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LA CIVILTA’ PASTORALE IN CALABRIA

Quaderni di etno-antropologia culturale)

di Marcello Barberio

 

Dopo i terremoti dell’8 settembre 1905 e del 28 dicembre 1908, il Governo Italiano promosse una Inchiesta Parlamentare per la ricognizione delle condizioni di estrema miseria  delle popolazioni rurali della Calabria e della Lucania, costrette sovente a vivere promiscuamente con gli animali domestici, sistemati nel catoju o al pianoterra della casa, adibita anche a stalla, a fienile, a legnaia e a deposito.

I rapporti ufficiali ricalcarono sostanzialmente le Relazioni ad Limina dei vescovi calabresi dei secoli precedenti, nelle quali i campagnoli venivano descritti come  feroci, rozzi, analfabeti, superstiziosi e diffidenti nei confronti dei forestieri, i quali incontravano non poche difficoltà a decifrare i vari dialetti, con i quali venivano trasmesse in modo diretto le radici stesse della cultura materiale e delle tradizioni locali.(1)

Tutto ciò rese ancora più arduo il lavoro della Commissione, che dovette ricorrere agli “Studi statistici sull’industria agricola e manifatturiera della Calabria Ultra Seconda” di Luigi Grimaldi

per ribadire: ”…Vi sono  23.423 vacche di razza podolica, 1.577 tori della stessa razza, 15.076 buoi d’aratro  e 10.222 giovenchi, cioè 50.368 bestie vaccine, custodite da 5.136 pastori…Le pecore di razza Gentile sono 282.060 e le capre 104.066, custodite da 1.740 pastori…Le bestie cavalline sono 3.869…Ai giornalieri si dà la mercede di 2.025 grana  al giorno, in alcune zone col cibario: i forisi o salariati fissi ricevono 2-2,50 ducati al mese e il minaticu , cioè  un tomolo di grano da macinarsi a spese del padrone, ¼ di tomolo di fave, una litra d’olio d’oliva, 4 libre di formaggio fresco salato, 33 once di sale di miniera, una mezzalorata di terreno da coltivare a grano duro Cappelli o tenero Russìa e una mitta da coltivare a fave o a ceci…La gerarchia tra i forisi  riproduce ancora quella descritta nell’Editto di Rotari del 643 e comprende: il discipulus pecorarius, il pecorarius, il magister pecorarius (capurala o curatulu) , il discipulus porcarius, il porcarius, il magister porcarius, l’arciporcarius, il caprarius, il magister caprarius, il servus rusticanus qui cum massaio est”(2).

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Anche la Grande Guerra fu vissuta dai Calabresi  e dalle popolazioni meridionali come una ulteriore  calamità, nonostante il Presidente del Consiglio dei Ministri, on. Salandra, avesse promesso:” Dopo la fine vittoriosa della guerra, l’Italia  compirà un grande atto di giustizia sociale: darà la terra ai contadini, con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo aver valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi  una situazione d’indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla Patria ai suoi valorosi figli”.

Nell’agosto del 1919, dall’Agro Romano alla Sicilia, iniziarono le occupazioni dei latifondi, che costrinsero il governo ad emanare il “ Decreto Visocchi”, col quale si autorizzavano i  contadini ex combattenti ad occupare  per 4 anni le terre incolte o mal coltivate. La risposta della borghesia fondiaria fu il fascismo, con la “bonifica integrale” e la “battaglia del grano”, avviate nel ’28 per esaltare il “ruralismo” e la “contadinizzazione” della società, in regime di autarchia

 

Al momento dell’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943, era ancora forte  in Calabria il disagio delle masse contadine e popolari, che si manifestava tumultuosamente con la ripresa delle occupazioni delle terre incolte, con gli assalti ai forni e agli “ammassi” del grano, con le invasioni e gli incendi dei municipi.

L’agricoltura continuava ad assorbire il 68% della popolazione attiva regionale: il 90% dei mulini funzionava ad acqua, ¾ dei 5.238 frantoi oleari erano azionati dalla forza animale, l’olio veniva separato dall’acqua di vegetazione nella tina col coppo e lo scupulicchiu di manacala o di canna-masca, si raccoglieva la morchia dalla fossa del quatriculu; la trebbiatura delle graminacee veniva effettuata da  trebbie con battitore a tamburo, mentre per le leguminose persisteva il sistema delle “pisère”, con la battitura col forcone o col calpestio degli animali. E se Eolo faceva le bizze, bisognava restare sull’aia per più tempo, giorno e notte.

