2)      Secondo Ovidio (Fasti V 419), durante le feste romane dei morti, il pater familias, di notte e a piedi nudi, buttava fave agli angoli della casa per liberarla dai Lemures, i fantasmi dei morti ammazzati condannati a vagare senza pace, perseguitando le persone. Sulla rivista “L’Aurora”, Camerino 2008, n°555, Domenico Caruso ricorda “Peppe di morti” di Laureana di Borrello e Natuzza Evolo, la mistica di Paravati, che comunicavano con i defunti, con i “disincarnati”. Per i riti funebri antichi vedi: M.A. Muret, “Cerimonie funebri di tutte le nazioni”, Ve, 1722; A. De Gubernatis, “Storia comparata degli usi funebri in Italia e presso gli altri popoli indoeuropei”, Mi, 1878; O.Bockel, “Psychologie der  Yalksdichtung”, Lipsia, 1913.

(3)      Cfr. Lamento di Andromaca sul cadavere di Ettore (XXIII canto dell’Iliade); le urla di Achille e le lamentazioni delle schiave e dei Mirmidoni per la morte di Patroclo; il pianto delle ancelle e delle etere del mondo classico e, infine, l’omiletica chiesastica bizantina diffusa in Calabria fin’oltre l’XI secolo

(4)      Cfr. R. Redfield e Milton Singer: le società di villaggio, non urbane, e passaggio dalla Little Tradition alla Great Tradition. Vedi anche “l’anarchia ordinata” di Evans-Pritchhard..

(5)      Nel Catanzarese erano rinomate le piangenti di Albi (“delli Jarbi”), le Pizzitane e le Badolatesi. Per le pratiche del cibo e del vino sui sepolcri si rinvia al “De masticazione mortuorum in tumulis” di Michel Raufft, ad “Antropologia del lutto” di Andrea Romanazzi e alle opere del Di Nola e di E. De Martino.

(6)      I bambini venivano sistemati nella “nachicedda” bianca mentre le donne nubili venivano vestite con l’abito da sposa: per loro le campane suonavano la spiratedda, con rintocchi meno lugubri.

(7)      La trascrizione ha subito un lifting ortografico e linguistico. Ocricoli non è il paese “immaginato e delle stelle spergiure” di “Non c’è niente a Simbari Crichi” di Sonia Serazzi: esso conserva nel nome l’antecedente storico della città bruzia di Ocriculum , ricordata da Tito Livio (Historia, XXX, 19,10) nel racconto della II Guerra Punica e delle 7 città “ignobiles” della Federazione Bruzia conquistate dal generale cartaginese nel III secolo a C, prima di fissare il suo accampamento a Crotone, lasciando le retroguardie nei Castra Hannibalis, verosimilmente nel Vallone Parasìa-Fegato

(8)      “Sit tibi terra levis” o, in caso di morte prematura,  “Funere mersit acerbo”.

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