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I BRUZI FLAGELLATORI DI CRISTO?

(Calunniosa invenzione contro i Calabresi)  

di Marcello Barberio

 

Nella memoria degli anziani è ancora viva la tradizione della rivalità campanilistica tra gli abitanti dei paesi limitrofi e, non di rado, anche tra le borgate dello stesso comune, a basso grado di differenziazione sociale, ma a forte connotazione d’identità territoriale. Quasi sempre la sleale inimicizia sconfinava nello scambio ardimentoso d’insulti e di sassate, e non solo tra opposte bande di mocciosi intolleranti, sulla falsariga degli epici scontri tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei del 59 d.C, immortalati negli Annali di Tacito. I miei compaesani erano soliti apostrofare i vicini abitanti di Sellia come “I Saracini ch’ammazzaru ‘a Cristu”, e lo facevano col fervore di chi ignora che i Musulmani del Nord-Africa e dell’Oriente Islamico, pur professando un’altra religione, non hanno avuto alcun ruolo nella Passione di Cristo. Proprio come i Selliesi.

L’accusa di deicidio, causa di tutte le persecuzioni, è stata sempre rivolta agli Ebrei, responsabili del “Crucifige!”, decretato dal popolo di Gerusalemme, sulla spinta del Sinedrio e del sommo sacerdote Caifa. Smentita dai vangeli canonici, l’accusa è stata lungamente alimentata anche all’interno del Cristianesimo: Martin Lutero  proponeva di “estirpare la dottrina blasfema degli Ebrei e…bruciare le sinagoghe” e Papa Paolo IV, con la Bolla del 1555, determinava la nascita del primo ghetto di Roma del “popolo condannato da Dio alla schiavitù”. Solo dopo la Breccia di Porta Pia del 1870, la Giudecca fu riaperta, ma solo fino alla promulgazione delle leggi razziali del 1938. La vera riconciliazione della Chiesa Cattolica con l’Ebraismo è stata realizzata per volontà di Papa Giovanni XXIII (abolizione della preghiera “Pro perfidis Judaeis”), di Paolo VI (Dichiarazione “Nostra Aetate”) e di Giovanni Paolo II, il quale, nel 1983, fece visita al campo di sterminio di Auschwitz , “Golgota del mondo”, e pronunciò il mea culpa della Chiesa romana.

Ma perché, fino a qualche decennio addietro, era possibile registrare nella nostra cultura orale l’omologazione degli Ebrei con i Saraceni, sempre con connotazioni esplicitamente negative?

Probabilmente per via delle persecuzioni, delle torture e dei processi dei Tribunali dell’Inquisizione contro gli eretici Ebrei e contro gli infedeli musulmani, dopo due secoli di Crociate e più di tre milioni di morti, che inevitabilmente avevano lasciato tracce durature anche nelle varie tradizioni popolari. E’, dunque, corretto leggere in quest’ottica la “Passione di Gesù” secondo le rivelazioni della veggente tedesca suor Anna Katharina Emmerick (1774-1824), proclamata beata nel 2004?

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                                                                       Andrea Mantegna, Crocefissione

 

La monaca agostiniana con le stigmate, infatti, descrivendo particolari non presenti nei vangeli sinottici e apocrifi, raccontò che gli sgherri flagellatori e crocifissori di Cristo erano “piccoli, forti, dall’aspetto truce, quasi animalesco, guidati da figure demoniache […] servivano per denaro i Romani e i Giudei” e, come i soldati romani, “erano al comando dell’arabo Abenadar”. Dunque i torturatori di Cristo non erano Romani e nemmeno Giudei, ma loro servitori prezzolati, e gli Arabi (islamici dal 622, anno 1 dell’Egira e della fuga di Muhammad dalla Mecca) erano ben presenti nelle “storie” della Passione e nella pietas popolare e religiosa delle nostre contrade.

