«

»

IL SISTEMA DEI DONI IN CALABRIA

di Marcello Barberio  

 

Ascoltando una suora dello Zaire raccontare agli alunni di una Scuola Media del Catanzarese la pratica rituale del “Kula” (collane di perle di diverso colore), mi è venuto spontaneo interrogarmi sulla persistenza del sistema dei doni, non già nelle società primitive come quella dei Lele del Kasai congolese, ma nelle nostre comunità locali, scelte dalla religiosa di colore come luogo privilegiato del suo apostolato.

La presenza della monaca africana in Calabria dimostra come le migrazioni, le guerre, le diaspore, le povertà e le conquiste abbiano sconvolto il pianeta nell’ultimo scorcio del secolo scorso, mescolando razze, lingue, culture, stili di vita, come in un magico mixer della modernità. Intanto mi è apparso subito chiaro che non può essere ipotizzata preventivamente la presenza attuale di usi, costumi, credenze, temi culturali e ideologici solo perché accertata  in un passato più o meno recente, né se ne può dedurre il superamento o la scomparsa ad opera della livellatrice società dei consumi, con le sue feste di San Valentino e di San Faustino, della mamma, del papà, della promozione della squadra di calcio nella serie superiore, del giornale del proprio partito politico, della vittoria dello scalatore di casa al “Tour de France”. Insomma, i doni della tradizione sono caduti in desuetudine o costituiscono cultura attuale, nelle nostre realtà locali, non più ad economia agricola né “chiuse” ai cambiamenti strutturali e sovrastrutturali del nuovo millennio?

E ancora: quanto la terziarizzazione della società e la massiccia diffusione dei mass-media e della scuola hanno reso possibile la conservazione del patrimonio culturale popolare tradizionale e, con esso, il complesso sistema dei doni, in occasioni particolari come le feste religiose (la “strina” di Natale) e civili, l’uccisione del porco, i battesimi, i matrimoni, il comparaggio di fiori o sangianni, le nascite, ma anche la transumanza, la semina, la vendemmia, la mietitura, la trebbiatura, la carusa

(tosa) delle pecore, la fiera, u cotulu o dirramu delle olive, la raccolta del fieno, delle castagne, delle ghiande e dei fichi da seccare o da infornare.

 Immagine 1

 

Alcune di tali pratiche erano legate ad antichi ordinamenti giuridici, come gli angari e i parangari del diritto feudale e le obbligazioni della colonia, ora finalmente superati, unitamente alle strutture socio-economiche su cui poggiavano.

Per secoli i villani sono stati costretti  a prestare gratuitamente  –  per angariam  – la loro opera per coltivare le vigne del feudatario, per accompagnare la bandiera in fiera, per controllare le condotte idriche e gli acquari, per fornire al castello acqua, legna, paglia e per riempire la neviera. Rientravano nei parangari gli obblighi del majo: ad Arena e a Sovereto, il primo maggio, ogni vrazzala aveva l’obbligo di un donativo speciale, consistente nelle pendole di galline, capponi e capretti, come zelantemente annotava il tavolario De Marinis nel 1653.

 Immagine 2

 In alcuni Capitoli e Grazie di Terre e Città, sia feudali che demaniali, sono elencate consuetudini del tipo: doni al predicatore quaresimale (a Simeri), doni compensativi del permesso di far macerare il lino nelle gambitte dei terreni e nei vulli (1) dei fiumi e per l’uso dei mangani e dei manganelli (in molti feudi), fornitura dei cerchi per le botti del vino (ad Arena), le regalìe di Natale (una gallina, 2 pani, un tronco d’albero, la logna del porco e metà sugna a favore  del monastero di san Pietro Spina di Ciano) e di Pasqua (vuccellate, cullure o cuzzupe), le obbligazioni dei possessori di animali, il risarcimento del vino ‘mbuttatu che li si guasti(2), u pignateddhu per il monaco da cerca (a Mesoraca, per i Minimi del convento dell’Ecce Homo) o per l’eremita. In alcune occasioni, “per amorevolezza”, il barone si degnava di offrire la colazione e il vino; addirittura ai “vignaioli insertatori”, ai potatori e ai caporali del trappeto oleario venivano corrisposti 8 grana al giorno, una cannata di vino e il diritto a due “frese” (3)

