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LA RIVOLTA DI CARLO PISANO DI SIMERI

di Marcello Barberio  

 

Il periodo della dominazione spagnola del Vicereame di Napoli (1503-1734) fu caratterizzato sul piano politico da una struttura amministrativa centralizzata e feudalizzata, con i baroni e il clero sempre più potenti, “piccoli re e tiranni, i quali la saccheggiano, la scorticano ogni giorno, e con sete inestinguibile ed inesausta avaria si pascono dei travagli dei mortali: essi infatti si sono usurpati le selve, le balze, le terre, i fiumi, la caccia, in una parola, tutti i diritti dei popoli”.(1) Il malcontento popolare sfociava sovente in episodi di brigantaggio, mentre nel quadro della feudalità calabrese s’inserivano elementi mercantili stranieri, desiderosi d’impossessarsi dei patrimoni fondiari e dei diritti proibitivi e particolari connessi alla funzione feudale.

Dopo i primi tentativi vicereali di porre limiti allo strapotere baronale con la Prammatica XI (Disposizioni e Rescritti) “De baronibus et eorum officio”, si affermò una forma di feudalità mista, legata principalmente al commercio della seta e della proprietà fondiaria: la sola città di Catanzaro contava circa mille telai, 7 mila lavoranti e una  maestranza aggregata al Consolato dell’arte della seta, secondo lo Statuto del 1519. Poiché la Calabria rappresentava un baluardo difensivo contro gli attacchi saraceni, il viceré Pedro de Toledo vi aveva fatto scaglionare ben 114 torri di guardia costiera, per “la secura custodia et defensione da invasione de corsari infideli”, per segnalare gli sbarchi nemici, apprestare le prime difese e allertare le popolazioni, le quali, non di rado, stremate e avvilite,  preferivano imbarcarsi sulle navi turchesche come schiavi, per sfuggire alla più pesante vessazione del giogo baronale. Meglio “rinnegati” in Barberia e odalische a Tripoli e ad Algeri, che pastori, contadini e mendichi nel Regno: “Mamma li Turchi!/ La campana sona, / li Turchi su’ calati a la marina./ ‘U patruna vena sempra de luntanu / quandu duva nui sona la campana”. Cosi recitavano alcune memorabili canzoni popolari, diffuse dai cantastorie dei secoli passati e dai cantautori moderni.

Il “Siglo de oro” della Spagna era anche l’età di Tommaso Campanella e di Mattia Preti per la Calabria, ma anche del capitano Giangurgulo della Commedia dell’Arte, dell’oppressione popolare e della recessione economica e demografica, prodotta in larga misura dalle peggiorate condizioni di vita del mondo contadino, dai frequenti terremoti, dalle epidemie, dalle carestie e dalle guerre. (2)

In un clima di generale adattamento alla servitù straniera e di conformazione alla moda e ai costumi spagnoli, la Calabria sperimentava i rigori del fiscalismo vessatorio, l’oppressione economica  delle classi popolari e la conseguente dilatazione della povertà, della mendicità, della prostituzione e della rivolta contadina, che aveva assunto i connotati dell’endemicità dopo i moti briganteschi di Nino Martino “Cacciadiavolo” e di Marco Berardi, alias “Re Marcore”.

Le modificazioni intervenute nell’economia colpivano i bisogni primari degli artigiani della seta e dei campagnoli, i quali, però, non riuscivano a formare un vero e proprio blocco sociale delle forze della trasformazione e del cambiamento.

 simeri[1]

                                               Simeri: il Vaglio e la vallata

 

Nel 1623, la principessa Anna Borgia alienava il suo feudo di Simeri in favore di Ettore Ravaschieri, discendente di una ricca famiglia di banchieri genovesi, duca di Cardinale, principe di Satriano e di Belmonte, barone di Cropani.