Per certo l’accusa blasfema di deicidio non ha riguardato solo gli Ebrei  ma è stata malevolmente “traslata” come luogo comune contro i Calabresi e contro i loro progenitori, quei Bruzi peregrini deditici dei Romani, inviati nelle lontane province con funzioni umilianti: “ donde l’accusa, condotta per deduzione e fiorita dal Medioevo in poi, che i flagellatori di Cristo non potessero essere stati che dei Calabresi, in quanto servi di Pilato in Palestina”. (1)

“La demonizzazione del Calabrese  –  scrive il prof Atanasio Mozzillo  –  si afferma attraverso una vicenda che ha lontane, remote radici. I Brettii, Bruttiani, dicono le fonti romane, costretti a svolgere le mansioni più ingrate al servizio dei magistrati, anche nelle più lontane colonie, sbirri carcerieri torturatori e carnefici. Fu così che uno di loro, come voleva una tradizione altomedievale, nell’esercizio di questo odioso mestiere, prese parte alla fustigazione e alla crocefissione di Gesù. Patria di Giuda sarebbe stata Scalea (Iscaliota- Iscariota), dove fiorì una numerosa colonia ebraica”.

Anche Benedetto Croce sostiene che le accuse ingiuriose, le insinuazioni e “l’insulsa invenzione”(2) contro “ un bersaglio di satira mordace”, hanno tratto origine dal fatto storico che “i Bruzi, alleati con Annibale durante la II guerra punica, fossero stati condannati a prestare servizio di schiavi e perciò anche di carnefici [..] e che di conseguenza Calabresi sarebbero stati i carnefici di Cristo”.

Nient’altro che un “sillogismo claudicante” per Roberto Spinelli (in appendice a “Riti, miti e cibi nella Pasqua calabrese”).

Nel Medioevo il pregiudizio fu rancorosamente reiterato in ambito accademico, fino ad assumere carattere di leggenda, partendo da un passo delle “Noctes Atticae” (I,10,3) di Aulo Gellio (159 d .C.) sui Bruttiani flagellatori agli ordini dei magistrati romani, tradizionalmente addetti ad  “officia servilia”, non potendo servire nell’esercito come milites, ma al massimo come cursori e tabellari.

“Mentre il cartaginese Annibale era in Italia con il suo esercito e i Romani avevano subito varie sconfitte,i Bruzziani, primi fra tutti i popoli d’Italia, passarono dalla parte di Annibale. I Romani sopportarono ciò assai male, e quando Annibale se ne andò dall’Italia e i Cartaginesi furon

battuti, i Bruzziani a cagione della loro ignominia non diedero soldati a Roma né furono considerati alleati, ma fu loro ordinato di obbedire ai magistrati inviati nelle provincie e di servirli

come schiavi. Perciò essi seguivano i magistrati, come nelle commedie quei personaggi che si

chiamano lorari (flagellatori) e che a comando legano o fustigano; ed essi per essere originari

del Brutium, vennero detti Bruzziani”.(3)

Appiano riferisce che la sconfitta di Spartaco nel 71 a C. costò ai Brettii 5.000 morti in battaglia e 6.000 crocifissi lungo la via Appia, da Capua a Roma, e l’esclusione dall’esercito romano, dove potevano prestare servizio esclusivamente come attendenti  al servizio dei magistrati e come avanguardie.

Il fastidioso sillogismo contro i Calabresi flagellatori a comando ebbe il suo incipit negli “Annali Ecclesiastici, dalla nascita di Cristo fino all’anno 1198” (4) del cardinale Cesare Baronio (1538-1607) e fu reiterato un secolo dopo da un  teologo dell’Università di Padova, il domenicano francese Giacinto Serry nelle sue “Exercitationes historicae, criticae, polemicae…”, per motivi di antagonismo accademico con padre Giordano Pulicicchio di Amantea, bibliotecario presso la stessa università patavina.

