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AGAZIO DI SOMMA – POETA

di Marcello Barberio

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Nel 1984 e nel ’92, su questa rivista, ho sostenuto l’esigenza di una rivisitazione critica dell’opera poetica di Agazio Di Somma e dell’intero Seicento letterario, dopo la frettolosa condanna  degli antimarinisti e soprattutto del De Sanctis e dei romantici italiani e tedeschi; tale esigenza è divenuta  più urgente dopo gli studi di Francesco Croce, Enrico Malato, S. Foa, Enrico Tostini, Anna Paudice e altri esperti dell’età barocca.

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                Agazio Di Somma

 

Il gesuita Agazio Di Somma (1) nacque a Simeri nel 1591 da  Marc’Antonio e Camilla Ferrari, titolari del feudo di Calì (2). Intraprese i primi studi nel collegio dei Gesuiti di Catanzaro, li proseguì a Napoli e poi a Roma, dove venne ammesso all’Accademia degli Umorist, conseguì il dottorato  in utroque jure ed entrò nei circoli dei cardinali Barberini, Gaspare e Borgia, distinguendosi sempre per impegno culturale e pastorale.

 Diede alla stampa le seguenti opere:

 

–          “Dell’America – Poema heroico, canti cinque”, con discorso sopra l’Adone del Marino, in Roma, appresso Bartolomeo Zanetto, 1624 (3);

–         Arte del vivere felice, ovvero le tre giornate di oro. Dialogo di Aristippo e Filadelfo”,  Messina, per Giacomo Mattei, 1649 ed a Napoli  ad istanza di  Gio. Alberti  Tarini, 1654;(l’opera fu riveduta ed accresciuta da padre Giovanni Fiore da Cropani, in un ms inedito);

–         “Historico racconto dei tremoti della Calabria dell’anno 1638 fino all’anno 1641” , in Napoli, 1641 presso Camillo Cavallo;

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–         Compendium Concili Tridentini cum bullis  recentiorum pontificium ad materias conciliares pertinenti bus;

–         De Jurisditione Episcopi ;

–         Lettere;

–         Istoria dei nostri tempi;

–         La Vie du pape Pie V (Vita di Papa PioV, nella traduzione di André  Félibien, 1672).

Le ultime 5  opere manoscritte sono custodite in diverse biblioteche romane. (4)

 

La scoperta dell’America  aveva prodotto la proliferazione di testi di genere epico-mitologico: Colombo si considerava un propagatore della fede cristiana, secondo una fantomatica profezia d’Isaia, e usava firmarsi “Xpo Ferens”, cioè “portatore di Cristo”.

Nel 1996, Eva Tostini ha pubblicato la tesi di laurea su “La scoperta dell’America nella poesia italiana dal XV al XVII secolo”, con capitoli dedicati alla “Historia della invenzione delle Canarie”  del vescovo Giuliano Dati, alla “De navigazione Christophori Columbi libri duo” di Giulio Cesare Stella, al “Mondo Nuovo” di Giovanni Giorgini, al “Colombo” di Giovanni Villifranchi, all’”Oceano” di Alessandro Tassoni, al “Mondo Nuovo” di Tommaso Stigliani, all’”America” di Bartolomei e al “Dell’America” di Agazio Di Somma.

Nell’opera del Nostro è descritta in ottave  –  con la fantasia del verosimile e in un contesto idillico e leggendario  –  la scoperta dell’ammiraglio genovese, la “conquista” delle popolazioni americane, la sconfitta dei capi locali e la conversione di un giovane indigeno, celebrato come un novello eroe cristiano, secondo i parametri della tradizione biblico-letteraria dell’ortodossia romana.

Il poema è stato bollato da diversi critici come una composizione poetica di tipo meramente encomiastico e celebrativo, sulla falsariga delle opere ricercate e fastose del Marino, di cui Di Somma sarebbe stato un semplice replicante e non piuttosto  – come oggi la critica letteraria più accorta sembra propendere, rendendogli il giusto omaggio (5)  –  un “originale riformatore” della complessa poetica barocca, al pari di Gabriello Chiabrera, di Federico Della Valle (6), di Fulvio Testi e  di Cesare Monizio di Taverna.