L’Epistolario Ufficiale del Governatore di Calabria Ultra, Lorenzo Cenami (3), contiene la cronaca del conflitto tra il principe Ravaschieri e il vescovo di Catanzaro, a causa dei diritti particolari del feudatario sulla chiesa di jus patronatus di Simeri: a novembre  del 1623, il Vicario Generale del Vescovo Metropolita di Reggio si recò a Simeri “per eseguire la commissione del vescovo”, il quale era anch’egli là, “standogli intorno gran numero di chierici armati di tutte le armi”. Seguì un gran tumulto, guidato dal capitano Diego Tuxo di Cropani, che parteggiava per la gente del luogo, contro la Reale Udienza, i cosiddetti “chierici volanti” e la “mala gente del principe, che ha perduto rispetto e obbedienza”.

L’ordine pubblico doveva essere mantenuto dagli Uditori della Regia Udienza Provinciale, alle dipendenze del Preside, che costituiva la più importante figura istituzionale della Provincia, titolare di una pluralità di compiti di natura amministrativa, giudiziaria e militare, per garantire l’esazione delle tasse e la lotta al contrabbando di schiavi e di derrate, alimentato dalle frequenti incursioni corsare sulle coste calabre dei pirati Khair-eddin Barbarossa e Dragut Rayz e dei “rinnegati” Bassà Cigala, Uluc-Alì (Uccialì) e Alì Piccinino. I contraccolpi di tale situazione culminarono nella congiura di Tommaso Pignatelli (4) e poi nei moti Messina, di Palermo, di Catania e di Napoli del 1647/8, contro la gabella sulla frutta, reintrodotta dal viceré, il Duca d’Arcos Rodriguez Ponce de Leòn. Il 7 luglio del ’47, un gruppo di lazzari, guidato da Tommaso Aniello d’Amalfi e ispirato dal giurista Giulio Genoino, insorgeva a Napoli al grido di “Mora il malgoverno!”, ottenendo l’abolizione dell’esose gabelle sulla frutta e sul pescato. Il ventisettenne pescatore-tribuno fu acclamato “Capitano generale del fedelissimo popolo napoletano”, ma, dieci giorni dopo, fu accusato di pazzia, ucciso dal suo stesso  popolo e buttato in un fosso a Porta Nolana. Appena il giorno successivo, Genoino veniva nominato Presidente Decano della Camera della Sommaria, mentre Masaniello veniva sostituito da  Gennaro Annese, il quale, col sostegno del duca francese Enrico II di Guisa, discendente di Renato d’Angiò, il 17 dicembre proclamò l’effimera Real Repubblica Napoletana. L’ambiente politico-sociale e culturale in cui si svolsero le rivolte popolari del Regno di Napoli è stato magistralmente lumeggiato dal prof Rosario Villari, in “Baronaggio e finanza a Napoli alla vigilia della rivoluzione del 1647/48”.

L’eco di quei tumulti raggiunse ogni luogo dell’Europa continentale e anche dell’Inghilterra, dove Oliver Cromwell, dopo la guerra civile, instaurò la  Repubblica nel 1649, mentre il filosofo olandese Benedetto Spinoza non esitava definirsi il “Masaniello della metafisica”. (5)

 Giulio_Genoino_e_Masaniello[1]                                                                               Genoino e Masaniello

Il movimento antifeudale e antispagnolo delle masse contadine e del sottoproletariato si estese a macchia d’olio nelle campagne e nelle province del Regno, rappresentando una seria minaccia per il potere baronale; in Calabria ebbe ripercussioni immediate, sotto forma di tumulti, in tutte le Terre e nelle Città, dove, ai diritti imposti per legge, continuavano a sommarsi quelli pretesi per consuetudine.

I repubblicani napoletani inviarono in Calabria il vicario generale Marcello Tosardo, che facilmente riuscì a reclutare proseliti “a grosse schiere, come si fusse gito a guerreggiare nelle terre di oltre mare al sepolcro di Cristo”; ma le defezioni e l’azione di controrivoluzione del nuovo viceré, conte d’Ognatte, fiaccarono le resistente degli insorti, a Reggio come a Monteleone, a Cosenza, a Fuscaldo, a Stilo e a Crotone.

