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IL BANDITO ANGELONE E LE SUE STORIE TRUCI

di Marcello Barberio

 

La Calabria è stata da sempre attraversata dal fenomeno del brigantaggio, sin dal tempo delle rivolte contro Roma da parte degli schiavi e dei pastori bruzi, guidati da  Spartaco, nel 73 a.C.

Virulento e sporadico, il fenomeno divenne endemico nel periodo della dominazione spagnola (1503-1707) e poi durante i governi borbonici e francesi, soprattutto come rivolta antifeudale e contro le vessazioni fiscali, ma anche come forza d’urto contro i mutamenti di regime, al tempo delle orde sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo, nel 1799, e dopo il passaggio vittorioso di Garibaldi, nel 1860. Usi alla violenza e alla giustizia sommaria, i contadini e i pastori calabresi facevano esplodere il loro sordo rancore contro i tiranni e i grassatori, come pure contro i galantuomini usurpatori delle terre demaniali e degli usi civici, prima e dopo l’unità d’Italia.

La regione divenne terra difficile da percorrere per i suoi stessi abitanti e per i visitatori occasionali, a causa delle numerose comitive di fuor banditi, ritenuti insuperabili per coraggio e per ferocia, figli della fame contadina, che si nutriva di violenze, di rapine e di “rivolte per bande” contro le  repressioni sanguinarie.

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                        Il brigante Giuseppe Musolino

 

Dal 1861 al 1865 (1) furono uccisi 5.212 briganti e a Catanzaro la ghigliottina cessò di funzionare solo nel 1871, con la decapitazione di Rocco Casalinuovo di Stalettì. (2)

All’inizio del ‘900 il brigante calabrese più famoso fu sicuramente Giuseppe Musolino, mentre

Serafino Castagna fu l’ultimo brigante enfatizzato dai cantastorie negli anni ‘50: dopo di lui il brigante lascerà il posto al semplice bandito, feroce criminale, non più avvolto nell’alone del mito.

Il bandito per antonomasia, di cui tuttora si conserva la memoria nell’hinterland catanzarese, fu Angelo Schipani, le cui gesta sono state ricostruite nel 2005 da Giusy Barberio (3) e poi da Giovanni Le Pera (4)

Angelone fu condannato all’ergastolo nel 1950, per aver ucciso l’anno prima, in concorso con altri, Maria Carmela Scarpino, Vincenzo Falbo e sua figlia Franceschina e per aver violentato ragazze di Sorbo San Basile, di Taverna, di Zagarise, di Sellia. I giornali dell’epoca lo celebrarono come  “il Giuliano della Calabria”, nonostante apparisse assolutamente improponibile l’accostamento col celebre bandito siciliano, autore della strage di Portella della Ginestra e collaboratore dei separatisti isolani e dei poteri forti italiani ed americani, sin dall’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943.

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L’Europeo” titolava: “Tradito per diecimila lire il mostro della Sila – Nei delitti di Angelo Schipani c’è la mano del demonio.

Testimoni oculari e cronisti lo hanno sempre  descritto come “ un povero Cristo, incallito nel crimine”; senza l’alone d’invincibilità che avvolgeva lo stereotipo del brigante, egli evocava al massimo la maschera del “Johala”, il credulone sciocco e bizzarro della tradizione popolare calabrese, ispiratore della “sentenziosità” contadina, oltre che del genere narrativo-faceto della letteratura dialettale.(5)

Qualche studioso ha preferito soffermarsi sulla cornice storica nella quale si svolsero i fatti e sul clima di rottura dell’ordine sociale provocato dai “frequenti perturbamenti dell’ordine pubblico” ad opera del movimento per  l’occupazione delle terre, uel movimento movimentoguidato dalla Federterra di Pasquale Poerio, Bruno Rocco e Paolo Apostoliti e dalle Acli-Terra di don Francesco Caporale.

