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DIONISIO A URIA

OCRICULUM, THURIO…

di Marcello Barberio

Nella Media Età del Bronzo si verificò nell’Italia Meridionale un fenomeno di assestamento dei vari gruppi etnici, cui fece seguito la cosiddetta colonizzazione leggendaria pre-greca, seguita in età protostorica dalla colonizzazione minoica. La varietà del rito di seppellimento e l’abbondanza di suppellettili di fattura orientale dimostrano la sovrapposizione di diverse civiltà lungo la via istmica del Golfo di Squillace, prima degli albori del I millennio a.C., per cui alcune ipotesi storico-filologiche –  come quelle della fuga dei Cretesi nella Japigia e della fondazione di Uria nella parte mediana del Golfo di Squillace  –  si caricano di valenze suggestive ed escono dalla dimensione mitica, per acquistare i caratteri del fatto storico.

Nel 1939 il glottologo calabrese Giovanni Alessio (“Saggio di toponomastica calabrese”, pag.98) sosteneva che Crichi aveva derivato il nome dalla città bruzia di Ocriculum, ricordata da  Ecateo di Mileto nelle “Periegesis” e da Tito Livio (Historiae, XXX, 19, 10): “…qui in Bruttiis erat, Consenthia, Aufugum, Bergae, Baesidiae, Ocriculum, Lympheum,Argentanum,…multique alii ignobiles populi senescere Punicum bellum cernentes defecere”  (1)

L’annalista Luigi Grimaldi (2), trattando dei “venerabili ruderi di città” della Magna Grecia, così s’interrogava: “ Ove son desse? Sparite! […] nelle vicinanze dell’Alli, del Simeri e dell’Uria i ruderi sono sì interessanti da far supporre l’esistenza di una grande città tra Skilletion e Kroton, più antica della stessa Sybari. Dopo che l’Arditi (Descrizione di un antico vaso dell’antica Italia, V.II. pag.412) ebbe pubblicata una moneta (con altre undici) con la leggenda OPPA […] Cramer (L.VI, c. 170) pose una città di tal nome nell’antica Italia.(3) OPPA credesi identica voce di Uria, Hyria, Ooria. […] Erodoto chiama Hyria la Uria Otrantina, […], ma non esclude l’esistenza di un’altra Uria nel seno Scilletico”.

“Mazochio, in Collectan, parla dell’antica Oria, chiamata da Strabone “Curia” e da Erodoto “Yria…In alcune monete antiche scritte colla vocale U e in altre al greco Yria, con fenicio modo Vria e con latino Ouria”, annotava nel 1805 Orazio Lupis, in “La Magna Grecia”, al quale  così faceva eco l’archeologo Giuseppe Castaldi: “A me sembra che nel nostro territorio vi siano state tre città con lo stesso nome di Uria, una nella Magna Grecia, l’altra nella Capitanata e la terza ne’ Salentini”.

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                                    Moneta di Hyria (Uria)

 

L’inadeguatezza della ricerca archeologica e della tutela dei beni culturali non hanno favorito la ricognizione di tanti centri arcaici delle fonti letterarie, di cui a volte affiorano occasionalmente le necropoli, le cinte fortificate, le monete, la ceramica.

Nel 2006, su questa rivista (5) ho ripreso la controversia sulle monete con la scritta OPPA e OPPA LOKRON, custodite nei musei di Napoli, Berlino, Oria di Brindisi, Bari, Catanzaro, Locri e Reggio, convenendo sul fatto che, al tempo della prima colonizzazione leggendaria greca, la fascia jonica costiera pugliese, lucana e calabra fosse fortemente interessata dalla frequentazione antropica, essendo il toponimo di Hyria-Orra-Ouria-Uria assai ricorrente nell’area mediterranea: un Horreum era in Illiria e due distinte Hyria sorgevano in Etolia e in Beozia.

La fondazione delle nostre Uria calabro-messapiche risalgono a prima dell’anno 1000 a C., anche se l’evoluzione da’ “abitato di capanne sparse a  kome, a  polis e a oppidus iniziò non prima dell’VIII secolo a.C.