A parere di Apollo Lumini, il Pulicicchio riuscì a confutare sapientemente l’infamante accusa, in “Dei torturatori di N.S. Gesù Cristo, chi ne fossero e da quale popolo provenissero” (5a). Eppure, nel Dizionario Latino di Ambrogio Calepino si legge: “Sono detti Bruttii, quasi fossero bruti e osceni, furono quasi distrutti dai Romani a causa della loro perfidia e poiché erano privi di dignità e onore, furono sempre destinati a compiti servili”. (5b)

Con piglio apologetico e amor di patria, Gabriele Barrio (“De antiquitate et situ Calabriae”), nel 1735, dedicò ben 8 capitoli della sua opera ai Brettii e ai Calabresi loro discendenti, argomentando che “Bruttiani sta per Bojani, ed infatti furono i Boj (popoli della Gallia Cisalpina), con Insubri e Liguri ad accogliere per primi Annibale[…] I Brettii non tradirono il loro patto di fedeltà, cedettero al nemico perché costretti…e tornarono nella fede di Roma prima della partenza dall’Italia del duce cartaginese[…]

I Galli, i Boi, gli Umbri, i Sanniti, i Tarantini[…] tradirono l’alleanza con Roma”.  E non tralasciò di ricordare che non pochi cittadini di Temesa e di Turio ebbero l’opportunità di accedere alle magistrature dell’Urbe e che numerosi municipi romani furono istituiti in terra bruzia, dove furono dedotte anche  diverse colonie. Nelle “addizioni” all’opera del Barrio e nella “Istoria della città di Cosenza”,  Sertorio Quattromani confutò con acribia il falso mito dei “tortores” Calabresi e di Giuda Iscariota (Iscaliota?) nativo del Bruzio (di Scalea?), fiorito dalle improbabili deduzioni etimologiche di alcune leggende romane e dalle distorsioni filologiche degli eruditi spagnoli e vicereali.

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Anello della Legio X Fretensis

 

Lo stereotipo del Bruzio/Calabrese primitivo, ribelle e crocifissore di Cristo, delle “Cornucopie” di Niccolò Perrotti e del Calepio, transitò nel mondo accademico come luogo comune, che con necessitava di spiegazione, per la sua intrinseca ovvietà, e venne assunto dai viaggiatori stranieri dei  secoli successivi, attratti dalla suggestione che il lussureggiante Giardino delle Esperidi fosse proprio nella Calabria dei briganti rozzi e bestiali, dei “sauvages d’Europe”, privi di ragioni sociali e costretti a vivere in immondi abituri, in promiscuità con gli animali domestici.

Nella commedia in versi “plurilinguistici” (e di filiazione boccaccesca) “La vedova”, Gian Battista  Cini, nel 1569,  metteva in bocca allo sbruffone Fiaccavento la facezia:

 

E nun sapiti chi Nostru Signuri

Deu, quando criau lu mundu, dissi

A chisti disgraziati: “Surgite

Calabrorum de stercore asinorum”.

“Trista la casa chi ci sta lu misi,

e si ci sta l’annu

ci duna lu malannu”?

Va, mancia fogghia tu, calavrisi,

Iuda, imprenasumeri…

 

L’infamante etichetta contagiò finanche Miguel de Cervantes Saavedra, il quale, nel 1617, in “Los trabajos de Persiles y Sigismunda”, seppur con l’inconfondibile suo stile allegorico e fiabesco, bollò il “Pirro Calabrés” come inguaribile malfattore, facinoroso, accoltellatore e ruffiano.

“Di natura feroce, di costumi rozzi, vaghi di novità, precipitosi all’ira, crudeli nelle vendette, artificiosi nelle falsità,[ …] gran genio d’armi e vivacità d’ingegno[…]senza coltura e disciplina[..] (necessitano) di ammaestramento straniero”. Così è codificato nel “ Ms. Barberiniano latino Vaticano 9392”, grondante sentimento filo-spagnolo, sulla falsariga della “Descrizione del Regno di Napoli: 1577/9” di Camillo Porzio al vicerè De Mondejar: “I Calabresi sono acuti d’ingegno e pieni di astuzia, forti e nervosi, atti a patir sete e fame, coraggiosi e destri nel maneggiar le armi, e sarebbero senza dubbio i migliori soldati d’Italia se non fossero instabili e sediziosi”.