Nelle campagne calabresi vigevano ancora, di fatto, i contratti iugulatori e feudali, per i quali i baroni delle terre –  Barracco, Berlingieri, Gallucci, Lucifero  –  si riservavano il diritto a prestazioni personali, prevedendo feroci multe per i coloni che “rubavano” i frutti degli alberi, in particolare arance e olive, e anche la possibilità di catturali direttamente e di sparare loro “ a sale”.

Ogni paese era “un teatro di impensate violenze, di incredibili arbitri, di palesi corruzioni”, di morti, come a Reggio, a Petilia Policastro e a Badolato; a Carfizzi l’agrario Rizzuti sparava impunemente sulla folla dei dimostranti e i carabinieri arrestavano 22 braccianti, uno dei quali, Giuseppe Giorno, veniva percosso e legato ad un mulo con uno sciartu. (6) Il movimento si concluse con l’approvazione della legge Sila, dopo i decreti Gullo, l’uccisione, nel 1946, della contadina Giuditta Levato a Calabricata(7) e l’eccidio dei tre braccianti di Melissa del 1949.

Angelo Schipani era un forisa retribuito in “natura”, cioè con derrate alimentari, fu assolutamente  estraneo al movimento contadino e mai ebbe l’ardire di emulare Salvatore Giuliano, di cui ignorava l’esistenza. Tuttavia, per qualche tempo, le contrade del Catanzaresi furono segnate dalle sue gesta efferate, perché “più che bandito, era un carnefice infame”(6), alacremente ricercato dai carabinieri. Era temuto da tutti, fino al punto che i bambini troppo discoli venivano apostrofati  dagli adulti con l’epiteto emblematico di “ schipaneddi”.

Il 25 agosto del 1949, Giuseppe Mustari, un bovaro di Zagarise soprannominato “ Cìciaru”, riuscì a catturare il bandito in località “Acqua delle donne” e a consegnarlo, ferito e legato con uno sciartu, alle forze dell’ordine, le quali  – secondo le voci concordanti di diversi testimoni oculari  –  “ritualizzarono la cattura”, per esigenze giornalistiche, ed esposero il reo al pubblico ludibrio, trascinandolo e deridendolo per le vie del paese, come si faceva con i furfanti e con i ladri, i quali, appunto, venivano fatti “sfilare” con le catene ai polsi  e la vertula della refurtiva a tracolla.

Il rito – oggi opportunamente relegato tra le anticaglie pseudo giuridiche  –  voleva essere un monito contro i possibili emuli, in un tempo in cui i delitti più diffusi erano il furto con scasso, l’abigeato, il pascolo abusivo, la rissa, l’ubriachezza molesta, l’omicidio a causa d’onore, il ratto a fine di libidine o di matrimonio.

Qualche ora prima, però, Angelone aveva ricevuto la visita in caserma del parroco, don Peppino Cognetti, il quale, fuori da ogni malevola congettura, aveva inteso così esercitare il suo apostolato religioso e civile, memore dell’insegnamento dei Padri della Chiesa: “Se il prossimo tuo ti troverà duro, allora tu troverai duro Dio, se ti farai sordo al suo lamento, neppure tu sarai ascoltato!”.

Al processo presero parte diversi principi del foro calabrese (7), nonostante le infime condizioni economiche degli imputati. Il numeroso pubblico di curiosi, i cronisti e gli inviati speciali delle maggiori riviste italiane ebbero modo di ascoltare raffinate disquisizioni giuridiche, intervallate da dilemmi filosofici, religiosi e antropologici sulla natura del dolore e della morte. Con studiata maestria, l’accusa gridò agli imputati: “Quale diritto vantate, voi uomini scurrili e primitivi, di togliere la vita ad una inerme fanciulla di 17 anni e di buttarla così  nel baratro del nulla o sulla soglia dell’oltre?”. Poi giù con la reiterazione delle pesanti valutazioni morali sui due complici e con la sottolineatura della bruttezza fisica dello Schipani e della sua resa senza onore al disordine e al degrado.