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                                 Moneta di OPPA (Uria)

 

La moneta oritana (del Centro Documentazione Messapica di Oria di Brindisi) del periodo romano presenta sul D la testa di Ercole col copricapo leonino e sul R il fulmine di Zeus con la scritta OPPA e in basso TOR. Negli scavi archeologici e nei ritrovamenti occasionali sono state rinvenute diverse tipologie di monete, con una straordinaria ricchezza e varietà di contenuti iconografici, come la testa di Pallade con una galea crestata e sul R un grappolo con l’epigrafe OPPA LOKRON (dall’Ignarra e dal Magnam attribuita a Lockroi  Epizephyri, dal Millingen a Locri Opunzia e da altri a Nola della Campania), la testa di un guerriero epirotico e la sola scritta OPPA, Eros alato o che suona la cithara sul D e una colomba sul R con la scritta OPPA.

Le monete di OPPA, ricordate nel Medagliere di Berlino del 1846 da T. Mommesen, sono state esaminate da Julius Friedlander, da H. Nissen  e da R.Guarducci (“Le monete dell’Italia antica”).

Solo uno studio specialistico comparato potrà assegnare gli “Orraensium nummi” alle diverse Uria dei Messapi, della Campania, di Locri Epizefiri e di Sellia Marina, dove sono stati rinvenuti importantissimi reperti archeologici, come materiale coroplastico votivo, armille dell’età del Bronzo Finale, ornamenti vari, terrecotte figurate a matrice, figure di divinità maschile recumbente (Dioniso), figure femminili in trono o danzanti, arule, statuette fittili di Kore, statuine-icone di culti femminili sul tipo di Afrodite che stringe un simbolo nuziale, specchi di bronzo con manici figurati, ossa di maialini combusti nei botroi (pozzi sacri) e le famose pinakes del culto di Demetra e Persefone. Al XVI Convegno di studi sulla Magna Grecia di Taranto, nel 1976, D. Musti ha dimostrato come la colonizzazione di Locri Epizephyri sia avvenuta ad opera sia dei Locresi Opunzi che degli Ozoli: per Aristotele e Polibio, ma non per Timeo, i fondatori erano schiavi fuggiaschi uniti a 100 donne dell’aristocrazia greca. Si spiegherebbe così la natura matriarcale e oligarchica della società locrese, ma anche il fenomeno della prostituzione sacra e della ierodulìa (servizio sacro nel tempio della dea) da parte delle fanciulle della nobiltà locale, in espiazione del delitto di Aiace Oileo, che aveva stuprato Cassandra nel tempio di Athena, a Troia.

La singolare pratica religiosa  –  seppur non contemplata nella legislazione del locrese Zaleuco  –   affondava le radici nel culto mesopotamico della dea Isthar e consisteva nell’unione sessuale del fedele con la sacerdotessa di Afrodite-Urania (nata dal mare fecondato dal seme del padre Uranio), preceduto dall’offerta purificatrice di trittoiai(6) e di cani, oltre che da un banchetto sacrale.

“Giunti nel tempio, contemplammo la statua di Cipride,

mirando con che fine arte è scolpita in oro.

La dedicò Poliarchide, poiche ebbe grandi ricchezze

accumulate con la grazia del suo corpo”,

è scritto in un frammento di epigramma di Nosside dedicato ad un’etera.

 

Della stessa poetessa è l’altro epigramma:

 

“Nulla è più dolce dell’amore,

ogni altro diletto viene dopo di lui;

la mia bocca rifiuta anche il miele.

Lo dice Nosside: e chi da Cipride non fu baciato,

ignora quali rose siano i fiori di lei”.

 

Cipride era un appellativo di Afrodite, il cui culto era praticato particolarmente a Cipro, ma anche nel tempio di Erice (in Sicilia), a Micene e tra gli Ittiti, il cui pantheon mitologico comprendeva Kumarbi (Crono), che con un morso aveva staccato i genitali al dio del cielo  Anu (Urano), per poi sputarli sul monte Kansura, generando la dea dell’amore.

Vittoria Minniti, in “Archeologia: la prostituzione sacra” ricorda che nelle “Historiae” di Erodoto è scritto che presso la tomba di Aliatte, padre di Creso, era praticata la prostituzione, che in Lidia era consueta per le nubende che dovevano costituirsi la dote matrimoniale.