 La cronaca di quegli avvenimenti ci è stata tramandata solo dai resoconti di parte spagnola, come  le “Memorie Historiche della Città di Catanzaro” (1653) di Vincenzo D’Amato, il “Diario contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650” di Francesco Capeceletro (Viceré della Calabria Citra) e la “Istoria dei disturbi e rivoluzioni accaduti nella città di Cosenza e Provincia negli anni 1647 e 1648” (6) di Domenico Arena, Sindaco dei Nobili del Sedile di quella città.

Arena e Capecelatro raccontano che il popolo in rivolta di Cassano e della Sibaritide era guidato da un tal Briola, da alcuni uomini di lettere e di chiesa e dal medico Cosimo Granito, amico dei vescovi Palumbo e Carafa. Nel cronista  catanzarese è di tutta evidenza la fede “ver la Cattolica Corona” (7)  e la “fidelidad y amor con que esta Ciudad de Catanzaro hà blasonado el titulo de fiel, y verdadera Vassalla, esperziendo sus vecinos la propria sangre en el servicio de su Rey nuentro senor natural”.

Il fallimento della rivolta antispagnola generò lo stereotipo del popolano furbo e demagogico, provocando la damnatio memoriae di Masaniello e dei suoi emuli, come Giuseppe d’Alessi di Palermo, Ippolito Pastina di Salerno, Giuseppe Gervasi di Cosenza, Antonio Oliva di Reggio, Leonardo Drago di Parghelia e Carlo Pisano di Simeri, tutti, in qualche misura, banalizzati da Benedetto Croce, come  “inconsapevoli strumenti d’altri” nella rivoluzione del lazzari del 1647/48, ridimensionata a moto plebeo, “senza bussola e senza freno, senza capo né coda, senza presente e senza avvenire”. (8) Giudizio contestato dalla storiografia illuminista e risorgimentale, da Vincenzo Cuoco e, non ultimi, da Giuseppe Galasso e Luigi De Filippis, i quali hanno elevato i “ Masanielli in diciottesimo”  a (inconsapevoli?) precursori della corrente rivoluzionaria settecentesca e antesignani dei valori repubblicani e libertari. La rivolta fallì, ma l’opera dei protagonisti rimase come moto istintivo antifeudale e antifiscale, contro lo strapotere e il dispotismo della nobiltà e del clero, anticipando la proclamazione della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza della più grande Rivoluzione Francese.

Ma procediamo con ordine, con l’ausilio del quarto libro delle “Memorie Historiche” del D’Amato:

 “Correva dell’humana salute l’anno 1638, quando si scosse con tanta furia la Terra […] città atterrate, diroccati castelli, villaggi conquassati[…]  Turchi in Stalatì nel 1644 e di nuovo nel 1645 [..] Catanzaresi impediscono à Turchi l’andar a Squillace […] Non erano ben curate le piaghe di tante offese, quando giunto l’anno 1647 […] germogliarono d’improvviso mali più fieri a Palermo e quasi nel tempo istesso in Napoli per opera d’un tal Genoino, che inimicissimo al nome spagnuolo havea molti anni addietro tentato novjtà senza frutto. Li diede occasione di mandar ad effetto il suo perverso pensiero una gabella imposta ne frutti, concorrendo al rumore un tal Masanello vilissimo pescatore […]Và al palagio del viceré cerca l’abolitione delle gabelle[..]Il Duca d’Arcos si salva in castello di S.Elmo[…]case de Nobili incendiate dal Popolo al numero di duecentomila.[…]