Ultimamente si assiste a un tentativo di revisione critica del fenomeno barocco e di smentita del giudizio negativo del Seicento letterario, con la rivalutazione della “poesia petrosa” di Tommaso Campanella, del “suono basso” dei versi dialettali di Domenico Piro (alias Donnu Pantu) , delle fiabe popolari di Giovambattista Basile, delle poesie grecaniche di Antonio De Marco, della “melodia” di certa poesia che prelude al melodramma, a Gravina e al Metastasio. E non solo al genere eroicomico della “Secchia rapita” del Tassoni.

Nel 1978, Anna Paudice ha discusso all’Università di Salerno la tesi “Un giudizio “parziale” svelato: Agazio Di Somma e il primato dell’Adone”, ora in “Filologia e Critica”III, 1, pp 95-106.

I versi del Di Somma risultano per nulla vuoti e freddi o scarsi di sentimento e di pensiero, né la  forma appare artificiosa e vaporosa  come nella poesia barocca di maniera, infarcita di espedienti stilistici. La scrittura è leggiadra ed efficace, mai affettata.. Né è possibile leggere la scomparsa degli ideali nobili e l’aridità dei sentimenti là dove, invece, è forte  ed evidente il precetto morale e religioso, in un genere poetico epico, eroico e addirittura sacro. Di Somma, come Campanella,  rifugge dalla preoccupazione dell’ortodossia  del sistema normativo aristotelico, anche se si mostra attento ad adeguare l’opera al gusto del momento, sull’esempio del suo amico Giambattista Marino, troppo sbrigativamente liquidato  come vacuo poeta di corte.

Nel “poema heroico”, del Di Somma non v’è traccia della “lascivia” e del tono sensuale di stampo marinista e alla materia amorosa è anteposta la lirica a soggetto storico, seppur col vezzo della metafora mirabolante della moda del secolo. La cosiddetta “poetica della meraviglia e del diletto”, perciò, è appena percettibile nell’”America”, dove non si coglie il rifiuto dei classici nè la concezione edonistica dell’arte, con la preoccupazione di stupire e meravigliare i lettori. La ricerca del “favore del pubblico”, invece, sembra essere  una preoccupazione vera, ma c’è chi vi scorge un segno inoppugnabile di “modernità” e finanche l’ansia di rinnovamento stilistico rispetto alla stanca tradizione rinascimentale.(7)

In appendice al poema, il dotto prelato pubblicò un discorso di lode del poema mitologico “L’Adone” di Marino, nel quale sosteneva  che la storia degli ardenti amori  di Venere e Adone,

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      G.B.Marino

 

nei giardini dei sensi e dell’intelletto del mirabile Palagio d’Amore di Cipro,  era da preferire alla “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, priva – a suo parere – di spirito eroico e religioso e pervasa di un cristianesimo stanco e affatto ortodosso.  Per “fortificare il suo parere, appoggiò tal paradosso all’autorità del nome “ di Girolamo Preti, il quale, “ in pubblica accademia  e in privato congresso”, si affrettò a smentire. In una lettre indirizzata a Girolamo Preti, così scriveva il Marino:”  Le doglianze che voi fate contro il signor Agazio di Somma[…]da una parte sono ragionevoli, essendo per molti aspetti sproporzionato il parallelo; ma dall’altra non mi pare che la cosa meriti tanto schiamazzo[…]essendo egli incorso in questo errore ed eccesso per affezione[…]Essendo le colpe dell’autore  tutte scusabili, può egli dire a voi quelle medesime parole che disse  Euripide nella Ifigenia:  Mihi exprobasti probrum honestum […] Io non ebbi mai sì fatte pretenzioni,  dico di concorrere col Tasso,  anzi riverisco la sua memoria come sacra ed ammiro il suo spirito come divino[…] Che il genere della Gerusalemme sia diverso, non si nega, che lo stile  sia più magnifico, più laconico, più poetico e più ricco, questo ancor si conceda; ma che nel mio poemazzo non sia pure qualche particella, che gli si possa contraponere ed essere contrappesato alla  medesima bilancia, di questo me ne riporto al vostro giudizio.  Rompansi pure il capo i signori critici fra lor se con quel nome  si debba battizzare;  so che chi volesse far l’apologista, avrebbe mille capi  da poterlo far passare per epico. E se ben favoleggia sopra cose favolose,  si sa nondimeno che la favola antica ha forza di istorica; ma se altri non vorrà chiamarlo eroico, perché non tratta d’eroe,  io lo chiamerò divino, perché parla de’ Dei.