Uria di Sellia Marina – situata lungo la diramazione della via Popilia, che da Vibona portava a Scolacium, a Crotone e a Metaponto  –   era il nucleo principale e più antico della città magnogreca di Trischene, fondata da profughi troiani, dopo la distruzione della loro città. (7) A detta di Vellejo Patercolo (Lib.I, 15) “[…] post Scylacium […] Castrum Minarvae colonia deducta est”, nel 133. Castel Minerva ricordato da Dionigi D’Alicarnasso (I, 51,3), da Virgilio (En. III, vv.523-536), dal “Chronicon Northmannicum A.D. 1041-1085” e dalla Tabula Peutingeriana, come primo approdo di Enea nell’antica Italia, non corrisponde alla città di Castro del Salento, bensì all’Athenapolis delle cronache medievali, di cui ancora nel 1879 resistevano sulle colline de La Petrizia “quattro torri d’antico laterizio”.(8) Durante gli scavi di località Giglio di Sellia Marina, nell’estate del 2006, archeologi della Sovrintendenza della Calabria hanno rinvenuto alcune monete di bronzo del III secolo a.C., con l’effige di Zeus laureato sul D e dell’aquila nel R.  “Ci troviamo di fronte ai resti dell’antica Trischene”, concludeva la direttrice degli scavi, dott.ssa G.M.Aisa.

Le monete di OPPA rinviano inequivocabilmente alla mitologia e ai rituali di salvazione (soterìa) e di liberazione dell’Antico Oriente e della Grecia antica e particolarmente alle feste delle divinità terrestri itineranti e di Dionisio, durante le quali le menadi indossavano pelli d’animali (come il copricapo leonino di Eracle della moneta oritana), masticavano foglie d’edera per entrare nello stato di furore e si abbandonavano a danze, grida rituali e giochi amorosi, agitando il tirso, un bastone avvolto di pampini e sormontato da un pomo di pino resinoso, acceso e resistente al vento.

Nella mitologia classica, erano accompagnate da satiri dalle zampe di caprone (Ximaros)(9), da sileni priapei e da ninfe, cioè dalle potenze vitali della natura: i demoni dei boschi e dei monti, delle fonti, delle sorgenti e dei fiumi. Così negli schiamazzi notturni delle Nittelie, come nelle Antesterie di febbraio (quando si aprivano le botti e si beveva il vino novello) e nelle Oscoforie, quando si ringraziava il dio per la buona vendemmia e il raccolto delle olive.

Le feste religiose prevedevano gare sportive, concorsi di bellezza, canti, danze sacre (pirrica), musica e lampadedromia, cioè una corsa con le fiaccole accese e una veglia sacra: così per i giochi olimpici in onore di Zeus, per quelli Pitici di Apollo e per le Panatee di Athena; nella Magna Grecia l’ostentazione della ricchezza e della raffinatezza oscurava finanche le feste della madrepatria.

A Sibari, infatti, sfilavano 5000 cavalieri timuchi ricoperti da tuniche tempestate di gemme.

Da Erodoto, Licofrone e Alceo apprendiamo che alle feste Panegiri del thesauros dorico esastilo di Hera Lacinia accorrevano i popoli del Mediterraneo, richiamati dalla fiera e dai dipinti di Zeusi di Eraclea: le donne rivaleggiavano in bellezza in occasione dei Kallisteia e dei Kalligeneia, salmodiando canti, accompagnati da musiche leggiadre.

 

“Hera, dea veneranda,

che dal profumato Lacinio ami spesso

dal cielo rivolgere uno sguardo,

prendi la veste di lino che ti hanno tessuto

l’illustre Teofili di Cloca,

e Nosside, la figlia”

 

Dalla testimonianza di Tito Livio (Historiae, XXIV,1) apprendiamo che il tempio delle dea aveva le tegole di marmo e una colonna d’oro massiccio, mentre il temene  era più importante della polis di Crotone, dal momento che i numerosi armenti potevano pascolare liberamente per i prati ubertosi, senza pastore e senza il timore delle belve. Analoga situazione è descritta nelle due tavole bronzee di Heraclea, oltre che nelle tabelle testamentarie di Kaulon e Terina e nelle tavole di bronzo del santuario di Zeus di Locri. Un’altra tabella bronzea, ritrovata ad Olimpia, contiene il trattato tra i Sibariti e i Serdaioi della Magna Grecia, le cui monete  rinvenute in Calabria rappresentano Dioniso col tralcio della vite, simile a quello dei pinakes. (10)

Dall’Epistula ad Tauranus ricaviamo che nelle poleis dell’attuale Calabria si celebravano i baccanali, mentre le laminette auree di Hypponion , di Thurio e di Petelia testimoniano la grande diffusione nel mondo popolare italiota dei culti orfici, nati attorno alla leggenda di Dioniso-Zagreo e ai riti bacchici provenienti dalla Tracia: le formule funebri delle lamine, sotto forma di consigli ai morti, erano  destinate agli iniziati, i quali dovevano declamarle alla divinità ctonia nella katabasis, cioè nella discesa nell’Hades, dove l’anima si purificava lungo i boschi di Persefone e il Tartaro.