Nel naufragio della real obbedienza, seguito in Napoli, perì quasi tutta la fede in Regno. Hebbe ogni luogo le sue borasche, il sangue de Nobili e de Ministri di vermiglio smaltò per tutto la Terra e le sostanze de Ricchi alla cupidità sopravanzate di chi predava, alle fiamme servirono di pastura. La Calabria, con l’esempio dell’altre Provincie, diede in eccessi[…] Vidde la nobiltà Cosentina rotolar intrise di sangue le teste de Patritij per mano de Plebei per le strade. […] Non vi fù luogo nella Calabria, che con chimere fantastiche non sognasse di governarsi da Republica con proprie leggi. [..] Non havrebbe Catanzaro al sicuro gustato parte alcuna dell’amarezze comuni, se gli odj particolari non avessero cagionato qualche disturbo. Ne se stato non fosse Carlo Pisano di Simeri huomo vilissimo, agiutante del Preside della Provincia, si saria mossa la Plebe, facilissima ad esser indotta à qualche eccesso. Costui all’avviso, che si hebbe delle rivolte di Napoli, e del sollevamento di molte parti del Regno, pensò su l’altrui rovine alzar la fabbrica della sua fortuna. Cominciò (come scaltro, ch’egli era) à tentar gli animi del popolo civile con lunghi giri di palliato discorso, ne ritrovando la disposizione, ch’egli bramava, mosse la Plebe, animandola à chieder l’abolitione delle Gabelle, allettandola à vivere in libertà, già che il tempo, e le congruenze la permettevano. Correva il dì 26 di luglio giorno di venerdì, quando ecco d’improvviso sboccò dalla via, che cala dal Duomo nella Piazza maggiore una corrente, formata della feccia de Cittadini con un grido, fora Gabelle, ch’assordava l’aria d’intorno. Chi più tra quelle turbe era lacero di vesti, e smunto di carne per i disaggi, si rendeva più riguardevole in quel tumulto, perché quanto più strapazzato, altrettanto fossi stimato esser di premura il procurar largo vivere, lo conoscevan per Capo. Giunta quella marmaglia, ove esigevasi il datio della farina, ritrovando la stanza abbandonata da Gabellieri, salvati alla prima voce, che udissi, la posero a sacco, ne ritrovando denaro, come speravano, essendo particolar lor fine il predar, si rivolsero a danni dell’Arrendatori[…]Ma sopraggiunti dal Preside, accorso a porger riparo al nascente disordine, vennero a forza di prieghi frastornati […] Porre a sacco e incendiar la casa di[…]Carlo Serra[…]Paulo Gatto, Diego Figueroa, Vitaliano Migliolo arrendatori della farina[…]Si passò quietamente sin à 25 di marzo, giorno dedicato alla vergine Annunziata. Era (procurata dal sopraccennato Carlo Pisano) giuntali una patente del Duca di Ghisa, venuto in Napoli, per mezzo de quali sperava ascendere al Trono, onde di nuovo sollevando occultamente la Plebe à danni della Nobiltà, e degli Honorati Cittadini, si portò nel giorno antedetto con gran seguito nella piazza, onde ritrovando ammassata gran quantità di Nobili, e Popolo civile, vennero da questi arrestati, e dispersi,  dandosi à manifesta fuga, lasciando caduto a terra da cavallo il Pisano, per una percossa datali in petto con un soffione dal Signor Francesco Marincola, fratello del Duca di Petrizzi, e a gran fatica salvato dalle mani di Giuseppe Arcuri, che fù quello, che per via di alcuni operaj, che teneva impiegati nella fabbrica del suo Pelaggio, scoprì la congiura, ch’era di dar la morte à Nobili, e Honorati Cittadini, e porli a sacco le robbe. […] All’arrivo dell’Armata Francese ne mari di Napoli, propalò la Città di Catanzaro un Manifesto, che camminò da luogo à luogo, per tutto il Regno, col quale, mentre attestava  essa Città la sue fede  verso la Corona cattolica, sfidava i Francesi à provarsi la quinta volta con le sue forze[…]Terminarono in fine le sciagure del regno, con l’arrivo di D. Giovanni d’Austria in Napoli, che domate le forze del popolaccio, lo rimesse in obbedienza […] Havutasi in Catanzaro la nuova della vittoria, se ne celebraro le feste [..] e la Carta del Duca d’Arcos  a los magnificos, y amados de su Magestad, lo Sindicos, y Elettos de la Ciudad de Catanzaro.[..] Si rallegrò la Città col Conte di Ognatte, successo all’Arcos nel governo, ottenendo risposta da D. Giovanni d’Austria à 9 de Mayo 1648 […] per mezzo del Signor Agatio di Somma Vescovo”.

Dunque, la parentesi rivoluzionaria si concluse il 6 aprile 1648, quando la flotta spagnola di Giovanni d’Austria, figlio naturale di Filippo IV,  riprese Napoli e ripristinò il precedente regime.