I capi bovini erano 160.000, i caprini 351.000 e gli ovini 608.000 (delle razze merinizzate come la Gentile di Puglia e la carbellisa, le pecore moscie da latte come la sciara, a lana lunga da materasso, e la carfagna a lana mista). Ogni gregge veniva diviso in 4-5 murre (branchi):delle figliate-lattaie con le sode e da corpo (in fine gestazione), delle strippe (che non fanno più latte e non sono gravide) con gli allevimi sopranno (montoncini, ciavarre od oniglie), montoni, agnelli sottanno.

L’alimentazione umana era a base di farinacei (di grano, di jermana o segale, di majorca o  siligine, ma anche di ceci e di castagne) e di erbe, come la cicoria, la fogghia, lo sculimbru, il rapistru, la secra, la scalera, la vurrajina, lo scalanzuna,i jungi, la scamogna.

Nel paesaggio agrario dominavano ancora i pagliai e le case di terra cruda, composta d’argilla impastata con paglia, pula, canne e muschio, che la rendevano più leggera e ne aumentavano la resistenza al calore; in diversi luoghi era possibile osservare i palmenti scavati nella roccia arenaria, con le due vasche di pigiatura e di sgrondo del mosto comunicanti tra loro: quella superiore e più grande era detta zampataru e quella inferiore fundeddu (3). Le donne facevano il bucato con la liscivia di cenere (lissìa): in testa, sul cercine (curuna) portavano al fiume la sporta di vimini colma di panni sporchi, che venivano  lavati allo srtricaturu col sapone fatto in casa, poi accendevano il fuoco sotto la marmitta della liscivia e sistemavano i panni insaponati nella sporta, prima di versarvi il vucaturu. L’indomani mattina, all’alba, si faceva l’assammaru,cioè il risciacquo dei lisciviati.

 

Dopo gli eccidi di Sellia Marina e di Melissa, il 12 maggio del 1950 fu approvata la legge n°230 di riforma fondiaria in Calabria, che affidava all’Opera Valorizzazione della Sila il compito della trasformazione della proprietà terriera e della sua distribuzione in quote  ai contadini poveri e ai reduci di guerra, in Sila e nella fascia jonica contermine.

In carenza di veri e propri tecnici, furono reclutati anche i cosiddetti “esperti di campagna”, i quali non erano solo dei praticoni con vocazione filogovernativa, ma anche i portatori inconsci di conoscenze collettive, di una cultura materiale antica, filtrata attraverso la memoria sociale.

“Non è bella la vita dei pastori”, ha scritto Corrado Alvaro.

Il pastore è sempre stato animista e ogni fenomeno naturale ha rappresentato per lui qualcosa di straordinario e di magico.

Giovanni Fiore, nella sua “Calabria Illustrata”, ci ha lasciato un lungo elenco di divinità campestri: le dee Rufina, Vallina, Collatina, seguite dalle dee delle biade e delle sementi ( Seja “mentre s’ingravidano sotto terra”, Segezia “quando sono erbe”, Proserpina “quando germogliano”, Patelana  e Ostilina  quando escono le spighe, Flora “al fiorirne le spighe”, Latturcia “quando sono in latte”, Matura, Patella “perché sbuccino al di fuori”, Runcina “che si seghino bene”), Nemestrino dio dei boschi, Pale dea degli armenti e dei pastori, Cerere, Diana, Dionisio con le moltitudini di ninfe, satiri e sileni. Un vero e proprio Olimpo contadino, completamente estraneo ormai al pastore di 40 anni fa, il quale limitava la sua devozione a San Pasquale, per la tutela dei suoi animali, a San Paolo, come protettore dalle insidie dei serpenti, e al santo patrono del paese d’origine. Il contadino, invece, si affidava volentieri alla  Madonna Addolorata e a San Michele Arcangelo, ma anche al ceravularu, per allontanare i serpenti.

L’ultima guerra mondiale ha rappresentato una sorta di spartiacque nelle campagne calabresi, poiché la tradizione arcaica ha cominciato a cedere il passo alle innovazioni, rese più evidenti dalla nascente meccanizzazione del lavoro e dai nuovi rapporti produttivi.

Coadiuvato da un anziano esperto dell’O.v.s.  –   un buon testimone, immerso ancora nella vita tradizionale  –   approntai un piano metodico di lavoro e un elenco di luoghi da visitare, nel tentativo di realizzare una ricerca sul campo per un’ indagine conoscitiva della civiltà pastorale calabrese.

In compagnia dei miei confusi ricordi infantili, ebbi modo di effettuare diverse visite alle mandrie della fascia jonica e della collina catanzarese e crotonese, in quello che era stato il vecchio latifondo cerealicolo-pastorale.

La prima visita interessò una mandria di capre, nelle campagne del demanio comunale  di Mesoraca, gravato da usi civici e dal canone della fida pascolo.