Anche Lope de Vega, nella “Dorotea”, sentenziava che la Calabria “fue la patria del hombre màs infame”, mentre, nel commento, S. Morby annotava che “Judas fue de Calabria, que Iscariotes en el hebreo quiere  de dezir vir occisionis […] sìmbolo del caràcter calabrés” e del mito del buon selvaggio. Nei vangeli gnostici Giuda non è il traditore per antonomasia, ma piuttosto il docile esecutore della volontà divina, per la salvezza dell’umanità.

I troppi turpiloqui culturali e pseudo religiosi indussero Tommaso Campanella ad elevare al cielo l’apocalittica invocazione, nel nobile tentativo di nobilitare l’identità calabrese:

 

“Se torni in terra, armati viene, Signore,

ch’altre croci apparecchianti i nemici,

non turchi, non giudei; que’ del tuo regno”.

 

E nella prefazione alla “Philosophia sensibus demonstrata”, così, nel 1589, replicò alle “disputazioni” del giureconsulto napoletano Jacopo Antonio Marra (6), il quale, con intento spregiativo, aveva definito il filosofo Bernardino Telesio “un tal bruzio”:

“Poiché questo saccente chiama con disprezzo Telesio or Bruzio ed ora Calabrese, sappia che la Calabria è la migliore e la più antica di quasi tutte le regioni […] abitata dopo il diluvio da Aschenaz, nipote di Noè, […] Fu chiamata Ausonia per essere fertile di ogni bene, come ora è la Calabria, […] fu anche detta Enotria, Morgezia, Sicilia, Magna Grecia, per distinguerla dall’altra Grecia, la quale veniva superata da essa in tutte le cose […] Fu detta anche Italia […] Bruttia […] Platone e Aristotele furono discepoli di Calabresi […] La scuola di Pitagora fu a Crotone, e da tutto il mondo venivano a lui filosofi e re […] Dopo fiorì a Locri e a Reggio […] Non si contano i filosofi e le donne sapienti che scrissero molte opere”.

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Tommaso Campanella

 

Intanto, nella Commedia dell’Arte, intanto, nasceva la maschera caricaturale dello zotico calabrese crapulone, tronfio e vile, impersonato dal capitano Giangurgulo, mentre il salace Jugale perpetuava nell’ultima cavea la mordacità scenica del grottesco Pappus delle atellane e l’arguzia istrionesca dei fliaci della hilarotragoedia. Addirittura il famoso avventuriero Giacomo Casanova, nel 1743, raccontando le vicissitudini di un suo sfortunato viaggio in Calabria, annotava d’essersi trovato “in un branco di bestie […] e di donne di una bruttezza spaventosa”, che lo facevano vergognare “d’appartenere al genere umano”.

La difesa dalle endemiche accuse contro i Calabresi fu ripresa, nel 1727, da monsignor Giuseppe Maria Perrimezzi dei Minimi di Paola (“Sulla nazionalità dei torturatori di Cristo contro un recente scrittore francese”) (7), dal Generale dei Minimi, Angelo Zavarroni (“Apologia pro Bruttios contra calumnias eorum qui Bruttios tortores Christi asseverabant”), da un  suo nipote omonimo (“Due Epistole apologetico-critiche[..]sui  torturatori di Cristo”), da Antonio Sandini e da Tommaso Aceti, i quali, da un commento di Sant’Anastasio d’Alessandria estrassero l’affermazione che crocifissori di Cristo fossero stati i Romani della stirpe dei Franchi (8).

