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LA NOVELLA STRAGE DEGLI INNOCENTI

 di Domenico Cefaly 

Cronaca della genesi di un capolavoro

di Marcello Barberio

 

Nell’autunno del 1983 ebbi la fortuna di conoscere don Mimì Cefaly (Cortale 1932- Roma 2003), persona gentile e disponibile come pochi, ma soprattutto pittore affermato, “gemmato” alla scuola artistica dello zio Andrea junior, di Felice Casorati e di Michele Guerrisi.

“Costante della sua pittura resta quell’atmosfera di stupore perenne che anima i suoi dipinti: ritratti assorti, attoniti nel variare dei sentimenti che li agita o nei conflitti reconditi che esprimono; paesaggi saturi di mistero e sospesi in una luce capace di trasformare gli aspetti e le dimensioni del reale, secondo moduli fantastici nell’ambito di un’atmosfera incantata.[..] Se la sua pittura nasce da lombi illustri (resta) immune da artifici e da particolarismi retorici”, ha scritto di lui Achille Curcio.  Ed Ennio Bonea ha aggiunto: “Ognuno dei suoi personaggi trasmette un’atmosfera di serenità e di dramma, di enigma e di solarità, di cupezza o malia, insomma il riflesso di un’anima invisibile […]  il cognome illustre (non conduce) al vassallaggio tecnico o creativo o all’ingombro psicologico (perché) confortato dall’apprezzamento dello zio e dalla sua sollecitazione a rompere gli indugi”.

 

La sua riservatezza, infatti, era proverbiale, fino a sentirsi in qualche modo vincolato a non stare in campo contemporaneamente allo zio illustre. “Un Cefaly per volta!”, si lasciò sfuggire, confidenzialmente, nel corso di una mia visita  nella quiete bucolica del fondo Rena, alle porte di Girifalco, dove mi parlava di configurazione spaziale della pittura, di simmetrie, ritmo, movimento, equilibrio, prospettiva, toni cromatici e colature spirituali. Ero riuscito a diventare suo amico e confidente , tanto da convincerlo a dipingere, per conto del Comune di cui ero sindaco, quello che poi sarebbe diventato il suo capolavoro artistico, la “Novella strage degli Innocenti di Crichi del 1809”. Gli fornii, a richiesta, i necessari riferimenti storici, in particolare la  “Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825” di Pietro Colletta e una copia del n° 352 del  “Monitore Napoletano” del 12 luglio 1809, che così recita:

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D.Cefaly, La novella strage degli innocenti di Crichi

 

“Da ulteriori notizie che il governo ha ricevuto […] infelicemente rileviamo che i 3000 Inglesi furono preceduti nello sbarco e seguiti nella loro fuga da varie orde di briganti, vomitati in vari punti da legni inglesi. Non è possibile ridire gli eccessi di questi cannibali. Dopo aver violato l’onore di quante donne potettero avere tra le mani, dopo aver portato dappertutto il sacco, il ferro e il fuoco, questi mostri della specie umana si abbeverarono in CRICHI, casale distante 6 miglia da Catanzaro, del sangue di 30 infelici fanciulli, che scannarono e gettarono nelle fiamme nel dare l’ultimo addio a una terra che li aveva in gran parte visti nascere.[.. ] I fatti avvenuti in queste occasioni sono sì atroci, che il generale Stuart ha sentito la necessità di scusarsene in faccia all’Europa, proclamando che esso non ha mai autorizzato un piano di guerra sì orribile”.

Conferma Pietro Colletta, a pagina 320 della sua Storia:

 “Terminata la guerra esterna si accese la interna, vasta quanto non mai ed orrenda. I briganti lasciati sopra terra nemica non avevano altra salute che vincere, e, per la simultanea loro entrata in tutte le province del regno, fu generale l’incendio .Quando le milizie assoldate erano state nei campi, e la civile a difesa della città, i briganti avevano dominato spietatamente nella campagna, e perciò, liberi e fortunati per due mesi, crebbero di numero e di ardire: formati in grosse bande sotto capi ferocissimi, una entrò in CRICHI, paese di Calabria, e dopo immensa rapina, fuggiti quei che per età robusta potevano dar sospetto di resistenza, vi uccisero quanti vi trovò, vecchi, infermi, fanciulli, trentotto di numero, tra i quali nove bambini di tenerissima età.”