Non somigliava affatto alla mandria delle pecore, dal momento che era poco più che un semplice ricovero, realizzato con cortecce di castagno: una zimba, con a fianco una baracca di tavole, che fungeva da caccamu per il formaggio e da ricovero per il pastore, che, in quel preciso momento, stava consumando la sua impanata di siero e ricotta in una scodella di legno. Davanti all’uscio era sistemato uno scifu (truogolo), dove i cani aspettavano di bere il siero caldo, dopo che il caporale aveva messo la tuma (cagliata) e le ricotte nelle fiscelle di vimini.

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 Il siero, però, era sconsigliato per i maiali, ai quali, al rientro dal pascolo, il porcaro provvedeva a distribuire una vrodata  di residui di cucina e il pastone di crusca (canigghiata) e macinato d’orzo e di favette; ai porci di provvista si davano anche ceci e ghianda, per dare più sapore alla carne.

Il pastorello ci mostrò la metà longitudinale di un lungo bastone scortecciato e squadrato, che chiamava indifferentemente tagghia o tocciu , su cui col padrone segnavano i litri di latte, le pezze di formaggio, le ricotte, le juncate; in uno stipetto a muro custodiva il bastone per la rottura della cagliata (misculu), il ramaiolo per la ricotta (cogghitricia) e un bottiglione di acqua di mare, che utilizzava, in giuste dosi, per fare affiorare la ricotta dal siero riscaldato.

Sulla destra della baracca faceva bella mostra di sé lo scalandruna, un tronco d’albero rinsecchito e  con i rami spuntati, su cui erano appese le sische (secchi), le pelli, i collari delle campane delle pecore e delle mucche e un madduna, cioè il palo utilizzato per portare a spalla 2 secchi di acqua o di latte.

I capretti erano rinchiusi nel mandrigghiu, assieme a 4 zimmari (caproni), all’unica capra  arva  (che dà il latte da una sola mammella) e  alla zimbarigna,con la barbetta lunga e folta e con le corna molto lunghe. Il garzone, avvolto nel suo pellizzuna (4) e con le cioce a i piedi, non volle saperne di aiutarmi a compilare  la “scheda d’investigazione”, per preconcetta diffidenza verso gli estranei, ma in compenso eseguì una pastorale natalizia con un  fischietto a pariglia, la tibia pares o doppio flauto di canna della tradizione classica.

Nel linguaggio del mio informatore le due appendici cutanee pendenti dalla gola della capra  –  note agli zoologi come “tettoie” o “barbazzali”   –  erano dette ciancianeddi (come il caprifoglio o madreselva) e l’animale ninnolina. La capra monaca dal mantello bianco e nero era diversa dalla canniva dal pelo grigiastro, la gudda,  poi, era senza corna e la  cuccuma aveva le corna curvate all’indietro. Mediamente una capra, nei 10 mesi di lattazione, produceva 500-600 litri di latte, ma la bianca Maltese arrivava fino a 1.000 litri; la gestazione di 5 mesi, come la pecora, si concludeva in primavera con un  parto prevalentemente bigemino (cucchiata) o trigemino.

La prenanza della vacca dura sempre  9 mesi, quella della cavalla 340 giorni, dell’asina 380 giorni, della scrofa 4 mesi e dei conigli  un mese. Il pastore volle anche puntualizzare che quando venivano venduti i capretti lattanti o i bìfari di pecora, bisognava sempre rivendicare il “quagghiu”, cioè il quarto stomaco ancora pieno di colostro, utilizzato per cagliare (aggrumare) il latte nella produzione del formaggio. Delle malattie delle bestie conosceva solo i sintomi, ignorando cosa fosse il carbonchio ematico o la brucellosi; la pleurite essudativa gli era nota come cimurru e sapeva anche che un animale malato deve essere sagnatu, cioè salassato con un taglio alla punta di un orecchio, mentre il morso della vipera dev’ essere curato con la polvere dell’erba nepita (nepente).

Ci disse che i capretti azzaccanati, cioè separati dalle madri nello zaccanu, dopo la mungitura delle madri nello stajile, potevano fare l’ultima poppata, col poco latte appositamente risparmiato dal caporale.

Per assistere alla muntima, però, ci diede appuntamento a ottobre, quando le capre s’ircianu,cioè  vanno in calore. E noi fummo puntuali, come promesso.

In molte specie animali, ovulazione ed estro sono simultanei  e le femmine segnalano la loro ricettività produttiva emettendo ferormoni, per stimolare il comportamento del maschio, il quale mette in atto tutto un cerimoniale di corteggiamento, al quale avemmo la ventura di assistere nella seconda visita alla mandria.

Ci fu preliminarmente spiegato che la pecora s’onìa (desidera l’ariete), la vacca si vicchia, la scrofa  si suva o verrìa, mentre genericamente si munta la jumenta (cavalla) e l’asina; il mulu ciucciu (5) e il mulu jumentinu, però, non figliano, sono sterili e conseguentemente non hanno l’estro.