Tuttavia, ancora nel 17477, l’abate cistercense Placido Troyli, nel I volume della controversa “Istoria Generale del Reame di Napoli”, continuava a scrivere: “…Riguardo ai castighi che i Romani diedero a questi Popoli, per essersi ad Annibale sottomessi, con farli fare l’uffizio di Birro, e di Boja [..] in breve diciamo, che i Romani […] divenuti nuovamente padroni d’Italia dopo la partenza dell’anzidetto Capitano, condannarono i Bruzi predetti al divisato mestiere di Birro, e di Boja, giustanche Aulo Gellio l’afferma, Pompeo Festo lo ratifica, e Umberto Golzio (Magna Graecia, fol. 256) coll’autorità di M.P. Catone lo comprova.[…] Il lodato Pietro Polidoro, nell’ultima vindiciana Dissertazione (9) a favore dei Bruzj, con ingenuità asserisce, che in tutti i Manoscritti del Vaticano, della Biblioteca Medici di Firenze, e di altri luoghi da lui osservati, i Bruzj, e non i Boj, si legge. […] Questi autori in tanti loro antichi Manoscritti siano stati corrotti, e falsificati, è una cosa assai malagevole a potersi credere”

Eppure l’accusa contro i Bruzi non aveva riscontri neanche nei vangeli apocrifi, dove invece è  menzionato Gaio Cassio Longino (Nicodemo, XVI, 7 e Lettera di Pilato a Erode), il centurione che avvicinò alla bocca di Gesù una spugna intrisa d’aceto e poi ne trafisse il costato con la lancia, per accelerarne la morte. Ne uscì sangue e acqua. Venerato come martire dalla Chiesa Ortodossa, il pretoriano avrebbe militato nella Legio X Fretensis di stanza in Palestina, al comando di Ponzio Pilato: “fuit unus ex Crocifixoribus” asseriva, nell’VIII secolo, il benedettino Beda il Venerabile (“Storia Ecclesiastica del popolo Inglese”), “esattamente il 23 marzo, venerdì di vigilia della Pesach ebraica”.

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                   Beda il Venerabile

 

Concordarono con lui il beato cardinale Ugone, vescovo di Ostia e Velletri nel XII secolo, Simone Metafraste (Menologio bizantino del X secolo), il gesuita spagnolo Alfonso Salmerone (Epistolae) e diversi altri autori.

Nei Vangeli Canonici è scritto che Gesù fu flagellato e poi crocifisso tra due malfattori, sul Golgota presidiato da quattro soldati e da un centurione. Matteo (27:46) racconta il dolore di Cristo agonizzante, che chiede al Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, mentre Luca (23:34) ricorda le cosiddette sette parole della Croce:”Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

Sul patibolo fu apposto il cartiglio in tre lingue con l’acronimo INRI (10), come prescritto dal diritto romano (e non dal Talmud), per evidenziare il capo d’imputazione del condannato alla pena capitale della crocefissione. Per la “Legge Porcia e Sempronio”, tale supplizio non poteva essere esercitato sui cittadini liberi  romani, ma solo sui rivoltosi, sui prigionieri di guerra e finanche sulle vestali. L’apostolo Paolo di Tarsio, essendo un ebreo ellenista che godeva della cittadinanza romana, non fu condannato alla crocefissione, bensì alla decapitazione, durante la persecuzione di Nerone.

Nel 1691, padre Giovanni Fiore da Cropani (“Della Calabria Illustrata”, tomo I, pag. 58) argomentava: “Bruzij furono gli esecutori della morte del Redentore e i divisori delle sue beatissime spoglie? Eccone la ragione: Pilato fu Preside in Calabria[…] in conseguenza gli esecutori della morte di Cristo N.S. stati fossero i Bruzij. Egli è questo calunnioso biasimo”. I dettagli biografici di Ponzio Pilato non sono del tutto noti: sono state alimentate, infatti, varie tradizioni e leggende sul luogo di nascita del quinto prefetto della Giudea, in carica dal 26 al 36 d.C., durante il regno di Tiberio e di Erode tetrarca della Galilea. E’ stato raffigurato sovente col “pileus”, il berretto rosso degli schiavi riscattati, e tanto è bastato per autorizzare la congettura che, come Longino, potesse essere di stirpe bruzia e che addirittura la sua casa fosse l’antica sinagoga cosentina.