Grande scalpore sollevò l’interrogatorio della bella baronessa Maglione (Isabella Raito). Giunta in tribunale elegantemente vestita, a bordo di una carrozza  scoperta, negò categoricamente di aver subito violenza carnale la notte del 21 giugno ’49, allorquando fu sequestrata  in casa con la servitù e, secondo l’accusa, costretta a servire nuda a tavola il bandito, che in  precedenza era stato porcaro alle dipendenze del barone. Con la messa in scena della crapula a ruoli invertiti, il redivivo e affamato re dei Saturnali sperava di attuare una sua privata, rozza e dissacrante rivincita e di sovvertire illusoriamente il disegno del destino.

A dispetto del clima di contagiosa ebbrezza dell’ambiente cittadino, il comportamento della donna  non tradì alcun turbamento né lasciò trasparire la benché minima partecipazione emotiva all’evocazione dello “smacco” subito ad opera di un uomo greve e selvaggio, insolente e volgare, quanto infelice e  malandato, il quale, più che muovere i sensi di lei, aveva messo a dura prova il suo stomaco.

Tuttavia, giornali e riviste tentarono impietosamente di scorgere in quella triste vicenda la trama pruriginosa di un feuilleton, di una “storia del peccato, della perdizione e del delitto” dei romanzi

d’appendice, sulla falsariga de “Il bacio di una morta” di Carolina Invernizio o di “Cuore infermo” di Matilde Serao.

Nei salotti della città la nobildonna non ebbe molto credito e il suo comportamento, incompatibile con lo stereotipo della  signora maritata bene, scandalizzò molti, perché ritenuto sconveniente anche per una donna che aveva viaggiato molto e i cui  modelli di riferimento  lasciavano intravedere un universo femminile intenso, forse travagliato e  determinato, comunque non usuale né codificato nella tradizione locale.

Il silenzio consentiva a donna Isabella di arginare in qualche modo la deriva psicologica ed emotiva, derivante da una vicenda violenta, per la quale – senza curiosità alcuna –  si era trovata a contatto con una ragnatela sudicia di figure dolenti e volgari, capaci di opacizzare una vita intera e di costringere a una continua vigilanza introspettiva, per ostentare fedeltà alle convenzioni del proprio rango. La donna era stata espropriata della sua identità e costretta a nascondersi dietro lo scherno deformante della maschera della vittima, paradossalmente secondo i nuclei tematici dello schema delle fiabe di magia di Vladimir Ja. Propp. (8) La maschera come mezzo ed espediente d’integrazione sociale, non già come luogo di sublimazione del sé violato o di liberazione dall’angoscia di Thanatos.

Come gli Indiani d’America dopo il massacro del South Dakota del 1890, Isabella rimase segregata nella riserva del ricordo, del sospetto e della monotonia, consapevole che la punizione del porcaro mai sarebbe stata per lei una vittoria e che la giustizia non poteva essere la donatrice delle favole. Per fortuna, però, seppur lentamente, cominciavano a maturare per le donne nuove prospettive di riscatto del dolore  e delle mutilazioni, come quelli della baronessa, alla quale un anonimo motteggiatore faceto e irriverente tentò di adattare la licenziosa  “Majia” di Domenico Piro (10):

 

 

“Juntu de Plutu allu cuspiettu orriennu

disse : Giustizia, o Rre supriemu, avire  ntiennu:

 

“Illa adurata de lu munnu spera!

 

Tri vote a l’aria nu livru comparse:

tri vote azau la manu, e la ncrinau,

chiamatu tri vote chille chi sienu arse.