Ad un certo punto ci rendemmo conto che lo zimmaru stava fissando intensamente una capra e batteva colpi a terra con la zampa anteriore destra, mugghiando vigorosamente, con la lingua penzoloni; poi si avvicinò con circospezione alla prescelta, la quale, dopo una iniziale noncuranza, decise di cedere, iniziando un’abbondante minzione, a piccoli getti. A quel punto il maschio si avvicinò per annusare il grado dell’estro della capra, con un gesto che gli zoologi definiscono “flehmen”. Il rituale si concluse  secondo tradizione.

Nel frattempo ci fu spiegato che in un branco di caprini, i maschi con le corna lunghe fanno a testate tra di loro (cozzo frontale) per il possesso delle capre adulte, mentre quelli senza corna devono accontentarsi delle caprette, che occupano l’ultimo posto della gerarchia della mandria.

Anche gli arieti fanno a cornate, ma con un cerimoniale ancora più lungo e più violento: prima di ogni attacco, i due contendenti prendono una breve rincorsa  e sbuffano minacciosamente, mentre gli altri maschi stanno a guardare, senza intervenire; solo quando uno dei due  avversari si mostra sconfitto e rinuncia alla lotta, un altro maschio può sfidare il vincitore. Col calar del sole, però, tutti a dormire: lasciarono il garazzu o mandrizzu (6) per ricoverarsi sotto la ‘nteja, la tettoia coperta di marrama (strame) e monacala (7).

Mentre noi ci allontanavamo dalla mandria, passando vicino alla fossa della curtagghia della stalla delle vacche, il giovane capraio intonò  “a canzuna du pecuraru”, in dialetto catanzarese :

 

“U pecuraru sta sei iorna fora,

u sabatu baruna s’inda vena,

u sabatu si chiama allegra cora

pè cu ava bedda la mugghiera.

       

 

        Pecurareddu cchi mangia ricotta

        va alla chiesa e non s‘nginacchia,

        non si caccia lu cirillinu,

        pecurareddu malandrinu.

 

U pecuraru quando s’inda vena

mancu a lu lettu soi si sa curcara

e quandu accarizza a mugghiera

ci para ch’è a pecura lattara.”.

 

Un mese più tardi, un anziano massaro a riposo (8) e una giovane antropologa si offrirono di accompagnarmi in un’azienda agro-pastorale della pianura tra Catanzaro e Botricello, dove potemmo osservare non solo la mandria delle pecore, ma anche una stalla di vacche, una murrina di porci e vari attrezzi agricoli.

Il fattore dell’azienda si propose come una sorta di magister memoriae e, senza indugio, iniziò a declamare una speciale filastrocca, che metteva in relazione  le pratiche agrarie con i riti religiosi più antichi, di cui ovviamente mi affrettai a prendere nota sul mio taccuino.

A Sant’Andrìa  u bonu massaru siminatu avìa.  A Santu Martinu ogni vutta è vinu”.

La curiosità mi spinse a trascrivere tutta la cantilena, rinviando a tempi più favorevoli la valutazione dei suoi caratteri culturali.

A Santu Nicola / ogni mandra fa a prova / e ad ogni gaddinaru ce su’ l’ ova”, disse di dicembre, aggiungendo poi le varianti: – “A la Mmeculata/ l’agghianna è carricata. Si vena Natala  e nu fili/ vena Pasqua e sospiri”. Quindi proseguì:

“Ppe tutta a Bifanìa/ minta u ranu ‘ntra spurìa”.

“Quando arriva a Candilora/ chianta pipi e pumadora”

“Ppe l’Annunziata (25/3)/ a spica è nata e a vigna è arrussata”.

“A maju nun attaccara sumèra / e a Pasqua nun pigghiara mugghiera”

“ Acqua sant’Antonina / ogghiu, pana e vinu ruvina”

“U jornu ‘e Santu Vitu /lassa i voi e pigghia u pudditru”

“A Sant’Anna/ i ficu ccu a zanna”

“ A Santu Lorenzu / a nucia spacca a mmenzu”

“ Ppe ‘a Santa Crucia/ pana e nucia”

A San Franciscu / nescia u cavudu e trasa u friscu”

La massima conclusiva si rivelò una vera perla di saggezza:

“Ovu ‘e na ura, pana ‘e nu jornu, ogghiu ‘e  n’annu, vinu ‘e cent’anni e…fimmini quantu poi!”

– “Sus cum  Minerva  certamen suscepit”, sbottò la giovane studiosa, palesemente  infastidita dalla inconsapevole misoginia del fattore, ma sicura di non essere capita, col suo  oscuro latino.