 Voi l’intitolate poema fantastico e fuor di regola,  e dite che non può cadere la comparazione, perché sarebbe come voler  rassomigliare l’Eneide alla Metamorfosi.  Adunque, secondo voi,  di necessità ne segue che quello della Metamorfosi, sia poema irregolato e fantastico[…]”.

In un’altra lettera  il Marino apostrofa  Antonio Bruni con queste parole: “ Con mia estrema e particolare meraviglia intendo che [..] VS, invece di  difendere l’opinione del signor Agazio contro gli schiamazzi del signor Preti,  in pubblica accademia e in privato congresso si dimostra sostenitor del contrario”. Nel 1627 l’Adone fu messo all’indice, mentre Tommaso Stigliani (Mondo Nuovo, Occhiale), Scipione Errico (Le rivolte di Parnaso) e altri minavano l’egemonia letteraria del Marino, accusato di aver utilizzare argomenti vuoti e fallaci nella sua “larva di poema epico-lirico” e di aver introdotto l’abitudine alle prefazioni auto-laudative e di ossequio, oltre che di denigrazione degli avversari.

Tornato da Roma in Calabria, Agazio Di Somma  fu nominato vescovo di Cerenzia e Cariati e successivamente di Catanzaro.

Si trovava in Calabria, nel 1647, quando Catanzaro, alla notizia della rivolta di Masaniello, insorse contro gli Spagnoli, sotto la guida di Antonio Pisano, anch’esso di Simeri.  Agazio, nominato ambasciatore dei Catanzaresi presso Giovanni d’Austria,  risparmiò alla città la vendetta  dell’esercito spagnolo, per il suo “ particulare affetto  y amor grande “ per il re.

Qui egli morì nell’autunno del 1671, dopo  aver restaurato la cattedrale neoclassica, edificata da Emman, e aver fatto costruire la fontana di  Santa Maria di Zarapotamo, nella quale fece collocare una lapide con la scritta : Agostinus De Summa, Episcopus Catac. anno Dni XDCLXVI.

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      Stemma famiglia Di Somma

(con corona comitale)

 Sicuramente gli spetta un posto di primo piano nella storia della letteratura del Seicento, perché fu letterato e poeta affatto ricercato e per certi versi addirittura antitetico  allo stesso barocco, dal momento che  seppe coniugare la ricerca del nuovo  col modello stilistico petrarchesco e dei poeti “classicheggianti del circolo Barberini”, mantenendo nelle sue opere una sostanziale  analogia strutturale, nonostante la diversità dei temi e dei modelli artistici. Il suo barocco è solo epidermico e forse inconsapevolmente egli riecheggia la lirica  delle anacreontiche, al pari degli antiquari.  Lirico di straordinaria bravura, egli impone una rivisitazione  del severo giudizio sui cosiddetti marinisti minori, che tanto profondamente hanno influito sul gusto e sullo stile poetico delle epoche successive. La sua produzione letteraria è multiforme e  ricca , ma non sempre i suoi saggi e le sue opere storiografiche raggiungono valori letterari ed artistici apprezzabili, a volte per mancanza di senso storico, altre volte per la propensione al discorso sentenzioso ed all’eloquio  immaginifico e iperbolico.

 Nel 2000 è stata pubblicata un’edizione critica, a cura del prof Pietro De Leo, del “Discorso sulle origini dell’Anno Santo”, pronunciato dal Di Somma  in occasione della quaresima del 1625 e contenuto nei “Saggi accademici[…]” del 1630.

L’anno prima, Urbano VIII aveva indetto il Giubileo con bolla “Omnes gentes plaudite manibus”.

“[…]Discorrerò dell’Anno Santo, del quale ancorché siano usciti diversi trattati d’huomini non meno dotti, che pii, dubito che fin qui non ne sia stata spiegata l’origine[…]Dedicarono gli antichi a loro Dei non solo statue, tempi e altari, ma giorni, mesi e anni. De’ giorni sacri compose un calendario in verso  Ovidio ne’ suoi libri  de Fastis[…] Gli Egitti [..] formarono l’anno a un rivolgimento di luna, il quale è di un mese[…]Doppo qualche progresso di tempo gli Egitti[…]osservassero il raggiramento del sole, il quale è di dodici mesi, e lo chiamarono anno solare[…]Benché Romolo lo costituisse in Roma di dieci mesi, Numa Pompilio lo ridusse al compimento di dodici.