 

“Vengo pura dai puri, o regina ctonia,

Eucle ed Eubello e voi dei e demoni quanti altri siete.

E infatti mi vanto d’essere stirpe felice di voi,

dopo aver pagato il fio di azioni non giuste,

sia che mi domò la Moira, sia il bagliore dei fulmini.

Ma ora vengo supplice a Persefone,

perché benevola mi mandi alla sede dei puri”

 

Sulla lamina di Petelia del Museo Britannico è inciso:

“E tu troverai a sinistra della casa di Ade una fonte e ritto nei pressi un cipresso bianco; a questa fonte tu non ti accosterai; un’altra ne troverai scorrente dal lago Mnemosine, vigilata da guardiani. DiraiIo sono figlio di Gea e di Uranio stellato, celebre è la mia stirpe e ciò voi sapete. La sete mi arde e mi consuma; datemi subito della fresca acqua scorrente dal lago Mnemosine” Ed essi ti lasceranno bere alla fonte divina e tu in seguito seguirai con gli altri eroi”.

Su una delle 5 lamine di Thurio è scritto:

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         Tavoletta bronzea di Thurio

 

“Ma quando l’anima ha abbandonato la luce del sole bisogna che vada da un  tale, di sagace intelligenza, che osserva bene ogni cosa. Salve! Col sopportare questo patimento, tu hai posto fine alle sofferenze e da uomo sei diventato dio: capretto caduto nel latte. Salve. Salve a te che hai preso la via destra verso i sacri prati e i boschi di Persefone”.

Il “tale di sagace intelligenza” è Ade, giudice degli Inferi, mentre il “capretto caduto nel latte” è l’iniziato, assimilato a Dioniso. Altre divinità ctonie erano “Giunone vedova”, la “maga Angizia” (incantatrice di serpenti, dea osca della guarigione) e Soranus, zoomorfizzato nel lupo o nel caprone del dio Pan, figlio di Ermes e della ninfa Driope o forse di Zeus e della capra Beroe. I Romani lo identificavano col dio della fertilità, Fauno o Luperco, protettore del bestiame ovino e caprino dagli attacchi dei lupi, i cui spiriti venivano associati a forme totemiche delle comunità pastorali italiche. I Lupercali si festeggiavano a Roma il 15 febbraio, mentre nella Magna Grecia persisteva il culto della divinità in forma di caprone (zimmaru in calabrese, da Ximaros, C(h)imarus, Simeron). Nell’iconografia del mito, Pan aveva  il busto da uomo, ma gambe e corna da caprone: era il signore dei campi e delle selve nell’ora meridiana, prediligeva le cime dei monti e il suo urlo era terrorizzante (pan-ico) per tutti, finanche per sé stesso. In una lettera del 495, papa Gelasio condannava la commistione del culto del caprone con le cerimonie religiose cristiane.

Per quanto riguarda l’orfismo, va ricordato che nel Bruzio del VI-V secolo a.C. erano già presenti autori di carmi orfici, a dimostrazione del fatto che il culto non fu introdotto da Pitagora nel 530 a C, anno della fondazione della sua famosa scuola a Crotone.

Riporta Clemente Alessandrino: ”Le donne che celebravano le Tesmoforie evitavano di mangiare i frutti di melagrana, nati dalle gocce di sangue di Dioniso[…] Bisogna rivelare le cose sacre che contengono le ceste mistiche: dolci di sesamo, focacce di molti ombelichi e grani di sale e un serpente, il mistico simbolo di Dioniso Bassareo, pani di fico, tralci di edera, papaveri e i simboli di Ge Temide (Demetra): l’origano, la lucerna, la spada, il pettine femminile (organo femminile).[…] La notte è piena di fuoco. O che sfacciata impudenza!”.