Da oltre un mese la mandria delle pecore  era  tornata dai pascoli verdeggianti della zona umida, semi-pantanosa, ma non più malarica delle “Lacune”, per una sorta di transumanza breve; col sistema delle staccionate mobili (cannizzi) erano stati mandriati (9) i terreni destinati allo stazzo  autunno-vernino per gli agnelli, che saranno guidati al pascolo da un castrato carbellisa dal vello nero, gia pronto, perché prumintìu (10).

La castrazione rende l’animale più mansueto e più robusto, per la crescita delle ossa lunghe e l’aumento della massa muscolare.

– “ I maiali per la provvista , sia maschi che femmine, vanno sempre  castrati, se no soppressate e capicolli si guastano. Allo stazzo vanno anche le pecore appena figliate, ma non le strippe e le posterare, che si fanno pascolare assieme ai montoni ‘ntaveddati, cioè col grembiule o una tavoletta sottopancia, per evitare inopportune gravidanze alle pecore”,  ci fu precisato.

Davanti al capannone degli attrezzi erano bene allineati una falciatrice, una mietitrice-legatrice, una forgia a mantice e 4  aratri, tutti a trazione animale: un monovomere per lo scasso profondo, un bivomere , un voltorecchio e un vecchio aratro di legno.

Condividevano la lunga mangiatoia della stalletta un vecchio asino scontricatu come quello dell’abate Conia (11), un cavallo e un mulo; alle pareti erano appesi 2 paia di fergi, 3 pastoie , 2 basti, una sella, i finimenti per l’attacco del cavallo al carrozzino, mentre in un angolo era sistemato un cassettone contenente tenaglie, pinze, coltelli da corno, sgorbie, chiodi e ferri da cavallo e da mulo, pianelle o ferri da buoi, la vrogna del porcaro, il corno del bovaro, un paio di martelli, bulloni, rondelle e robe varie.

“La ferratura la fa il maniscalco, che viene qua a giornata. Le pianelle dei buoi sono lamine sottili con 7 stampe. Per gli equini la ferratura è sempre necessaria e consta di 4 fasi: pulizia e asportazione del ferro, pareggio dello zoccolo (con le tenaglie, il coltellaccio, la raspa e la sgorbia d’incastro), presentazione del ferro caldo e infissione dei chiodi di stampa, con ripiegatura sul dorso dell’unghia col martello. Prima di mettere il ferro, bisogna fare sempre la pulizia dello spazio interdigitale con la creolina. Qualche volta è necessario rammollire l’unghia avvolgendola per un paio d’ore in un cataplasma di farina di lino”, c’informò il fattore..

L’antropolga  commentò, sottovoce: ”I Romani chiamavano solea ferrea il sandalo dei buoi, ma lo mettevano solo quando gli animali camminavano sul selciato, per limitare il consumo dell’unghia”.

Su un’altra scheda avevo abbozzato quattro appunti sul majisa (maggese), noto sin dal tempo dei Greci e dei Romani, come pratica colturale per ripristinare la fertilità del terreno, ubere glebae.

Consta normalmente di 3 arature del  terreno margiu (non dissodato) con una coppia di buoi aggiogati al juvu (giogo doppio di garrese) tramite la pajura (soggolo di cuoio): con le corde paricchiare l’aratore guida gli animali lungo la versura e di tanto in tanto li sollecita col pungolo. L’aratura profonda estiva è detta rottura ed è effettuata col monovomere, segue la dubratura col polivomere e poi la ‘nterzatura superficiale o ripassu e l’erpicatura.

La pratica si ripete pressoché invariata dal tempo di Columella ( De  re  rustica), di Catone (De agri cultura), di Virgilio (Bucoliche e Georgiche), di Varrone (De re rustica) e addirittura di Omero, il quale, al verso 751 dell’Iliade, scriveva: – “ maggese..tre volte dal vomere la piaga avea sentito” e successivamente confermava nell’Odissea (v.163-4):

E nel maggese, che il pesante aratro/ tre volte aperto avea”.

Il maggese era praticato già dai coltivatori assiro-babilonesi della “Mezzaluna fertile”, con la rotazione biennale: nel medioevo poi fu introdotta la rotazione triennale o dei 3 campi, sui quali la stessa coltura ( grano, leguminose e riposo a maggese) si ripeteva ogni 3 anni.

– “Appena possibile, dopo le piogge autunnali,si procederà alla semina del grano duro Cappelli e di quello tenero Russìa, dell’orzo e dell’avena; fave, favette e  ceci, si semineranno più tardi, per essere raccolti a mano a giugno/luglio, sistemati a cavagghiuni (mucchio), prima d’essere ‘ncarrati alla piséra, per la battitura col forcone o col cavallo da pisa (12), e la vagliatura a ventilazione”, precisò fattore.