Cosimo Granito e i “rubelli” cosentini sopravvissuti beneficiarono dell’indulto generale seguito alla pacificazione; Carlo Pisano (9) si ritirò nella valle del Simeri per sovrintendere all’amministrazione dei beni feudali e burgensatici dei Ravaschieri.

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                          Giostra del Saracino

 

Verosimilmente continuò a curare l’annuale fiera franca con “Giostra Cavalleresca della Perdonanza di San Giovanni Battista”, (10) col corteo delle magistrature locali, “di piede come di cavallo armati”, Ufficiali ed Eletti in uniforme, servi in livrea e cavalli bardati a lusso con damaschi cremisini, in virtù dei privilegi antichi e “conforme all’antichissimo et inveterato solito fare ogni anno alli ventiquattro di giugno [..] et con consegna al Sindaco de Nobili della bandiera de la franchigia di San Giovanni Battista ”. Il campo di gara e dei giochi della località Sangiannello era un percorso a forma di 8, disseminato di sagome di legno con mazzamostro e  anelli metallici, che i cavalieri al galoppo dovevano infilare più volte con la lancia.

 

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                              Mazzamostro

 

Il banditore, vestito con le insegne feudali, così annunciava la festa in armi: “Audite, audite gente/ et a lo banno ponite mente/ a nome de lo Mastrogiurato/ gente de Simari e forastieri/ Nobili et Onorati et anco minimi et popolani:/ a la Giostra sete invitati/ e tutti quanti alla fera accurrite./ Si sfidano a gran tenzone/[…] le Terre et li Burghi nominati”. Un piccolo gruppo di trombettisti, pifferai e tamburini accompagnava la lettura del bando, “con molta allegrezza del festeggiante popolo”(?). Al termine della gara, “conforme è stato solito”, il Mastrogiurato, che aveva sospeso con proprio editto la giurisdizione del feudatario sulla fiera, consegnava il Palio al vincitore e a tarda sera riportava lo stendardo della franchigia alla cappella del castello del Vaglio, accompagnato da un corteo itinerante e dalle luminarie.

Negli stessi giorni, i ragazzi si facevano “cumpareddi ‘e juri”, con lo scambio rituale di un mazzetto di spicanarda (lavanda) assieme a un’ immaginetta del Santo Patrono, instaurando così vincoli solidaristici di reciprocità bilanciata, di transazioni e di alleanze assimilabili alla cosiddetta  parentela fittizia.(11)

Col fallimento dell’insurrezione, la Calabria e le province del regno confermarono la loro fedeltà alla corona di Spagna, che continuò a risolversi nella rovina delle masse contadine e nel consolidamento dell’aristocrazia e della borghesia mercantile, allontanando così dall’orizzonte storico il sogno di Carlo Pisano e di Cosmo Granito e affidando al banditismo i fermenti sociali di una regione periferica e subalterna, sul piano economico, sociale e culturale.

Le orde sanfediste ci riproveranno col cardinale Fabrizio Ruffo nel 1799, ma l’eversione della feudalità arriverà più tardi, con le leggi di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat.

 

N O T E

 

(1) Gabriele Barrio, “De antiquitate et situ Calabriae”.  Cfr il mio “E Masaniello solleva le plebi calabresi”, Calabria Letteraria, 10-11-12/1987

(2) Conflitti europei della Spagna: Rivolta dei Paesi Bassi (1568-1648), Guerra dei Trent’anni (1618-1648), Sollevazione della Catalogna (1640-1650), Secessione del Portogallo (1640-1668),

(3) : S. Volpicelli, in  A.S.C. 1914

(4) Cfr. L. Amabile, “Fra Tommaso Pignatelli, la sua congiura e la sua morte”, Na, 1887. Il frate calabrese (discepolo di Tommaso Campanella), che nel 1634 tentò d’impadronirsi del castello di Napoli, per mezzo di alcuni albanesi vestiti da monaci, per uccidere il vescovo e il viceré e spingere il popolo alla rivolta, fu tradito da Pompeo Mazza di Taverna.