Da un’indagine recente (4), condotta in 5 comuni del Catanzarese, risulta che  –  nonostante un certo scadimento del senso comunitario, la frammentarietà dei sistemi esistenziali e i nuovi fenomeni di conflittualità sociale, intergenerazionale e interetnica  –  ancora perdurano marginalmente in Calabria il sistema dei doni e la reciprocità bilanciata, sempre in occasione di feste e ricorrenze particolari. Fino a pochi decenni addietro, rappresentavano comprimenti (doni, obblighi) del buon vicinato: lo scambio del levatu (lievito, pasta madre) per fare il pane in casa, l’aiuto gratuito in occasione dell’uccisione del maiale e della preparazione delle provviste, l’offerta di una gallina grassa per il bollito alla puerpera e di due piccioni di colombo per i malati, le “piccole attenzioni” in

concomitanza delle “feste ricordate”, la partecipazione ai funerali con la disponibilità da parte dei maschi a portare a spalla la bara, la soppressata o l’olio alla parrocchia in occasione della benedizione pasquale delle case, i regali di sposalizio, il dazzitu (un pezzo di lonza, di fegato col chippu, di pancetta e una frittola) del porco, il cùnsulu durante gli 8 giorni di lutto stretto, il soccorso in caso di aggressione del gregge da parte del lupo o di forte nevicata, la collaborazione per difendere il pollaio dalle insidie delle volpi o delle faine, la disponibilità a conferire la propria piccola “partita” di latte di capra per fare il formaggio in modo comunitario, il prestito del caglio in caso di necessità al caccamu, la cessione gratuita del latte d’asina a favore dei bambini lattanti orfani di madre o messi a balia, i piccoli prestiti di spezie e di intingoli per la cucina quotidiana, il soccorso in caso di malattia o di malori improvvisi, la messa in sicurezza delle barche in caso di mareggiata.

Mai, però, il tabacco e il vino rientravano tra gli scambi mutualistici ordinari del vicinato, essendo considerati generi voluttuari non essenziali. Il fiaschetto di vino, però,   –  e ancor di più lo zucchero e il caffè  –   poteva costituire un tipico dono da visita o da ricorrenza.

Nel “Kanun” (codice d’onore del tempo della prima migrazione del XV secolo) degli Arberesh di Calabria è scritto che all’ospite proveniente da altra “ghittonia” (vicinato) bisogna cedere il letto della propria figlia nubile, sovrastato dalla croce bizantina o dall’immagine di San Giorgio. Tra le pratiche della ghittonia e della “ruga” è da annoverare la cacciata del malocchio (affascinu): “sdocchiara” è una sorta di magia rurale, una pratica rituale di socialità comunitaria, secondo gli stereotipi culturali diffusi nelle campagne e nel sottoproletariato urbano, dove spesso il sacro si riproduce in un contesto di superstizione. In ogni ruga, comunque, c’era una donna (non una medium vera e propria) esperta di magia bianca e la sua opera rappresentava un dono prezioso per tutti. Nel vicinato spesso si realizzavano anche le strategie matrimoniali e la complessa organizzazione dei ruoli connessi alla famiglia, demograficamente “nucleare”, ma socialmente “associata” in un gruppo parentale allargato (nonno, figlio, nipoti, parenti di secondo grado non coniugati), che implicava anche l’obbligo dell’omertà a favore dei latitanti rifugiati e l’offerta al vedovo di una novella sposa nella persona della sorella della defunta.

Marcel Mauss, in Essai sur le don (Saggio sul dono, forma arcaica dello scambio, 1923/4), ha spiegato come nelle società arcaiche e tradizionali la regola fondamentale fosse quella della triplice obbligazione di donare, ricevere e restituire i doni,  fondata sulla supposta presenza di una forza magica, il mana, nell’oggetto donato. Il mana era interpretato come una categoria del pensiero collettivo e come fondamento del pensiero magico.

Oggi, invece, al bambino bosniaco, che al semaforo ti offre una piccola mercanzia o pretende insistentemente di lavare il parabrezza dell’auto, puoi opporre il tuo rifiuto senza neanche guardarlo negli occhi, perché non hai alcuna obbligazione verso di lui né credi all’esistenza del mana.

Nel suo “Saggio sul dono”, Mauss aveva sviluppato alcune osservazioni di Bronislaw Malinowski, in “Argonaute in Western Pacifica” del 1922, relative alla pratica cerimoniale del “Kula” dei pescatori delle isole Trobriand, consistente nello scambio rituale da parte delle tribù dei Lele del Kasai di collane di conchiglie rosse (“spulava”) con braccialetti di conchiglie bianche (“mwali”).