Per poter assistere alla trebbiatura del grano, degli ospri e delle leguminose, prenotammo un’altra visita per il mese di luglio; quindi ci avviammo ai pagliai della mandria, avendo già appreso la differenza tra pagghiaru e pagghialora (fienile).

 

Su un’altra scheda avevo appuntato:  “Dinamica degli insediamenti umani in Calabria, di Lucio Gambi  e L’insediamento nella regione della Serra, di Osvaldo Balducci “.

Questi autori, fanno una netta distinzione  fra le capanne degli agricoltori permanentemente abitate (pagliaru), quelle temporaneamente abitate e le capanne come appendice della casa rurale, per cui nel complesso pastorale vengono catalogati 4 tipi: la parata  (dove dorme il pastore), la pagliara o caccamu  (dove si fa il formaggio), la zimba dei maiali e il gallinaru o ammesunaturu (13).

 La forma del pagliaio può essere conica o piramidale e la pianta quadrata o circolare.

Quello visitato da noi  era un ambiente unico,  a pianta circolare  e a forma conica, con un diametro di base di 6 metri, pari all’altezza. Dalla base, per circa un metro e mezzo, si alzava un muro a secco (scerarmacu), nel quale era incastrata una raggiera di pali, convergenti a punta di cono nel culmine della capanna (cocula), dove poggiavano su una grossa pertica biforcuta, fissata al centro della struttura. L’armatura della copertura era completata da una serie di listelli (14), sui quali erano stati sistemati fascetti di monacala o di altra erba palustre (15). La porta girevole era fatta di cannizole su telaio d’erga..

Altre volte i pagliai hanno solo il cono di copertura in vegetali, mentre la parte bassa, fino a oltre 1 metro, è di creta ,con all’interno un’ossatura di polloni di vruddu ‘nchiettati. All’interno c’è una fornace di creta e sono bene in vista una serie di ganci di legno che servono per appendere le provviste, per affumicare le juncate e per far seccare i quagghi. L’area dell’uscio (vadu) della capanna visitata era caratterizzata da un piano di calpestio di pietre piatte e mattoni; all’esterno, un carrolu (16) contornante il pagliaio drenava le acque piovane, anche perché lo strame era incassato nel terreno, per evitare infiltrazioni di acqua e l’accesso  ai topi e ai rettili.

Un’altra capanna presentava la base rettangolare, con il tetto a 2 falde, coperte dagli stessi vegetali, solo che i muri erano di fango: l’interno era rinfazzato con intonaco di creta e calce.

Seminascoste dal pagliericcio di vucchji di mais s’intravedevano una sonagliera, alcune jannacche (fettucce colorate) e una maschera di legno, che rimandavano al rito arcaico e lascivo della “Farchinoria” della notte dell’Epifania (17), fortemente censurato dalla morale comune e fatto oggetto di aperte ironie sulle inconfessabili pulsioni dei pastori.

“Truces in alta valle mugiunt tauri”, mormorò allusivamente la nostra giovane studiosa, seguendo i suoi pensieri in libertà.

Il nostro testimone ci spiegò che nelle zone vallive e collinari la capanna era prevalentemente conica, in legno e vegetali (18), mentre in montagna la forma era quella di un monolocale con tetto a 2 spioventi, interamente di legno e con all’interno una sorta di soppalco, con  la stessa funzione del canniccio del pagliaio di pianura.

Passando dal frantoio, notammo le raccoglitrici che portavano sul cercine sacchi di juta colmi  di olive, che conferivano al caporale nell’olivaru: venivano misurate alla colma nella menzalora, prima di essere sversate nei graticci di legno (spaselle) e annotate su un brogliaccio col sistema arabo degli ottavi (19). Intanto tutti si erano approvvigionati delle drupe verdi da fare schiacciate o all’acquata, nell’intesa che dopo l’invaiatura avrebbero raccolto quelle nere da fare alla monacale o infornate. Facemmo in tempo a osservare che il fuoco della caldaia era alimentato dalla sansa e che i trappitari preparavano alla fornace le frese di pane, che poi condivano con abbondante olio verde., raccolto col coppu (20).

La pila era di 3 tomoli e le molazze erano  azionate dal cavallo e qualche volta dal mulo: la pasta veniva raccolta nelle coffe  (fiscoli di stramba) e messa sotto la pressa a vite (sul modello del torcular romano), azionata a mano, con una leva metallica. L’acqua di vegetazione era sifonata al quatriculu, mentre la sansa del nozzularu finiva all’industria di Catanzaro Marina, dopo la rimacinatura  con acque di vegetazione.

Lo stagnino, intanto, aveva già messo a posto i rugagni, cioè le diverse botti, i coppi e lo staru (21).

Prima di salutare i nostri ospiti, facemmo in tempo a vedere che due operai stavano paleggiando il rame col grano, per evitare che la simenta venisse compromessa dai parassiti crittogamici.