 

Tricentu Numi timuti ‘nvocau,

illa me sisse : “sta na pocu attientu:

scrivete e tieni a mente sta majia:

Piglia, me disse, de nu muortu amante

Li pinnulari, e mpizzacce tre spine,

Allura quannu la luna è mancante

 

De crapa niura ppe quattru matine

Piglia lu latte, e vullulu ccu pane

Fattu,o mpastatu ccu varie farine:

 

l’uocchi de na jilona, o de nu cane,

e sugnu di na morfa de nu grancu,

cuoriu de ciucciu, e targia de cchiù rane;

 

piglia capilli de vecchia malata,

tri pinne de na cuda de paune,

e de nu verre nu stuortu scagliune :

 

caccianne l’uocchi a nu lupu affamatu,

scippale l’ugne , e mintele a siccare

a l’umbra de nu pede de granatu :

ca chistu ncantu sta majia  faradi »

 

 

A proposito della cattura del bandito, ho avuto l’occasione di conoscere la figlia di Mustari, la quale ha consegnato a una rivista scolastica (11) un suo articolo emblematico sin dal titolo: Come Tatà prese Angelone

“Angelo Schipani, originario di Sersale [,….] abbandonato dalla madre all’età di 10 anni, si era guadagnato da vivere facendo il capraio anche se per arrotondare rubava galli e biancheria […] Prima della maggiore età aveva collezionato 15-20 condanne […]divenne il terrore della Sila macchiandosi di efferati delitti […] Le forze dell’ordine gli davano la caccia, ma Angelone sembrava invincibile [….]

In questo clima di paura e per proteggere i suoi 5 figli e la moglie, mio padre maturò l’idea di catturare il bandito sanguinario nell’estate del 1949 […] vicino a Buturo.  Una mattina, Tatà, mio fratello Francesco e mio zio Domenico si recarono in località Ariano per seminare il grano, quando intorno a mezzogiorno si presenta un uomo che cerca loro un po’ di pane perché digiuno da giorni.

La cosa si ripete nei giorni successivi: Angelone prende il pane, scambia qualche parola e si allontana nascondendosi in una baracca […]Un cognato di mio padre si premura di avvisare i carabinieri, i quali pensano ad una complicità di mio padre. Lo zio Domenico viene interrogato e picchiato a sangue:  a mio padre non resta altro che scappare e catturare il bandito per dimostrare la sua innocenza. Si reca da Angelone, gli racconta l’episodio e per un po’ di tempo condivide con lui la fuga fino al punto che il bandito si fida dell’amico. La famiglia ha bisogno, i viveri sono terminati. E’ dunque necessario mettere in atto un piano per catturarlo […] In località Acqua delle donne il bandito si addormenta. Mio padre, tormentato da mille pensieri, si rende conto che deve tradire la fiducia d’Angelone,[…] gli sottrae il sacco contenente la pistola e lo colpisce a un ginocchio per immobilizzarlo. Per il dolore Angelone sviene e mio padre lo trascina verso la segheria dove c’erano gli operai. Ma durante il tragitto Angelone  si aggrappa ad un pino e dà una spinta a mio padre, graffiandogli il viso,[…] nasce una colluttazione,[…]mio padre riesce a colpire il bandito con una pietra, facendogli perdere di nuovo i sensi. Cerca aiuto alla segheria, ma la gente per paura si allontana, solo un segantino gli offre una corda con cui legarlo, mentre un ragazzo va ad avvisare le guardie forestali di Buturo [.…] Trova il bandito che con un coltello sta tentando di tagliare la corda, fortunatamente arrivano le guardie forestali alle quali consegna armi e bandito. Alle 11 di quella mattina di luglio, scortato dai carabinieri  in motocicletta, il sanguinario bandito viene condotto a Catanzaro, presso la Legione dell’Arma. Mio padre viene convocato in questura, tra il giubilo della gente, gli vengono tributati tutti gli onori del caso e viene medicato e rifocillato. Gli è offerto un lavoro di netturbino che rifiuta perché la sua vita è tra i boschi della Sila. In cambio accetta una ricompensa in denaro, di £ 300.000. Ed è così che mio padre, Giuseppe Mustari, libera la Sila da quell’alone di terrore che l’aveva avvolta per anni”.