Hebbero ancora l’anno di Venere, Mercurio e Marte[ …]Fra gli anni solari gli antichi n’hebbero alcuni che chiamarono grandi, ne’ quali, perché riconoscevano spetial perfettione di giri di luna, stimarono che fussero sacri[…]introdussero diverse cerimonie di religione[…]il terzo anno di Bacco, il quinto celebre nella Grecia per li spettacoli dedicati a Giove Olimpo[…]Così in Delfo ebbero il novennio[…]gli Ateniesi il vigesimo primo e i Pitagorici il quinquagesimo nono[…]Fra gli anni grandi appresso i Romani vi era ancora il centesimo[…]Erano celebri questi sacrifici, che non solo si bandivano al suono della tromba[…]Da questo nacque che desiderosi i santi pontefici di convertire queste idolatrie in puri sacrifici,  pubblicassero l’indulgenza in favore di chi venisse al centesimo anno a Roma, e qui riverissero non il sole e la luna, ma bensì i due pianeti splendidissimi delle nostra religione, San Pietro e San Paolo[.…]Bonifacio VIII promulgò la sua costitutione Antiquorum,, con la quale determinò l’indulgenza plenaria per ogni cinquantesimo anno […] Clemente VI ridusse l’indulgenza del centesimo anno a cinquanta anni[…]e Clemente VIII finalmente nella sua bolla De Iubileo[ …]stimò che l’indulgenza secolare fusse stata determinata a similitudine del Giubileo ebraico[…]ogni cinquanta[…]..Da poi ridutto a venticinque anni[…]ne parlano le stampe di nostri uomini dotti”.

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Prosatore e polemista di primo piano, pubblicò anche un’opera filosofica e morale di  notevole valore sia  per la profondità del pensiero etico sia per  le infinite risonanze  della sua sensibilità artistica, capace di esprimere il turbamento e la commozione di una coscienza assillata dalla complessità della natura e dello spirito. Infatti è ricca di divagazioni e di straordinarie anticipazioni filosofiche, d’ insistite descrizioni paesistiche  e di inusitata scorrevolezza narrativa la sua “ Arte del vivere felice o le tre giornate di oro:  dialogo di Aristippo e Filadelfo

Nella prima giornata Aristippo  –   trovandosi in solitudine  nel romitaggio del monte Elia  –  confida di voler svelare  al  lettore l’arte del vivere felice,  secondo l’insegnamento di Filadelfo, sapientissimo filosofo d’Egitto.  Avviatosi per un ombroso sentiero, s’imbatte in un “ vecchio di venerabile canizie, ma di tanta vivacità d’occhi”, il quale, prima lo interroga  sulle ragioni del suo turbamento, e poi gli mostra  il suo eremo, “ ruvida fabbrica della natura e del caso più che  dell’ humano artificio”, perché consistente in due grotticelle, di cui una ridotta “ ad uso di camera e l’altra di tempio”, come nella tradizione del monachesimo calabro-greco. Quindi così il vegliardo inizia il suo discorso: “ Io ho nome Aristippo e nacqui poco lontano da queste montagnole; nel cominciar dell’adolescenza  fui inviato ad Atene[…] e di là mi condussi alla corte di Melfi.Riputava il mio esilio in Melfi più fortunato del mio ritorno in Patria, ma il sommo Calife mi bandì dal suo regno con pubblico esilio […] Ma tutta la Terra  agli uomini è Patria comune, come il mar’à  i pesci e l’aria à gli augelli”.