“Ci vediamo fra 6 mesi, amici, perché: sìmina quandu voi, c’ ‘a giugnu meti”, concluse il fattore, porgendoci  la mano per il saluto finale.

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 Tornammo tutti a fine giugno, giusto in tempo per osservare i carri tirati dai buoi portare le gregne di grano all’aia: la mietitura era stata effettuata solo parzialmente con la mietitrice-legatrice a trazione animale, poiché nelle aree più impervie erano stati impiegati i mietitori col falcetto e i cannelli alle dita. La mietitrice era trainata da  due coppie di buoi a ricambio: mieteva 4-5  ettari di grano al giorno, pari al lavoro di una squadra di 8 mietitori e di 5 donne accovonatrici, che cioè

raccoglievano le gregne prima a munzeddu, a rota e con le spighe in alto e poi a meta; due mete formavano una carrata e 4 carrate formavano una grossa timogna  sull’aia. Molto più piccole, però, erano le timogne dei vrazzali (braccianti), i quali, in barba alle recenti leggi sulla mezzadria, continuavano a pagare il setto d’aia, la guardianìa e la terragera, al netto delle spese di trebbiatura. Era obbligo del terragerista anche quello di collaborare alla trebbiatura, porgendo le gregne al civaturu e allontanando la fusca (pula) con lo strascinu tirato dai buoi del padrone, per avere diritto alla metà della paglia.

La trebbiatura conservava i caratteri della festa collettiva: si mangiava tutti sull’aia, nella grossa limba di terracotta, utilizzando la punta del coltello come forchetta, si beveva qualche bicchiere di vino e si gustavano i primi fichi fiore; quelli del comitato della festa padronale si premuravano di raccogliere le donazioni di grano, per ripianare i costi dei festeggiamenti e della fiera.

 

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Una donna giovane e robusta continuava a fare la spola tra l’aia e la fontanella della sorgente, portando sul cercine un barile d’acqua fresca e in mano la brocca del  padrone.

La nostra visita era conclusa.

Ringraziammo i nostri testimoni per la loro disponibilità e ci avviammo verso casa.

Prima di partire, però, la giovane antropologa volle farci sapere di essere una discepola di Ruth Benedict, l’etnografa edificante che aveva esplorato modelli di cultura e di vita di popoli remoti  e sconosciuti. (22).

“Noi siamo stati Là, nelle campagne calabresi, come mediatori transculturali ”, esordì,“ed abbiamo  percepito la dicotomia tra il nostro mondo civilizzato e quello folklorico, dei pastori e dei contadini. Abbiamo assistito a una tradizione vivente. Ma, dal momento che la società letterata finisce sempre col codificare le tradizioni in forma scritta, i nostri resoconti tradiranno inevitabilmente la presenza del Là in un testo del Qui”, come dicono gli esperti. Ci stiamo arrogando il diritto e l’onere di rendere in frasi l’identità e la vitalità dei nostri informatori, la loro realtà, sostanzialmente a noi estranea . E’ un processo di mistificazione di una cultura altra! ”, concluse con una certa solennità.

Inaspettatamente, però,  il massaro la incalzò, con l’ orgogliosa bonomia del senso comune :

– “Da Là, come dici tu, veniamo anche noi! Il loro non è il mondo dei selvaggi o dei primitivi:  siamo noi! Non so spiegarlo bene, ma ti faccio ascoltare un pezzo della “storia” del brigante Pietro Bianco, che ti farà capire più di mille discorsi:

 

“Lu caporale dice: Pietru Bianchi

le piecure l’ha chiuse allu mungàru

le piecure de Vigna allu schiamazzu

le mise tutte quante a nu pastizzu.

E li forise ricoza a nu mazzu

e nde ficie nu saccu a salivazzu…

Patrune, si tu vue, ch’accussì sia,

io mi nde vaiu alla casa mia”.(23)

 

– “Sono le nostre radici”, azzardai, incontrando l’indifferenza della giovane studiosa e l’approvazione del massaro

 

Note

(1) L’idioma è parte integrante del messaggio del testimone e la sua conoscenza è necessaria ai fini dell’inchiesta e dell’interpretazione della cultura materiale e orale

(2) Testo da me così “rieditato”. Una mitta equivale a 415 mq; una litra misura 3,5 litri, una cafissa 17,19 litri, un barile  12 cannate di 1 litro circa, una sarma 107,15 litri, una botte 443,57 litri.  (3) Nello zampaturu si pigiava l’uva con i piedi, zampatiannu, mentre nel fundeddu colava il mosto.