Il dono del kula nelle 30 isole implicava il trasferimento del mana, che rappresentava una forza benefica solo se il dono veniva ancora trasferito, fino a farlo tornare al donatore originario, attraverso una serie di passaggi intermedi. Se, invece, il dono non veniva trasferito, il mana acquistava una carica distruttiva nei confronti dell’inadempiente che lo tratteneva presso di sé.  Il rito, oltre che un significato magico, possedeva anche una valenza sociale, in quanto istituiva o consolidava legami pacifici tra gruppi diversi e consentiva collateralmente il commercio di altri oggetti con valore d’uso. Tale rapporto fu detto da Mauss di “prestazione totale”.

Lo studioso francese estese la sua analisi anche al potlatch delle tribù indiane del Nord-Ovest americano e del Canada, già studiate da Franz Boas: ai rappresentanti di altre tribù si offrivano cibi prelibati e oggetti pregiati, come ostentazione del proprio valore e del prestigio sociale tra i diversi lignaggi. Il potlatch era, perciò, una prestazione totale di tipo antagonistico.

Claude Lévi-Strauss (“Le strutture elementari  della parentela”) precisò che le prestazioni totali esprimevano lo sforzo di rappresentare la vita sociale come un complesso “sistema di relazioni .

Ora come allora, la funzione primaria del dono è quella di generare, rinnovare o rafforzare il rapporto sociale, creando un clima di fiducia e di disponibilità, anche e soprattutto in presenza di disagio sociale, inteso come patologia relazionale.

Nel mondo contemporaneo  –  di fronte al megamercato e alla tensione tra modernizzazione e tradizione  –  alcune logiche delle società arcaiche sopravvivono non solo nel rapporto di vicinato, ma anche nelle famiglie e nelle varie reti associative e di volontariato, qualche volta con la funzione di sostenere e ricucire legami sociali affievoliti o lacerati, altre volte come espressione della propria carità e del bisogno di partecipazione.

Malinowski ha dimostrato come l’animale colto e sociale, che è l’uomo, abbia necessità di soddisfare i suoi bisogni d’ordine fisiologico attraverso le istituzioni della socialità, cioè per mezzo di transazioni reciprocamente remunerative  e attraverso la cultura, forma tipicamente umana di adattamento biologico. Più semplicemente, i doni rafforzano i rapporti sociali e contengono l’implicito obbligo a restituire.

Nelle società tribali il dono era sovente portato all’uomo di rango superiore e rappresentava un rapporto duale di lealtà e di sottomissione, che vincolava mutualmente il donatore al ricevente, il subordinato al protettore. Nelle stesse società i doni del cosiddetto “prezzo della sposa” rappresentavano il trasferimento di diritti dai parenti della donna a quelli del marito o anche l’indennizzo dell’inferiorità dello status sociale della sposa: se la donna non aveva prole o se era infedele, il marito poteva ripudiarla, chiederne la sostituzione con una sorella o pretendere la restituzione del prezzo pagato.

In Somalia, la dote della sposa è detta “mahr” e rappresenta una specie di garanzia della sposa contro un possibile divorzio, in una società che registra la poligamia e la famiglia matricentrica.  Fino a oltre la metà del secolo scorso, in molte realtà calabresi, il dono, dietro l’apparente carattere di gratuità e di spontaneità, sottintendeva un rapporto contrattuale, di solidarietà interpersonale e familiare, ma anche offerta di deferenza in cambio di riconoscimento e di sostegno. Ancora 40 anni fa , T. Tentori, in “Dote, classi sociali e famiglia in una città del Sud” , registrava casi di maggiorascato e di “ sposa novella” (5) al vedovo, nelle campagne calabro-lucane.

 Immagine 3

 Il costume del maggiorascato, infatti, con l’implicita subordinazione delle aspirazioni dei figli ai prioritari interessi della famiglia, era diffuso non solo nella nobiltà, ma anche nei ceti popolari e contadini e tendeva a evitare la frammentazione del podere familiare oltre il limite della sua utilizzabilità come unità produttiva elementare.