Per certo, all’epoca di Cristo egli assicurava la pax romana in Palestina, avendo il comando supremo della Legio X Fretensis (“Fretum Siculum”, Stretto di Sicilia), voluta da Ottaviano e formata da legionari del Bruzio e della Sicilia (11), a presidio dello Stretto di Messina.

Ma non per questo i Calabresi sgherri di Pilato possono essere calunniati come i naturali carnefici di Cristo, cioè come infami deicidi. Argomentava il nostro padre Fiore, che Simon Metafraste li vuole Hebrei, “ex Synagoga Iudeorum”: così pure il certosino Landolfo di Sassonia (“Vita Christi”, 1576), il beato Simon de Cassia (“De gestis Domini Salvatoris”, XIII secolo), San Giovanni Crisostomo (Omelie contro gli Ebrei); Livio Destro li vuole Spagnoli e altri ancora di varia nazionalità. Nel III capitolo della “Calabria Abitata”, padre Fiore confutò apertamente lo scritto di Gellio e dei suoi seguaci, precisando che, “la partenza di Annibale avvenne nel 549 di Roma e che negli anni successivi furono fondate le colonie di Cosa, Tempsa, Reggio, Crotone, Squillace. Tito Livio scriveva, “ch’essendosi scemati di gente gli eserciti Romani, vennero destinati ne’ Bruzij alcuni consoli per farne levare di nuova soldatesca per rifacimento di quelli e aggionge che  Lucrezio riscosse, come da Città confederate, da Reggio ne’ Bruzij una nave, e da Locri nella Magna Grecia due; quali ben armate  inviò nella Cefalonia. E di ciò resti convinto di aperta falsità l’ignominioso racconto su del quale fin’ora si è discorso”.

Tuttavia, lo stereotipo del Calabrese violento e torturatore di Cristo continuò a perseguitarci anche nei secoli successivi: da Cervantes, a Giuseppe Maria Galanti, a Cesare Lombroso, agli esegeti della retorica risorgimentale. Nel “Giornale di viaggio in Calabria (1792)”, l’illuminista G.M. Galanti così ancora  descriveva la nostra regione: “Paese squallidissimo, dove le città non sono che villaggi, dove generalmente mancano le arti, le manifatture e fino le osterie, dove tutto è rozzezza, avvilimento, imperfezione[…]La miseria vi è suprema e il generale pervertimento della disciplina è sensibilissimo.[..] I Calabresi sono divenuti facinorosi per essere mal governati, sono servi degradati, rozzi, queruli, di mala fede, spergiuri, denunzianti, calunniatori, indocili, ostinati nelle loro idee, risentiti, rissosi e vendicativi. Nelle amicizie e negli odi sono tenacissimi, [..] indifferenti alla musica, sono portati per le funzioni tetre e lugubri”.  Si era ben oltre la triste eredità dei Bruzi, in quanto lo stereotipo dell’animus calabrese veniva orgogliosamente e consapevolmente rivendicato anche dagli accademici nostrani, che ne ribaltavano spesso il senso, “ col  consapevole orgoglio di un’identità esclusiva”.

Soprattutto dopo la Rivoluzione Francese e il fallimento della ribellione delle orde sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo, il mito dell’arcaicità calabrese cominciò a non essere più negato dall’intellettualità locale, che anzi lo assume come valore positivo, in una sorta di riappropriazione culturale della stessa consolidata iconografia, con l’intento di avviare il riscatto economico e sociale della regione. Perché “il Calabrese s’innamora, come pochi altri, delle grandi idee”, dirà Corrado Alvaro, ignaro dell’avvertimento di Vincenzo Padula: “Ma il nostro è un amore poetico, che mette radice nelle memorie”.