(5) In “Ethica more geometrica demonstrata”)

(6) Estratto da ASNPN, Bo, Forni, s.d.. Cfr anche: a) “Storia della Calabria” di Gustavo Valente, b) Carmela Maria Spadaro, “Società in rivolta. Istituzioni e ceti in Calabria Ultra- 1647/48”, Na, 1995. c) Enzo Misefari, “Storia sociale della Calabria”, d) E. Capani, “Giuseppe Gervasi, l’emulo di Masaniello”, in “Calabria Sconosciuta”, n°71 (1996).

(7) “La città ha per sua impresa un’aquila imperiale, (Diploma di Carlo V del 17.10.1531) che tiene col becco una fascia col motto :”Sanguinis Effusione” [..] sangue de suoi Cittadini sparso in servigio della Cattolica Corona”.

(8) ”Storia del Reame di Napoli”, Ba, Laterza, 1980.

(9) Concittadino del vescovo-poeta  Di Somma e del Preside Ayerbis. “La famiglia  spagnola Ayerbis-D’Aragona di sangue regio” aveva governato Simeri dal 1482 al 1580; il conte Michele si era distinto con la sua artiglieria nella difesa della città di Catanzaro nel 1528 contro l’attacco delle truppe francesi di Francesco Loria. Per l’occasione, l’imperatore Carlo V concesse a Catanzaro il diploma che le consentiva di fregiarsi del titolo di “Città magnifica e fedelissima” e al conte di Simeri l’aumento di 300.000 ducati annui da prelevare dalle entrate del suo Stato (Privilegio da Genova del 14.12.1536: in Arch. Barcellona, 3944, fl.271) . Presso l’Archivio Usi Civici di Catanzaro è custodito il ricorso “dell’Unità et homini” di Simeri  (Ex promissione facta et Pragmatica Super quibus) contro il conte, che non consentiva loro di eleggere liberamente i loro rappresentanti, cioè i Sindaci, il Mastrogiurato e gli altri ufficiali e pretendeva di esigere somme non dovute.(Vol 7, n°1540, pag 143 e seg)

(10) Come la Quintana delle contrade, il “Palio” (di Bisignano), la Fiera di Ribusa di Stilo, la Sartiglia di Oristano, la Giostra dell’ Anello (Mirabilia) di Catanzaro, dove viene rievocata l’antica giostra equestre dell’Inquintana. Nei Capitoli e Grazie dell’Unità di Simari,  rinnovati dai Ruffo nel 1405 (e non “concessi” dagli Ayerbis, che a quella data non possedevano ancora il feudo, come erroneamente riportato da altre fonti pur autorevoli) risulta che il 24 e 25 giugno il Mastrogiurato prelevava dal castello feudale la bandiera con l’effige di San Giovanni per portarla “nella Cappella quale è sita nel fiume di questa Terra” e amministrava la giustizia “a suo beneplacito, senza che ne venga impedito o molestato”, con la possibilità di sospendere la dogana di piazza sui commestibili, il diritto di dormituro dei pastori e di salmonaggio sulle some, il diritto di passo sui fiumi Simeri e Alli, i diritti di tratta su generi vari e sugli animali, sulle acque, sui mulini e ogni altra privativa. A fine estate si teneva l’altra fiera sul fiume Simeri, quella ancora più antica di Trinchisi, alla “confluenza” di Marviano, sotto Sellia. Nelle Chroniche medievali il Semyrus di Plinio era detto Marvo-Trinchison e qualche volta Ortica.

(11) Il “sangianni” (solo quello dei maschi) era suggellato dallo scambio di una goccia di sangue del dito medio, accompagnato dalla formula di rito: “Cumpara meu, cumpara, ‘ma ni volimu bena sempa e numma dicimu mai mala, ca si mala facimu, a lu ‘mpernu finimu”. Le ragazze, invece, si scambiavano un fazzoletto finemente ricamato (sarà il fazzoletto della sposa?). La violazione del patto di comparatico (di fiori, di battesimo, di cresima, di matrimonio, d’anello e di fazzoletto per la sposa) era foriera di castigo fatale. Cfr. M. Barberio, “Il sistema dei doni in Calabria”, in Calabria Letteraria 7-8-9/2005, pag 62 e seg.

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