In “Gioacchino Murat e l’Italia meridionale”, ha commentato Angela Valente:

“Belve umane, i briganti giunsero al sacrificio di 25 bambini figli dei bravi legionari di Crichi, vera nuova strage degli innocenti, che ancora oggi fa salire dai nostri cuori un grido di protesta, che fa eco alla voce commossa ed eloquente di Giuseppe Poerio, il quale sorse ad accusare e condannare, in nome dell’umanità offesa”.

Mi permise di fargli visita nel suo atelier di palazzo Ferrajina, ma ogni volta, con mio stupore,  trovavo la grande tela bianca poggiata alla parete del grande salone. Ad un certo punto mi feci coraggio e bofonchiai:  “Mimì, abbiamo già stampato gli inviti per la festa del 7 luglio, ma temo che non faremo in tempo ad esporre la tela!”

Mi guardò con benevolenza e mi rispose, con la consueta cortesia:  “Non ti preoccupare, la tela è quasi completata. E’ già tutta nella mia testa, ho abbozzato i contorni col carboncino; i gesti sono già dinamici, devo solo definire la posizione delle luci, delle ombre e dei toni”. Non ebbi l’ardire di aggiungere altro. Alla quinta visita, la tela era magicamente “compiuta”, in tutta la sua incommensurabile bellezza.

La straordinaria pagina pittorica offriva già alla visione immediata un surreale percorso narrativo, religiosamente evocativo dell’obbrobrio della violenza dei briganti sui contadini e sui figli dei legionari   –   esaltato da colori “gridati” che si facevano movimento   –   mentre, nella sua apparente indeterminatezza figurativa, disvelava l’invisibile destino d’immobilità delle nature morte e delle vittime.

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Crichi: inaugurazione “Piazza Martiri 1809”

(Cefaly è il primo a sx del sindaco)

 

Mimì non aveva “narrato” l’evento storico, ma lo aveva trasfigurato nel mito di una civiltà violata e impoverita dal trionfo della bruttezza e dell’ingiustizia: in uno straordinario equilibrio di forme e di colori, i luoghi della memoria convergevano in una metafora dell’anima, diventando messaggio di dolore. Pur contenendo insito il “soggetto” indicato dalla committenza, l’opera non è collocabile nell’ortodossia della pittura  figurativa e “celebrativa” : è piuttosto un unicum che non rinnega, ma assorbe e supera gli antecedenti artistici della pittura di don Mimì, compresa la “scuola di Cortale” dei suoi prestigiosi antenati.  Era e rimane autentica poesia, armonia dello spirito.

Le trasmutazioni cromatiche, con le modulazioni luminose del suo inconfondibile umanesimo pittorico, continuano a suscitare emozioni profonde e suggestioni inconsuete ai visitatori che hanno la ventura d’ammirare la tela nel palazzo comunale di Simeri Crichi.

Al primo impatto, ancora nell’atelier del maestro, mi colpirono i colori “dissonanti” del primo piano, col rosso stridulo della testa spaccata e sanguinante, che evocarono subito i colori gridati e violenti delle tele di Matisse e di Dufy, mentre le delicate tonalità dei fiori dolenti mi rimandavano al naturalismo caravaggesco e alla pittura esistenziale di Van Gogh e di Gauguin. E anche alla “fiasca fiorita di Forlì” del Museo del San Domenico di Padova.

Scuotendomi dall’estasi contemplativa, don Mimì, nell’affidarmi l’opera, si preoccupò d’insegnarmi a osservare correttamente lo schema iconografico della tela, facendomi mettere la mano destra a pochi centimetri dalla fronte, come nell’atto di scrutare  l’orizzonte.  E avviò una lunga e dotta  lezione, che riassumo così (2):