La disciplina orfica si fondava sul presupposto della trasmigrazione dell’anima: con la morte, l’anima dei puri viveva libera dall’obbligo della reincarnazione, s’interrompeva cioè il ciclo di purificazione, iniziato sulla terra con la sofferenza, con una condotta non violenta e con una dieta vegetariana.

Nel 1887 fu rinvenuto a Roma un bassorilievo di marmo del 460 a.C, noto come il Trono Ludovisi, raffigurante Afrodite che nasce dal mare, sorretta da due ancelle e, su un lato, una fanciulla che suona il doppio flauto, seduta su un cuscino. (11)

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 Trono Ludovisi (Roma, Museo delle Terme)

Il Trono di Boston, proveniente dalla stessa area geografica del Bruzio e dal medesimo ambiente artistico, presenta al centro Eros alato che pesa su una bilancia il tempo che Persefone doveva passare negli Inferi con lo sposo Hades e quello sulla Terra con la madre Demetra; a destra nel bassorilievo è Demetra, a sinistra Afrodite con pesci e la melagrana, simboli di fertilità. L’iconografia dei due bassorilievi e i motivi ricorrenti della pittura vascolare della zona dimostrano che le etere non erano  schiave, ma raffinate flautiste, matrone e spose di estrazione  aristocratica.

Nel 1908, in prossimità di un’edicola del Persephoneion di località Mannella di Locri, Paolo Orsi rinvenne migliaia di frammenti di tavolette votive in ceramica, note come pinakes,ora schedati dagli archeologi dell’Università di Torino e custoditi nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio e nell’Antiquarium Locri. Altri korai e statuette fittili di Athena e Afrodite sono stati rinvenuti nel Crotonese e nell’area di Uria-Roccani, accanto a resti di sacrifici animali e a statuine di satiri, di sileni con la coda cavallina e delle Muse graziosamente atteggiate nell’atto di accompagnare i defunti nell’oltre tomba. (12)

Per diversi secoli, accanto ai culti ufficiali diffusi in tutta l’area mediterranea, le nostre Uria ed Ocriculum conobbero anche la diffusione delle cosiddette religioni misteriche, alternative e comunque  prevalenti su quelle controllate dagli apparati statali, con adepti di tutte le classi sociali, compresi gli schiavi , le donne e i giovani.

Dalla Magna Grecia giunsero a Roma nel III secolo a.C, come si ricava dai frammenti della tragedia  “Licurgos” di Nevio e da altri frammenti del teatro di Plauto, innestandosi sui riti esistenti in onore della “triade capitolina”.

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Nel 1975, Luigi Marsico pubblicava una copia del “Senatus Consultum de Bacchanalibus” del 186 a.C., rinvenuto a Tiriolo nel 1640 su una tavola bronzea, ora custodita nel Museo di Vienna.

Tiriolo è situato sulle colline che fanno corona alla fascia costiera della parte mediana del Golfo di Squillace, dove insistono i ruderi di Uria-Trischene e di Ocriculum e dove era assai diffuso il culto in onore di Bacco, i cui riti si celebravano 5 volte al mese (anziché 3 volte all’anno), nel crepito delle nacchere e nel frastuono dei cembali e dei piatti di rame, che coprivano i canti, le danze e le urla degli adepti invasati, impegnati in pratiche sessuali sfrenate e senza ritegno e in sacrifici cruenti. La gioventù campagnola si tingeva il volto di minio o di mosto e si abbandonava a danze  scomposte e licenziose, intonando carmi lieti e scambiandosi salaci motteggi ben più lubrici dei carmina fescennina; i giovani diciassettenni toglievano la toga praetexta dell’età minorile e indossavano la toga virilis.

Ovidio, Pindaro, Plutarco e Cicerone confermano la grande diffusione delle favole sibaritiche (componimenti licenziosi), come pure del canto di Senocrito e di Glauco e della poesia erotica di Stesicoro e di Ibico (annoverato dagli alessandrini fra i 9 poeti eccelsi della lirica greca).

Il contenuto del senatoconsulto contempla tutti gli aspetti del rito regionale da reprimere finanche con la pena capitale: il culto di Bacco, le cariche di baccante, sacerdote, magistrato, ministro, la cassa comune, il giuramento iniziatico. Solo il pretore, assistito da 100 senatori romani, poteva autorizzare eventuali rarissime deroghe. Gli edili curuli avevano l’incarico di scovare i sacerdoti di Bacco, mentre agli edili della plebe era affidato il compito d’impedire la celebrazione dei riti segreti; i triumviri capitales e i quimquemviri dovevano impedire le riunioni notturne, mentre i consoli fissavano il premio a favore dei delatori.