Altri sistemi di conservazione dell’integrità aziendale erano rappresentati dal matrimonio tardivo di alcuni figli, dall’emigrazione e dal passaggio alla “mastranza”: alcuni figli, cioè, diventavano discipuli (apprendisti) di un “sommastru” (signor-maestro: sarto, falegname, calzolaio), per cui l’artigianato finiva con l’assorbire le eccedenze di manodopera della famiglia contadina. Questa alternativa, però, incontrava diverse difficoltà, come la chiusura della mastranza (l’informale organizzazione dei maestri artigiani, erede delle corporazioni delle arti e dei mestieri) e il declino dell’artigianato, che riapriva le porte all’emigrazione, la quale rappresentava il vero fondamento dell’equilibrio interno della comunità locale; essa, infatti, consentiva d’investire i risparmi (le rimesse esterne) nell’acquisto di un nuovo podere nel paese d’origine.

Per quanto riguarda le “regalìe” del colono e le prestazioni lavorative gratuite, vale la pena di ribadire che erano istituti giuridici derivati dagli antichi diritti feudali e dai contratti del mondo rurale. La pratica del dono, reale o simbolico, infatti, non era limitata ai soli rapporti colonici, ma riguardava l’intera società agricola: lo scambio era paritario solo tra le famiglie dello stesso rango non antagoniste, che volevano rafforzare i vincoli comunitari.

La grande trasformazione post-bellica (6) ha introdotto nella società rurale calabrese nuove forme d’integrazione  –  oltre alla parentela (7) , alla residenza e alla clientela (8)  –  dei sistemi socio-economici tradizionali: ha rappresentato l’inizio dell’integrazione nello Stato, nella Regione, nel partito politico, nei sindacati, nelle aggregazioni tipiche del nostro tempo.

La coesione sociale non è più assicurata dalla parentela e dalla residenza, ma dalla loro sinergia con le nuove strutture d’integrazione. La residenza, inoltre, non caratterizza più esaustivamente il vicinato, la contrada, la frazione, il paese, ma si apre verso le pur deboli presenze e strutture dello Stato; essa non connota più l’appartenenza, che, invece, è strutturata sui nuovi collanti sociali, come lo schieramento politico o addirittura il tifo sportivo, per cui si è juventini anziché milanisti, laziali antiromanisti, lupi e non aquile, fan di Gimondi e non di Moser o di Pantani. In diverse comunità locali, però, sono riusciti a sopravvivere, ancora per alcuni decenni, i vincoli matrimoniali e del comparaggio, specie di quelli frontali o incrociati, che hanno continuato a rinnovare le relazioni sociali ed economiche del sistema dei doni e a confermare la necessità del sistema della reciprocità; sono stati così rinnovati gli scambi di servizi e di lavoro, mentre la reciprocità ha continuato a connotarsi in varie forme.

 Immagine 4

 Per M.D. Sahlins (“Sociologia dello scambio primitivo”) la reciprocità generalizzata, sia bilanciata che negativa, va individuata sulla base della immediatezza ed equivalenza dello scambio, per poter distinguere i doni liberamente fatti, i guadagni egoistici, i baratti, i sacrifici altruistici, le frodi, i raggiri, le rapine. Intanto, il comparaggio ha continuato a concretizzarsi non solo attraverso i battesimi e le cresime, ma anche col sangianni di fiore, cioè con lo scambio rituale tra ragazzi di un mazzetto di fiori di spicanarda, per attivare legami e alleanze tra le famiglie dei comparelli e delle commarelle, assimilabili a quelli della parentela fittizia o della collateralità. Il comparaggio, fondandosi sui rapporti di quasi-fratellanza, ha rafforzato i vincoli assistenziali e ha instaurato le transazioni tipiche della reciprocità bilanciata (doni e contro-doni, resi sovente nelle feste e nelle ricorrenze particolari); qualche volta è servito anche a ricomporre le faide antiche o a costruire una rete di relazioni di coesione e di conservazione di privilegi e prestigio sociale.