 

Per la figlia Giovannina, Mustari ricevette una ricompensa in denaro, per i giornali dell’epoca e per l’opinione pubblica, invece, intascò la “taglia” per il tradimento dell’amico.

Infatti il bandito – come nella tradizione brigantesca  –   continuava a rappresentare l’ultima plebe, i subalterni, tra i quali persistevano valori  culturali e ideologie  come lo stereotipo del mito del fuorilegge, caricato dalle masse popolari di ruoli sociali e di aspettative straordinari.

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                   Catanzaro: sullo sfondo il vecchio tribunale

 

I cantastorie girovaghi continuavano a battere le nostre contrade, in compagnia del pappagallino della fortuna, raccontando storie truci, favole immorali e l’epos del banditismo rurale, sull’esempio dei Rinaldi napoletani e dei cantàri medievali.

Contestualizzare le gesta di Angelone con l’epopea delle lotte contadine calabresi dell’ultimo dopoguerra rappresenta un errore metodologico grossolano, che tuttavia contiene una qualche traccia di verità, poiché il bandito era comunque figlio della marginalità e del disagio, esempio emblematico di devianza sociale.

Sia nel racconto della figlia di Mustari che negli atti giudiziari del processo del 1950, come pure nelle versioni degli informatori orali, emerge la tendenza al racconto iperbolico, per cui s’impone un supplemento di cautela e l’obbligo di ulteriori verifiche, nella ricerca di una verità la più oggettiva possibile.

Tale opportunità mi si è presentata casualmente nell’estate del 2005, con l’intervista a Pancrazio Agosto, un ultrasettantenne di Zagarise, emigrato a Milano.

 “Nel ’40, per tre anni e mezzo, io e Angelone eravamo garzuni accordati nell’azienda dei Caravita, dove guardavamo capre, maiali e buoi, a Serre di Zagarise, assieme ad altri due forisi più grandi, di Magisano, un certo “Fiore da’ manca di cani” e “Franciscu tri grani”. Nel 1941 Angelone rubò agli stessi  Magisanisi  ceci, fave e formaggio, cioè la roba da mangiare portata dal paese, e si fece 3-4 mesi di carcere. Io dovetti procedere al riconoscimento dell’impronta delle sue scarpe: ad una c’erano i tacci bullette di ferro e i tundini e l’altra era liscia. C’erano le impronte che dal pagliaio portavano fuori. Era stato lui e lo dissi a Caravita…Insomma lo presero alla “Turrricedda”, una casetta colonica. Uscito di prigione si fece paisanu e collega di “Nicola  u Melissarotu”, cioè della località di Melissaro.

Ad una turra rapirono Francesca Falbo, una ragazza che aveva rifiutato u Milissarotu: scoperchiarono il tetto della turra, uccisero il padre che si faceva forte col dubotti e rapirono la figlia. Per 15 giorni la tennero in una stalla e la violentavano. La nascondevano in una gibbia, dove scorreva il vino nelle vasche, sotto il pavimento; con una cannuccia ci jettavanu nu pocu ‘e latta in bocca (12), perché lei voleva lasciarsi morire e rifiutava il cibo. Gente malvagia. Ad un certo punto Angelone decise di lasciarla andare a casa sua a Sersale, ma  la nonna di Nicola gli disse: “Tu la lasci andare e lei ci accusa tutti e va a finire che andiamo tutti in galera,  tutto per i comodi vostri”.  Angelone allora raggiunse la ragazza a Cipi, a un chilometro da piazza San Pasquale di Sersale, e la uccise con due colpi di fucile.