Ai rituali orgiastici si accedeva dopo un periodo di 10 giorni di astinenza e castità, per meglio partecipare, segretamente e di notte, al sacrario dionisiaco (piccole grotte artificiali, pergolati, oikoi), al simposio sacro, alla possessione (rapimento degli dei), all’invasamento, alla lascivia, all’oscenità, ai rapporti etero ed omosessuali, alla violenza che poteva sfociare in vere e proprie uccisioni dei riottosi.

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 “Ex quo in promiscuo sacra sint et permixti viri feminis, et noctis licentia eccesserit, nihil ibi facinoris, nihil flagitii pratermissum”(Livio, Ab Urbe condita)

Grandissima era la partecipazione delle donne e dei giovani, mentre gli schiavi e i liberti di entrambi i sessi potevano essere affiliati alla coniuratio previa autorizzazione del padrone, del cui patrimonio familiare facevano parte.

L’iniziando, dopo le abluzioni rituali, doveva prestare giuramento con la formula del carmen sacrum proposta dal sacerdote, che provvedeva alla fine a consegnare un signum di riconoscimento o una parola d’ordine, che facilitava e rendeva più ordinato il legame solidaristico extracerimoniale, noto come ospitalità bacchica.

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             Dioniso con due menadi e un sileno

 

La larga diffusione dei baccanali tra le plebi urbane e del contado, come pure tra gli schiavi e all’interno delle etnie ostili ai Romani (come i servi-pastori bruzi e lucani) fu vista come un pericolo sociale grave dalle élitès del potere centrale, tanto da decretarne la capillare repressione nei luoghi, anche periferici, dove più ampia era la base di partecipazione: “moltitudinem ingentem, alterum iam prope populum esse”, riferiva Livio. La soterìa, inoltre, era presente in tutte le rivolte degli schiavi contro Roma.

Nonostante la durissima repressione, i riti bacchici non furono mai completamente debellati, anzi ripresero vigore nel periodo imperiale, perché mimetizzati nelle feste Liberalie e nei misteri orfici ed eleusini, che rievocavano rispettivamente i miti di Orfeo negli Inferi per liberare Euridice e di Demetra per la figlia Kore.

Per Diodoro Siculo (I, 22-23) la matrice del ciclo morte-resurrezione di tali culti era da rintracciare nei misteri di Iside e di Osiride degli Egizi, come pure in quelli di Attis e di Cibele “Grande Madre” della Frigia, di Adone e Astarte della Siria.

Il carattere escatologico del culto ne ha consentito di sopravvivere quantomeno nei corredi funerari e nelle epigrafie che doviziosamente vengono alla luce durante gli scavi e le arature profonde del terreno, custode dei “misteri” del dio pagano della fertilità, venerato nelle campagne e nelle selve sotto forma di caprone, la cui figura, nell’alto Medioevo, fu associata a satana, prima d’essere assunta a idolo dai Templari come  Baphomet, con la testa di zimbaru inscritta in un pentagramma invertito.

Per Antonio Piromalli, “l’estrema sopravvivenza dionisiaca mediterranea” è rappresentata dal  carnevale calabrese e meridionale, che però, nel corso dei secoli, ha perso il carattere drammatico-orgiastico originario, mentre i canti si sono trasformati in semplici farse popolari, per l’infiltrazione di elementi colti e religiosi nella tradizione orale, che hanno inquinato l’ideologia pagana della festa e deformato le maschere della Palliata Plautina e Terenziana e della fabula togata o tabernaria. Nonostante i tentativi controriformisti di soppressione della festa, lentamente lo sciocco Titus Maccius si è trasformato in Johala (Jugale nel Cosentino) e il Miles Gloriosus nel “Capitan Bravo”, stereotipo del Giangurgulo della Commedia dell’Arte, con panni sia calabresi che napoletani

 

“Portu lu matrimoniu e ‘ntre due mise

Cicuzzu e Tiresina eru spusati;

cu catarre battenti e cu francise

le nozze eranu state festeggiati.