Infatti, diversi sindaci dell’ultimo dopoguerra hanno potuto contare su una grossa pletora di comparelli-elettori, ma anche la mafia ha potuto utilizzare tali vincoli per garantirsi sottomissione, complicità, omertà e sostegno. Per sua natura  –  si pensi all’esposizione alla casualità della natura  –  nel mondo agricolo e pastorale c’è sempre stato un gran bisogno di solidarietà, percepita dai protagonisti come necessità più che come scelta “naturale”; le ristrettezze finanziarie, inoltre, hanno indotto a consolidare i vincoli comunitari anche nel mondo artigianale dei paesi e del proletariato urbano. Oggi la società mette in atto ben altri e più sofisticati meccanismi per creare e rafforzare i vincoli e la coesione sociale, per cui il dono sovente acquista il carattere della ricompensa o della “promozione”, in termini strettamente economici e mercantili: così mi viaggi per favorire le vendite, le crociere premio a favore di alcuni professionisti, i soggiorni in beauty farm, gli abbonamenti a teatro o allo stadio per le più svariate ragioni commerciali, le borse di studio per prenotare i “cervelli”, ma anche attività di volontariato a favore dei malati, dei barboni, degli immigrati, dell’infanzia  e degli anziani. E’ la società complessa, ricca di opportunità e zeppa di contraddizioni, che la cronaca quotidiana mette in luce, mentre la TV  –  ambigua regina della comunicazione (9)    –  continua a proporre al mercato globale sempre nuovi spot per un mondo ovattato, dove tutto è dono intrusivo e dove la velocità viola il diritto alla riservatezza, rende ardua la riflessione e concorre a scompaginare le identità culturali. Se poi non ti fermi a comprare i fazzoletti dai bambini immigrati o non getti una monetina nel piattino del musicista bohèmien, non c’è nulla di male: puoi anche evitare di guardare negli occhi il prossimo evanescente, perché non hai obblighi, né di solidarietà e neanche di reciprocità. E’ l’ideologia dell’apparente universalismo, antitetico ai particolarismi, e del progresso illusoriamente lineare ed esponenziale, dove i soggetti portatori di senso sociale (altrimenti detti “attori del sistema sociale”) hanno consumato molti miti della modernizzazione, come il Proletariato, la Borghesia, la Nazione, intesi come veri e propri demiurghi della storia.

Intanto lo zapping ha modificato i nostri comportamenti e addirittura la nostra psiche, con la promessa finanche del dono dell’ubiquità virtuale, quasi una semplice corrispondenza simbolica, una correlazione di suoni, di colori, di ritmi e di forme: il sistema dei doni è travasato nel mercato globale, per alimentare il microcosmo dei rapporti interpersonali e le convenzioni sociali della civiltà attuale, con i suoi bisogni indotti e le sue mode.

La società è un organismo dinamico  –  sosteneva Durkheim  –  e il destino delle parti dipende dal contributo che esse danno alla sopravvivenza dell’insieme. Ma è possibile applicare la regola del determinismo funzionale anche alle produzioni folkloriche, senza ridurle a scorie o a maschera  del popolo dei facitori di anticaglie?

E poi, cos’è concretamente il patrimonio culturale dell’appartenenza, da radicare, garantire, tutelare e promuovere come tratto culturale distintivo di una comunità? Cosa significa oggi, nella situazione data, assicurare stabilità all’orizzonte valoriale e all’identità culturale di una realtà territoriale locale o di un popolo intero?  Forse significa saper proporre dinamicamente il passato nella prospettiva del futuro, in termini non retorici e convenzionali, cioè senza scorrerie nei sentieri dell’ovvio o dell’ufficialità, ma ricercando percorsi culturali e di vita inediti, capaci di eludere la liminalità, l’emarginazione e il conformismo. Forse solo così, domani, i pellegrini del tempo scomparso potranno non lamentare il senso della perdita irrimediabile e riuscire ad attraversare il deserto delle ombre della memoria.

 

 N O T E

 

(1)   Le gambitte sono le fosse di scolo delle acque dei campi, mentre i vulli sono le pozze profonde dei fiumi

(2)   Fonti Aragonesi, Vol. II, Cancelleria di Calabria, doc. 16, pag. 182 e sg.

(3)   Fette di pane rosolate al fuoco delle sansa e ‘mbotracate d’olio.

(4)   Giusy Barberio, I briganti del Catanzarese, tra storia e tradizione orale

(5)   Offerta al vedovo di un’altra moglie, nella persona della sorella nubile della defunta, per ragioni economiche, ma anche per assicurare  agli orfani una matrigna-zia, da preferire a un’estranea.

(6)   Carta dei tipi d’impresa nell’agricoltura italiana:relazione di Giuseppe Medici: Roma, 1951, a cura dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria. INEA, La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, Lucania e Calabria, 1947.

(7)   Fortuna Piselli e Giovanni Arrighi, “Parentela,clientela e comunità” , in “Calabria” della Storia d’Italia Einaudi, 1985.

(8)   Cfr: G.Greco, “Per una tipologia della clientela”, in “Clientelismo e mutamento politico”,  a cura di L. Graziano, Milano, 1974.

(9)   Marshall MacLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, Signet Books, 1964

vai a Pagina Uno