La ragazza non aveva potuto camminare veloce, perché zoppicava per le violenze subite. In quel luogo sorse una conicedda, dove la madre della ragazza andava tutti i giorni a piangere: si formava quasi una processione di gente, sia di Sersale che di Zagarise. Erano dolenti proprio! La vecchia campò poco e morì in carcere all’Isola. Anche Angelone morì in carcere a Catanzaro, perché fu preso a tradimento da Mustari in Sila, vicino  Buturo. Lo ubriacò e durante la notte lo colpì alla testa col cozzo della gaccia, lo stordì e lo legò con uno sciartu.Poi lo consegnò alla legge.Al processo vennero i più grandi avvocati, pure di fuori. Poi, ti ho detto, morì in carcere. Nicola, il complice, fu condannato pure lui all’ergastolo.ma poi la pena gli fu ridotta a 33 anni di carcere, per buona condotta. Ho sentito dire che ora è libero e vive a Sersale. Mo’ dovrebbe essere anziano. Sono 45 anni che manco dal paese: partii nel ’60 e ora che sono pensionato torno solo l’estate e a Natale, ma non sempre. Sono stato accordatu per 8 anni: mi davano da cazare, dormire nel pagliaio o nella baracca, vestire e mangiare. Questa era la vita del forise. Partii soldato che non avevo una lira. Ai due forisi  di Magisano, più grandi, Carovita dava 34 di grano al mese, senza altri viveri né soldi. Ad Angelone dava 14 di grano al mese, ma poteva mangiare alla mandria. Lui aveva un moschetto ad una canna e una pistola a tamburo.Il fucile da caccia per uccidere la ragazza glielo diede Nicola Scalise, u Melissarotu.  Insomma, Angelone era uno che entrava e usciva dal carcere come da un albergo, ma sempre per cose di poco, per roba da mangiare, non per oro o denaro. In carcere aveva imparato a lavorare a maglia, all’uncinetto e ai ferri “ di legno d’erga”, duro, usato per fare scupuli  e che quando u rumpi spara. Li modellava col coltello, era molto abile, e faceva anche il gancetto alla bacchettina. In paese vendeva i prodotti: calze di lana, borsette, maglie, che faceva mentre pascolava le bestie. Così sordiàva. Prima aveva una donna a Zagarise, una vedova, poi un’altra a Sellia, da cui ha avuto due figli, un maschio e una femmina: mi ricordo che l’amante se la curcava prena al pagliaio di Porticello delle Serre di Zagarise; io dovevo dormire all’aperto, fuori dal pagliaio. Durante la sua latitanza mi guardavo : dormivo all’aia sotto la paglia, per non essere scoperto durante la notte. Avevo testimoniato contro di lui, quando aveva rubato ai Magisanisi. Ma che potevo fare, ero un ragazzo. A Milano ho lavorato duro, ma ho trovato fortuna”.

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Col suo racconto, il buon Pancrazio sembra essersi liberato di un peso antico, senza dimenticare d’essere stato un piccolo forise, in una terra di sconfitte e di marginalità, di abbrutimento e di fierezza, dove dominavano la misoginia e la mistificazione della virilità, l’enfatizzazione dell’onore e l’ideologia del coraggio. In quel lontano 1949, la disoccupazione in provincia di Catanzaro superava il 40% della popolazione attiva e il salario giornaliero degli avventizi agricoli era di 420 lire, contro le 1003 lire della provincia di Milano.

Dopo le elezioni politiche del ’48 riprese vigore la reazione contadina in Calabria e furono intensificate le lotte, nonostante gli arresti indiscriminati (1705 nel solo Catanzarese); furono occupate nuove terre e attivati gli scioperi a rovescio, con le manifestazioni per l’imponibile di manodopera. Molti paesi sembravano in stato d’assedio, presidiati da ingenti forze dell’ordine in assetto di combattimento. La penuria di beni di consumo e di servizi, l’aumento del costo della vita e il conseguente deprezzamento dei salari avevano fatto esplodere le tensioni sociali, soprattutto nelle campagne e nei comuni pedemontani. La Confederterra organizzava una capillare mobilitazione popolare, sollecitando in ogni paese la costituzione di leghe e cooperative, per la rivendica delle terre  incolte o usurpate: 35.000 contadini, operai, artigiani, reduci di guerra e dalla prigionia, disoccupati, vedove di guerra di 96 comuni, dall’alto Crotonese alla zona jonica, al suono della tromba o delle campane, entravano con gli arnesi di lavoro sulle terre abbandonate, per ottenerne l’assegnazione da parte delle apposite Commissioni Provinciali.