E dopu n’annu ‘e sta cucchia sanizza

Ne nascette Jugale: oh, chi grannizza!”(13)

 

Un’altra reminiscenza ancestrale dei riti orfici e bacchici è simboleggiata dalla farsa drammatizzata della farchinoria, eredità di un paganesimo primitivo e di mondi rituali magnogreci, nei quali si consumavano innaturali e sfrenati connubi parafiliaci, ricordati da Giovanni De Giacomo, in “Farchinoria- Eros e magia in Calabria”. L’ultima rappresentazione del rito si sarebbe svolta nel 1891, tra le pendici del monte Cocuzzo, la notte dell’Epifania: i pastori, arsi dal desiderio e dai piaceri di Venere, inebriati dal vino abbondante, indirizzarono la loro libidine oltraggiosa sulle giovani pecore infiocchettate di nastri rossi e verdi, prima d’intonare il canto del montone:

 

‘U nescivi ccu ri corni a ra mia capu,

Li corni mi l’ha fatti nu guagghiuni:

Li piecuri ch’aviu mi l’ha fricati,

Li fimmini ppid’illu su nisciuni;

Veniti tutti quanti e vi mustrati,

Veniti tutti quanti, ad una ad una”

 

Seguì il canto lascivo e sboccato della pecora, in uno stile più prossimo all’aischrologhia dell’Alessi di Turi, che non ai canti conviviali dei simposi greci.

L’argomento è stato ripreso negli anni ’40 del secolo scorso da Gavino Ledda, in un romanzo che ha ispirato il film “Padre padrone” dei fratelli Taviani, ed è stato attualizzato dagli antropologi moderni, per dimostrare la persistenza della zooerastìa nel mondo contadino.

Un altro culto ctonio che sopravvive da noi, intrecciato a particolari forme di sincretismo magico-religioso, è quello dei ceravulari o sanpaulari di Simbario, analogo a quello dei serpari di Cocullo degli Abruzzi, dove la statua di san Domenico viene portata in processione cinta di rettili.

I sanpaulari calabresi usano le loro arti magiche (?) a scopo propiziatorio e di scongiuro, ma anche curativo: prima salassano la ferita, poi la lavano con un infuso di camomilla ed erba vavusa o di vipera (acanto?), versano sopra 3 gocce di ammoniaca liquida e recitano la messa di san Paolo , un misto di preghiere e formule magiche, apprese in chiesa la notte di Natale. Sono veri e propri guaritori di campagna, che, oltre all’immunità contro il veleno, propongono ricette e rimedi contro varie malattie, come il mal di denti (che curano con la bava delle lucertole catturate un venerdì di marzo) e la febbre intermittente della malaria, che curano appendendo al collo del malato un cannolo contenente una lucertola a due code.

Il serpente stesso è visto come una divinità ctonia, del mondo sotterraneo e degli antenati, perciò custode  della tomba  e del focolare domestico, capace di scomparire, di scendere agli Inferi e di tornare rigenerato con la muta. Negli Atti degli Apostoli (28:3.6) Luca racconta che san Paolo fu morso a Malta da un serpente, ma ne rimase immune, dando prova del suo dominio sul maligno: da allora – raccontano i ceravulari – il 25 gennaio (giorno della conversione del santo) i serpenti escono dalla tana, ma restano stregati dalla potenza magica della saliva dei settimi figli maschi nati in quel giorno, che sono, appunto, i sanpaulari, novelli eredi di Esculapio e dei sacerdoti-curatori pagani di Angizia, sorella della maga Circe e della Medusa.

              

  Marcello Barberio

           Enea sul Simeri                                       

 

Note

 

(1) Le fonti confermano l’esistenza di un Hetriculum lungo la via Flaminia, nella VI Regione augustea, e di un Ocriculum nel Bruzio. Etimologicamente Ocriculum è il diminutivo di ocris e significa “piccolo monte sassoso”. Nella “Toponomastica Italiana” di Giovan Battista Pellegrino”, Hoepli, pag.62, è annotato: “Ocriculum, città dei Bruzii e degli Umbri (Crecchio e Otricoli), è sicuramente connessa con l’umbro “ukar”, “ocar”, “arx”, “poggio” e ne deriva anche Crichi a nord est di Catanzaro, secondo Alessio, 1939, pag. 98”.  La necropoli (solitamente posta entro la cinta muraria) di Donnomarco di Crichi, scoperta nel 1880 da Giuseppe Foderaro e descritta in un Bollettino di Paletnologia Italiana, dovrebbe essere il cimitero dell’ Ocriculum (una delle 7 città ignobiles, cioè indigene, della Confederazione Bruzia) conquistato da Annibale durante la seconda guerra punica. Altre città del Brutium: Albistria, Blanda, Cerre, Lao, Nucria, Napetia, Tyllesion, Pandosia (capitale prima di Consenthia), Mamerto, Menechine, Clampetia, Terina, Brystaccia, Drys, Sestion, Siberine, Petelia. Alcune divennero “municipium” con la Lex Julia. Rivendicano l’ origine da Ocriculum(forse per semplice assonanza del nome): Acri, Lattarico, Crucoli, Sambiase. Cfr. “Dizionario etimologico italiano” di G. Alessio e C. Battisti. Ocriculum è l’antecedente storico di Crichi, riedificato in un sito diverso, molti secoli più tardi.