Orlando Sculli (“I palmenti di Ferruzzano”) e  Saveria Sesto (“Calabria”  139/2003) chiamano buttiscu lo zampaturu   e pinaci la seconda vasca

(4) Sorta di giacca ricavata col vello della pecora conciato. I calandreddi ai piedi e il cervuna in testa  erano in disuso pressoché ovunque.  Periodicamente il pellàro passava dalle mandrie per ritirare le pelli da portare alle concerie; il lanàro comprava la lana al momento della carusa (tosa), la faceva lavare e cardare  (con gli scardassi e il cardo fino) a Sersale o a Carlopoli e poi la rivendeva sotto forma di filato. Le fiscelle sono di virghelle (vimini o verbena); la ricotta viene trasportata dentro le lunghe foglie del porro.

(5) Il bardotto è un incrocio dell’asina col cavallo, mentre il mulo è figlio di un asino e di una cavalla.

(6) la parte scoperta dell’ovile o ricettu. In alcuni luoghi è detto curtina, che  solitamente è riferito allo steccato estivo dei bovini. Garazzu o scarazzu  è lo steccato all’agghiaccio, ma anche il setto di carbonaia. Lo stajile è il luogo dov’è seduto il pastore per mungere.

(7) juncus effusus, ampelodesmo

(8)  “Massaro è chi ha una masseria, un campo seminato”, scriveva V.Padula in “Persone in Calabria”. Nel Catanzarese massaro era anche il capo bovaro, addetto alla mungitura delle vacche e alla guida dei buoi al carro e all’aratro. I nomi dei buoi erano tratti dall’epica cavalleresca e i più ricorrenti erano Ruzzeri e Xjuramanta.

(9) Stabbiatura. Nell’Inghilterra medievale vigeva la consuetudine del diritto del faldagium: nel recinto o falda dovevano stazionare durante la notte tutte le greggi che di giorno pascolavano nel bosco del feudatario

(10) il tardivo o cordasco  era detto postareddu o di Pasqua, mentre i primaticci erano detti natalini.

(11) I cotrichi o guidaleschi erano le piaghe da basto e da serretta. Scriveva Giovanni Conia da Galatro: “Nu ciucciu de cent’anni,/ e sfilettatu e stortu, / ed orbu e menzu mortu, / mi fu datu, / Jivi pemmu cavarcu, / di primma si arrassau, / appressu si ncrinau;/ paria ca  figghia”. Famigerati erano i bagni a mare delle pecore, per liberarle dai  parassiti, specialmente rogna, pedaina e zecche: gli animali si facevano meriggiare sull’arenile,possibilmente alla foce del fiume, suscitando il disappunto dei bagnanti sistemati nelle logge di juta e di canne.

(12) Nelle grosse aziende del latifondo si utilizzavano 3 buoi da pisa (trebbia), aggiogati con la trizza, in modo da stare  accosciati. Il giogo doppio di garrese o di collo, presentava al centro un anello metallico per l’attacco del timone dell’aratro, del carro o della falciatrice.  Ospri erano dette le graminacee diverse dal grano, cioè orzo, avena, grano saraceno, jermana, ma non il riso, che in Calabria veniva coltivato nelle brevi pianure che fiancheggiano le fiumare.

(13) Gallinaro è il ricovero dei polli di razza calabrese (incrocio della siciliana con l’americana Buttercup), padovana, livornese bianca, Rhode Island, Plymouth Rock; l’ammesunaturu è più propriamente riferito ai tacchini ( fulva beneventana e bronzata d’America).

(14) virgulti di castagno in collina e salice in pianura

(15) come carex acula, scirpus lacustris: a volte si utilizzavano fasci di ericacee come il mirtillo

(16) fossatello, scolina o gambitta

(17) Cfr. Marcello Barberio, Calabria Letteraria 1999, n°7-8-9, pag. 10

(18)  monacala e vuda, come quella per impagliare le sedie, o anche di strame o marrama di cicerbita e biodo

(19) un tomolo (dall’arabo tumn) corrisponde a 8/8, una menzalora a 4/8, un quarto di tomolo a 2/8, un mundeddu (dall’arabo mudd) a 1/16 e uno stuppeddu a 1/32. Una tomolata di terra è detta anche ruva.

(20) e con lo scupulicchiu: non era in uso il separatore meccanico, per cui il mosto oleoso veniva raccolto nelle celle di muratura, dove affiorava l’olio e  decantavano le morchie, che poi venivano utilizzate per la fabbricazione del sapone o come lubrificante delle ruote dei carri e delle macchine agricole.

(21) contenitore metallico di 10,5 litri, pari a 10 kg circa

(22)  Riti di passaggio degli Zuni, canti dai Kwakiutl, regole di residenza dei Dobu

(23) Apparsa sul “Giornale  Napoletano della Domenica”, Na,  9 agosto 1882; ripresa da A.Piromalli e D. Scarfoglio,in “Terre e briganti”.

 

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