In un clima di generale rivolgimento, era fin troppo facile “criminalizzare” i protagonisti delle lotte contadine, come pure, per chi aveva dovuto sperimentare le brutture della guerra, era altrettanto forte la tentazione di utilizzare i disordini sociali a fini esclusivamente personali.

Insomma, nei salotti buoni, il bandito e il capopopolo venivano spesso confusi e sovrapposti, perché così faceva comodo  a quanti paventavano esiti nefasti dal movimento contadino e sollecitavano il ministro Scelba a ripristinare l’ordine, anche a costo di “reincarnare il borbonico Maniscalco”.

Si spiegano così i numerosi rinvii a giudizio di contadini e operai, rei d’aver violato gli artt. 2 e 3 del D.L. 14.02.1948, per “ aver indossato, in una pubblica manifestazione,  il fazzoletto rosso che costituisce la divisa  delle formazioni garibaldine”(13). Non sappiamo quante private vendette e quanti crimini furono consumati durante le grandi ondate di rivolta proletaria, contro le vecchie e le nuove povertà.

Emblematico è  il  telegramma col quale i carabinieri di Sersale segnalavano nel 1950 la singolare manifestazione  di un gruppo di ragazzini di 5-10 anni, i quali percorrevano le vie del paese,  muniti di cartelloni con scritte  “ Vogliamo anche noi il torrone per le feste, non solo i figli dei ricchi  devono mangiarselo”, “Vogliamo trascorrere un Natale felice”, “Date lavoro ai nostri genitori”, “ I giovani di Sersale vogliono lavoro non armi per uccidere gli altri giovani”. Intervento Arma ragazzi

disperdevansi.  Sequestrati cartelloni. Si cercano promotori manifestazione indetta scopo protesta mancata distribuzione  pacco natalizio ECA”

Una specie di tabù o una forma di prudenza eccessiva hanno condizionato la ricerca storica di quegli eventi, forse per timore di sminuire il valore delle battaglie politiche e sindacali.

Per certo Angelone non mostrò interesse per le ragioni delle lotte contadine: non risulta abbia mai partecipato alle manifestazioni per la corresponsione del caropane o per  l’imponibile di manodopera  e neanche alle occupazioni del latifondo dell’ex demanio feudale di Borda, di Raga, di Misorvo, di Carrozzino, di Cocuzzo, poiché mai intese aderire ad una delle tre cooperative agricole sersalesi (14) né alle organizzazioni sindacali della zona.

Tuttavia la vicenda di Schipani ha rappresentato un tentativo di reazione alla marginalità e alla precarietà della condizione di miseria diffusa, che abbrutisce giorno dopo giorno e nega anche la consapevolezza che il riscatto non può essere solo una questione privata.

Guasti profondi attraversavano la coscienza popolare, con lo spettacolo del prevalere delle leggi della violenza, della sopraffazione e dell’esclusione, che inducevano ogni disperato a uniformarsi alla logica della sopravvivenza senza garanzie, senza regole e senza certezze.

Tale coscienza, invece, si coglie nel buon Pancrazio: la sua nuova condizione sociale agisce come cassa di compensazione delle passate tensioni, ora che la società dei consumi e dell’informazione sembra relegare in ambito folklorico l’antica cultura dei “subalterni” calabresi.

 Marcello Barberio

 

N O T E

(1)- Franco Molfese, “Storia del  brigantaggio  dopo l’Unità”, Feltrinelli, MI, 1964

(2) Nel periodo borbonico le esecuzioni capitali per fucilazione avevano luogo all’alba alla “porta marina”, che, fino alla sua demolizione nel 1936, era sormontata da un affresco di Giovanni Paladino (XIX sec.), raffigurante l’Immacolata con a fianco San Vitaliano e San Rocco. Tele di Paladino sono custodite nelle chiese parrocchiali di Crichi, Sellia e Soveria Simeri, nell’Oratorio del SS. Salvatore di Taverna e nel Museo arcivescovile di arte sacra di Catanzaro.