Intanto, nel museo di Torino, il famoso medico ebreo Ezechia Marco (Cesare) Lombroso raccoglieva più di 1.000 trofei di guerra tribali, tra cui il cranio con la fossetta occipitale del brigante Giuseppe Villella, della “vil razza dannata” calabrese, dei “sottouomini atavicamente criminali” che non delinquono “per un atto cosciente e libero di volontà malvagia, ma perché hanno tendenze malvagie, diverse da quelle normali”. Era l’esplicitazione della teoria dell’atavismo criminale, del delinquente nato, razzialmente inferiore: “I calabresi in particolare e i meridionali in generale si ribellano alla conquista piemontese perché sono irrecuperabilmente selvaggi per natura e non perché la conquista piemontese sia ingiusta”.

“Calàru di Piemeonti allindicati

‘na razza chi mangiava dhà pulenta 

e di Natali e Pasca dui patati.

Iestimaturi orrendi e miscredenti”

gridava Antonio Martino, nel 1874, in “La preghiera del Calabrese al Padre  Eterno”.  “Padroni delle nostre terre e noi coloni”.

Da tempo oramai l’armamentario delle annose invettive sulla primordialità della nostra identità regionale sembrava relegato nel ghetto del bar dello sport e dei movimenti secessionisti delle aree geografiche più ricche, quando, il 28 febbraio 2004, sulle pagine del quotidiani “Libero”, il linguista Gianfranco Marra e l’inviato  Miska Ruggeri rispolveravano la leziosa leggenda appulo-lucana, titolando emblematicamente a tutta pagina: “Ma quali Ebrei e quali Romani,Gesù l’hanno ucciso i Calabresi”.  La vexata quaestio è stata poi ripresa   –  come “diritto di non essere eroi”  –   dallo studioso reggino Domenico Gangemi, con un’accademica discussione sulla Legio X Fretensis, di stanza in Palestina, agli ordini di Pilato, al tempo della Passione di Cristo: il cognomen “fretensis” starebbe a indicare l’origine etnico-geografica della legione, formata da Regini e Brettii, messi a presidio dello Stretto di Messina sin dal 40 a C, prima di passare in Siria e in Palestina.

Sulle pagine di un quotidiano calabrese, Battista Sangineto ha recentemente confutato le ragioni della reiterazione “autoctona” della vecchia e manierata tesi contro i Calabresi e contro i Bruzi, i quali, già dal 90 a C, erano stati equiparati ai cittadini romani, per effetto della “Lex Julia de civitate”.

“I Calabresi dovrebbero iniziare a costruire un’identità positiva”, concludeva Sangineto, partendo dalle acquisizioni di A.B. Segreto, di Roberto Spinelli e di Francesco Campenni (12), i quali, attraverso l’esposizione ordinata e particolareggiata e lo smantellamento storico-filologico del mito negativo dei Bruzi-Calabresi, oltre che dei più remoti confini delle “identità plurime” regionali, fanno partire la costruzione dell’identità antropologica, culturale e territoriale dal senso di appartenenza alla terra d’origine, al paese natio o di adozione, alla città, alla regione, al Sud piuttosto che al Nord, all’Italia, all’Europa, perché l’identità non è staticamente data, ma è plurale, ambivalente, in movimento come lo scorrere della vita. Tale chiave di lettura, però, non esorcizza il rischio della retorica e della ideologia della “calabresità”, della “calabritudine” e della iconografia tradizionale. I paesi “spezzati” della Calabria immobile sono i luoghi della poetica della memoria e dell’utopia, degli stereotipi persistenti, delle antiche povertà e delle nuove esclusioni.  Così torna attuale la lezione di Franco Costabile: “Morì proprio qui,/ salute a noi.[…]// Brutto paese, caro mio./ Amaro chi ci capita.// [..] dobbiamo parlarci una volta/ ragionare davvero con calma/ da soli, / senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade./ Noi dobbiamo deciderci/ con questo cuore troppo cantastorie//”. E finalmente, nella “Rosa nel bicchiere”: “Stamattina, amici miei/ vorrei che sventolasse la bandiera:/ nessun anniversario: è primavera!”.