(2) Studi archeologici e statistici sulla Calabria Ultra Seconda, in Annali Civili, 1846, Fasc. LXXIX- presso Archivio Storico di Catanzaro

(3) In “Annali” dell’ Archaologisches Institut Deutsches, 1848. Cfr inoltre: a) Das Konigliche Munzcabinet, 1877 a cura di Julius Friedlander , b) Archivio Storico Italiano – nuova serie-  tomo 13°, parte prima, FI, G.P. Vieusseux Editore, 1861.

(4) Uria (oltre ad essere un genere di uccelli marini) era il nome di un profeta biblico (Geremia 26:20-23) e di un capitano ittita di re Davide (oltre che primo marito di Betsabea); in ebraico significa “Jah è luce”, mentre nella Cronica del Galas del XV secolo ha il significato di “adorazione”, in lingua frigia.

(5) Calabria Lettteraria  n° 10-11-12/2006, pag.28 sg: “Scoperta Uria di Trischene?

(6) Il souvetaurilia dei romani: sus, ovis, taurus

(7) Cfr: Marcello Barberio, “Da Ocriculum e Trischene”, Rubbettino, 2004;  nota 5 e Giovanni Canino, Taverna; C.L.

(8) Cfr. “Notizie degli scavi di antichità comunicate alla Reale Accademia dei Lincei”; “Da Reggio a Metaponto” di F. Lupis-Crisafi; “Brutium, anno XLIII, n°4”, art. di Bruno Barillari

(9) Da Ximaros deriva il calabrese zimbaru- zzimmaru (caprone), attraverso il bizantino Simeron, il latino Semirus e il volgare Simari-Simeri, ma anche Symbari (che ha fatto pensare a una colonia di Sibariti errati dopo la distruzione della loro città ad opera dei Crotoniati nel 510 a. C, prima della fondazione di Turi-Copia). Simeri, terra di capre o erede di Sybaris? Sicuramente fu ripopolata dai profughi di Trischene “erranti in coloniette per i monti di rimpetto”, dopo l’ennesimo attacco a Castel Minerva da parte dei Saraceni, nel X secolo. Un monte Simeron è in Palestina e Semeria era la capitale del regno. Nella chiesa bizantina di Calabria e Sicilia, il Venerdì Santo viene intonato sotto la Croce il canto del “Simeron Kremate” o  Mattutino della Passione del Signore. I coristi del teatro greco si vestivano con pelli di zimbaru per assumere l’aspetto animalesco dei satiri del seguito di Dioniso. Il termine “tragedia” deriverebbe da “tragos” (capro), da cui “canto di capri”. Tutto ciò con buona pace di Sonia Serazzi, autrice di “Non c’è niente a Simbari Crichi”, paese calabrese della fantasia e dei luoghi comuni di una volta.

(10)  Margherita Guarducci, “Epigrafia greca”, Vol II, pag 542

(11) Federico Zeri lo ritenne un falso ottocentesco, ma Margherita Guarducci, Pino Cellini e moltissimi altri studiosi ne hanno certificato l’autenticità.

(12) Diversi esemplari sono inventariati nel Muso Archeologico nazionale di Crotone e nel Museo Provinciale di Catanzaro.

(13).Antonio Chiappetta (edizione del 1899, rieditata nel 1946 a cura di Michele De Marco alias Ciardullo). Per il capitano calabrese gradasso, per Coviello e lo studente Pacchesicche cfr: A.G. Bragaglia,”Giangurgulo, ovvero il Calabrese in Commedia”.

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