“In primo piano, i colori accesi dai riflessi lunari vogliono esaltare la connotazione realistica delle passioni primordiali degli attori, fotografando i lugubri ceffi degli assalitori invasati e il sangue che schizza macabro dal “caput mortuum”; sullo sfondo i toni bassi e scuri delle pennellate vorticose provano a nascondere alla vista l’azione del drappello di cavalieri inglesi al galoppo (3) nelle retrovie, mentre, in basso, il cane macilento, il barile vuoto, la vozza, il paniere di frutta, il vancale e il fiore dolente testimoniano la caducità della vita e dei beni materiali, in una sorta di quadretto espressionista autonomo, dai toni soffici e sfumati. I fiori e la natura morta non sono elementi aggiuntivi o decorativi nell’armonia generale del dipinto, ma un elemento essenziale, un’affabulazione pittorica legata alla narrazione, come direbbe il mio amico Ennio Argiroffi.  Gli oggetti sembrano confondersi  –  nonostante la tragicità dell’azione scenica  –  con la natura circostante, con la realtà contadina immutabilmente ferma. E’ veramente un unicum. Ho usato il colore non come strumento d’imitazione della realtà, ma come elemento espressivo personale per rendere il fine stesso dell’opera. Così anche per il contrasto cromatico, tra la luminosità intensa e le tonalità apparentemente dissonanti del primo piano, in particolare il rosso stridulo della cruda e accecante violenza della testa spaccata in primo piano, e l’ambiente in ombra dello sfondo con la torma dei cavalli in fuga, sospinti dalla violenza ferina dei cavalieri. Belve umane, meritano il fauve di Matisse, per imprimere la giusta aura di gravità e per marcare esplicitamente il gioco della vicinanza/distanza, metafore del destino di un popolo, a lungo discriminato come figlio di un Dio minore.”.

Don Mimì aveva catapultato una seconda volta nello scacchiere europeo la furia selvaggia della strage del 1809, come a proporre ora il risarcimento per il più incongruo tributo fratricida di una piccola comunità calabrese, tradita dai Francesi, dagli Inglesi e dai Borboni  e ripagata con l’emarginazione e la sudditanza sociale dai protagonisti del Risorgimento Italiano e dai novelli Erode della storia post-unitaria.

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  1.                                                          Piacente: “Ipotetico ritratto di Nicola Barbuto”

 

La tela rappresenta ora un ponte tra la storia e la contemporaneità, un  eloquente ferma-tempo dei muti della storia, delle vittime fatalmente evanescenti e dei briganti sanguinari, che il pittore ha saputo liberare sapientemente dal ghetto dell’ideologia e dell’oblio secolare, per porgerli alle nuove generazioni e alla ribalta del tempo presente, anch’esso segnato da un carico di bestialità, oltre che da nuove astoriche esclusioni.

 

N O T E

 

(1)          Il trittico “Natura morta sul davanzale, “Paesaggio” e “Angolo di giardino” è del 1949; nel ’62 aveva partecipato, su invito, alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, riscuotendo grande successo di critica con i suoi ritratti e con i paesaggi inconfondibili. Era pronipote del pittore garibaldino Andrea senior (Cortale 1827-1907) e nipote di Andrea junior (Cortale 1901-1987), oltre che discendente dei deputati del Regno Italiano: Antonio (Cortale 1850-Roma 1928), Fortunato (XIX sec) e Domenico (deputato dal 1909 al 1913), dei poeti Giorgio e Vittoria, di cui ho scritto su “Calabria Letteraria” 3-4-5/1984, in “Le poesie inedite di Vittoria Cefaly”. Sulla stessa rivista (n°10-11-12 del 1987 ho ricordato “Crichi 1809: la nuova strage degli innocenti” e successivamente “Bicentenario della strage degli innocenti di Crichi” (C.L. 4-5-6/2009, pag 18 e sg).

(2)          La sua riconosciuta ritrosia lo induceva a parlare poco, perché la sua lingua era il pennello, come soleva dire. Il racconto è autentico, seppur ricostruito da sequenze brevi.

(3)          “Il cavallo in movimento è motivo d’ispirazione di ogni artista, dai graffiti, agli Etruschi, a Michelangelo, a Picasso. E’ un animale totemico, che incarna la perfezione della natura, coniugando forza e potenza con bellezza ed eleganza. Prova a guardare “Cavalieri sulla spiaggia” di Gauguin, ma anche “Mandolino e vaso di fiori”, non meno bello di “Natura morta con girasoli” di Van Gogh. Per quanto mi riguarda, con pennellate  lunghe e sovrapposte, ho inteso mimetizzare l’azione cruenta dei cavalieri, che non dovevano essere tutti stranieri. Qualcuno doveva essere paesano tuo”, mi confidò qualche tempo dopo.

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