 

N O T E

 

(1) Augusto Placanica, “Storia della Calabria, dall’antichità ai giorni nostri”, Meridiana Libri, Catanzaro, 1993, pag. 54- Diverse località si contendono i natali di Ponzio Pilato. Strumentalmente alcuni citano Leonzio Pilato, maestro di greco di Petrarca e di Boccaccio e nativo di Seminara nel XIV secolo, per sostenere la persistenza in Calabria del cognome della stirpe dei Pilato.

(2)  Oreste Dito, “Storia dei Calabresi e la dimora degli Ebrei in Calabria”, Brenner, CS, 1967.

Ibidem  “Notizie di storia antica per servire d’introduzione alla storia dei Brezzi”, Roma, 1892.

(3) “Quum Hannibal Poenus cum exercitu in Italia esset, et aliquot pugnas populus Romanus adversas pugnavisset, primi totius Italiae Bruttii ad Hannibalem desciverunt. Id Romani aegre passi, postquam Hannibal Italia decessit superatique Poeni sunt, Bruttios ignominiae causa non milites scribebant, nec pro sociis habebant, sed magistratibus in provincias euntibus parere et praeministrare, servorum vicem, jusserunt. Itaque hi sequebantur magistratus, tamquam in scenicis fabulis qui dicebantur lorarii; et, quos erant iussi, vinciebant aut verberabant; quod autem ex Bruttiis erant, appellati sunt Bruttiani”. Interpretazione dell’espressione “Decemviros Bruttiani verberavere” dell’orazione di Catone “Q. Minicium Termum de falsis pugnis”.

(4) Iniziatore della storiografia ecclesiastica; dichiarato Venerabile nel 1745 da Benedetto XIV.

(5a) G.Pulicicchio: “De tortoribus Christi Domini, quinam fuerint et unde gentium extiterint”: ripreso dal nipote, sac Geniale Posteraro, 1731. (5b) Alla voce “Brutium”, il Dictionarium Latinum del Calepino recita: “Brutii dicti, quasi sint bruti et osceni […] a Romanis propter eorum perfidiam pene deleti fuere, sine dignitate, sine honore, ad servilia opera semper coacti”.

(6) “Propugnaculum Aristotelis adversus principia B. Telesii”, Roma, 1581

(7)  “De natione tortorum Christi adversus  nuperum Scriptorem Gallium”, Roma, 1727

(8) “Gentes dicit Romanos, Francorum vidilicet genus qui Christum crucifixerunt”.

(9) Dissertazione di Pietro Polidori Frentani, 1737, “Bruttii a calumnia de inlatis Jesu Christo Domino Nostro tormentis et morte vindicati” (Assoluzione dei Bruzi dalla calunnia di aver prodotto i tormenti e la morte di Nostro Signore Gesù Cristo). Cfr anche Francesco Zavarroni, Manoscritto “Apologia pro bruttiis contra calumnia eorum qui brutios tortores Christi asserebant”; Giuseppe Spiriti, “Se i Bruti stettero o no in amicizia coi Romani”

(10) (Iesus Nazarenus Rex Iudeorum) in latino, in greco (“Iesous Nazaraios basileus Ioudaios”) e in ebraico.

(11) Nel 6 d.C., Pubblio Sulpicio Quirino, governatore della Siria, guidò la legione per sopprimere la rivolta scoppiata dopo l’esilio di Erode Archelao e l’annessione del suo regno nell’Impero Romano; nel 66-73 d.C. fu impegnata nella prima guerra giudaica, sotto il comando del futuro imperatore Flavio Vespasiano e poi del figlio Tiberio. Nel 132 i Romani completarono la deportazione forzata degli Ebrei e la loro vendita come schiavi: iniziava la diaspora.

(12) “Dalla “patria” alla “nazione”. La costruzione dell’identità”, in “L’Acropoli”, anno IX, n

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