(3) I Briganti nel Catanzarese, tra storia e tradizione orale, Roma, Un. Studi “La Sapienza”

(4)  Angelone, la baronessa e le altre, Ed. Bru.Mar, CZ, 2005

(5)“Jugale” (nella versione del dialetto silano- cosentino, “Johala” nel catanzarese, dove la “h” velare aspirata sostituisce la “f” di “Jofala” e la lettera “J” assume il suono di una “x” aspirata medipalatale, come nel tedesco ich), poemetto in sestine di Antonio Chiappetta (alias Vigabbo: Cs. 1876-1942) del 1899, rieditato nel 1946 a cura di Michele De Marco (alias Ciardullo) e ristampato nel 1957. Alcuni assimilano Jugale al barocco Bertoldo, il villano testardo, furbo e maligno dei fogli volanti di Giulio Cesare Croce (1550-1609) o addirittura al grottesco Marcolfo del “Dialogo di Salomone e Marcolfo” (remotissimo testo latino, volgarizzato nel Medioevo, nel quale il villano mette in scacco il più sapiente dei re).

(6) Cfr: Saverio Di Bella, Strutture agrarie e lotte per la terra…, Rubbettino, 1979

(7) Non lontano dal casino dei baroni Schipani (solo omonimi del bandito), dove, nel 1799, avevano fatto sosta le truppe della Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo, in viaggio verso Napoli

 (8) – Gli avvocati Aldo e Mario Casalinuovo, Bruno Dominijanni, Pietro Caporale, Francesco Calderazzo, Antonio Sabatini,  Peppino Marini, Carlo Corigliano,  Gennaro Madia, Mario Garofano, Antonio Giglio

(9) Sette sono le “azioni” di ogni racconto magico: la mancanza di qualcosa (mezzi,..) o di qualcuno, la partenza, il donatore che fornisce il mezzo magico per vincere, la battaglia vittoriosa, il ritorno, il riconoscimento del protagonista (eroe), la punizione del colpevole e la celebrazione della vittoria del protagonista

 (10) alias Duonnu Pantu (Aprigliano, 1665-1696), considerato, con Vincenzo Ammirà (Monteleone, 1821-1898: autore della famosa “Ceceide” e di “Revigghieide”) uno dei maggiori poeti dialettali calabresi.

(11) – Numero unico a cura dell’Istituto Comprensivo di Zagarise, anno 2005, “Magisano, il recupero della memoria”, pag. 76 e sg.

(12) Per Propp, nei racconti di magia, la cavità (buco, pozzo,…) rimanda all’antica credenza rituale secondo la quale si deve passare attraverso la bocca di un animale per averne il possesso. Con la perdita del valore magico degli animali, quella funzione è rimasta affidata alle cavità, che portano ad un mondo “altro”, all’Ade.

(13) – M. Barberio: “Taverna, dalle origini ai giorni nostri” (Primo  premio storico-letterario  “Città di Taverna”, 1985)

(14) “La Proletaria”, guidata dal maestro Luigi Lia e da Ignazio Talarico, “La Lega dei contadini”,  che faceva capo alla Federterra di Sersale e Cerva, e “Giacomo Matteotti”, presieduta da Giuseppe Percia.  Si occupavano dell’attuazione dei decreti Gullo, della disciplina della raccolta delle castagne  del fondo Malitani del barone Casolini, dell’occupazione dei

lavoratori del legname, dopo la chiusura della SO.FO.MA e la nascita di  nuove piccole imprese boschive in  un comune che allora contava 7.790 abitanti . Cfr: Michele Scarpino, “Sersale”, Rubbettino, 1982

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