 Nella seconda giornata l’eremita confida ad  Aristippo: “ Io nacqui in Alessandria d’Egitto e i miei genitori fin dalle fasce  mi chiamarono Filadelfo[…]Come finalmente piacque alla provvidenza del Cielo, m’abbattei d’accompagnarmi con uno dei nostri Brancmani, che sono i sacerdoti della dea della sapienza.  Questi in pochi dì m’insegnò l’arte del vivere felice, e mi rese capace che tutte le cose  del Mondo sono semplici opinioni, con le quali noi stessi ne facciamo  istrumenti delle nostre miserie o felicità […] Quest’arte non è altro che  una via e compita notizia  della conditione delle cose umane.  Per primo fondamento di quest’arte, io ti mostrerò che tutte le cose umane non contengono d’infelice  o di felice altro che, opinione,  e conforme che questa s’apprende,  quelle a noi  paiono o misere o fortunate[…] In due maniere credono i giovani esser rimesse le felicità di lor anni,  e nelle lautezze delle gran tavole o nelle dissoluzioni degli altri sensi più inferiori. Ma qual savio direbbe giammai che il ben de’ mortali fosse riposto nel ventre o alle dissolutezze  veneree? Queste nel desiderarsi  n’affligono,  nel godersi n’opprimono,  e godute ne lasciano miseri affetti di mestitia e di pentimento.   Infelice felicità che non s’ardisce  mai comparire  alla luce del giorno, ma sempre si nasconde  fra le tenebre e sozzure e vigilie in quietissime delle notti”.

Quindi, continuando il suo discorso sull’arte del vivere felice, il canuto vegliardo spiega due concetti alquanto complessi, quello del dominio degli uomini e quello della ricchezza, nei quali  è evidente  l’influenza filosofica di Tommaso Campanella, che poneva a fondamento della sua Città del Sole  la comunione dei beni, “le scienze e onori e spassi “.

“ Le montagne quanto più si sollevano con l’eccelsa lor fronte tanto più agevolmente  patiscono gli assalti di venti e la violenza di tuoni[. ] Le ricchezze, che con travagli s’accumulano,  con ansietà si mantengono e non senza pericolo si posseggono, faranno mai la nostra tranquillità, quelle che per lo  più per mezzo  di biasimevoli usure , per mercè di pattuite ingiustizie  e talvolta per spoglie  di segreti  o pubblici latrocini si acquistano,  faranno mai la beatitudine nostra?[ ..]Ti sei avvenuto già mai  in alcune di queste pitture che hanno due prospettive  tra sé contrarie?  Dall’un fianco per avventura faranno mostra d’una bellissima Dama, che coronata  il capo  delle sue bionde trecce,  quasi d’aurea ghirlanda,  le svolazzino su la fronte come spezzate per negligenza; e  dall’altro fianco rappresentino  un fiero Drago, che di brutte squame coperto  spanda l’ali scagliose.  Il singolar precetto dell’arte del vivere farà  di guardarle sempre  per quel lato che ne dilettano, non per quello che n’atterriscono e ne travagliano.  Dio creò comune e in servigio di tutti quel ch’è più necessario e prezioso al vivere humano. Come questo amplissimo palagio dell’Universo che  ugualmente tutti n’accoglie, come questa meravigliosa luce  che sparge di sereno candidissimo il giorno e ingemma di Stelle le tenebre della notte.  Comuni furono prodotti questi mari, queste selve e queste campagne[…]Un gran Maestro di savji  chiamò stolta l’avidità dei mortali che non reputa  suo quel che è pubblico  e si possiede in comune,  quasi che nei principi del Mondo   fosse stato tutto il genere  humano mendico. Solamente quel ch’è pubblico e indiviso  vivrà senza invidie,  senza emulationi e senza timori, e questo à punto è  l’esser di beati  che possiedono il bene in comune[. ] Dunque a te pare che un cieco non trovi  nelle sue tenebre soddisfazioni  uguali a quelle che dà la luce; già che la notte è madre  del riposo dei mortali, dove il giorno è padre delle fatiche[…]Tu prendi per gran male la morte?  E’ altro, per tua opinione la morte,  che un mancamento di vita?  Perché, dimmi, i fiumi non corrono  dolci per tutto lo spatio  che si frappone dal luogo del nascimento  fin dove terminano mescolandosi  con l’onde del mare? Perché la vita nostra non deve correre similmente  tranquilla finché finisca in morte,  nostra liberatrice di tutti i travagli e sicuro seno della Natura?  La morte che mostra di accoglierci fra le tenebre del suo grembo,  ne partorisce  alla vita di un altro Cielo, d’un altro mondo più fortunato”.

Dopo aver affermato l’ortodossia della sua teologia della salvezza, Filadelfo , soavemente rapito in un’estasi  divina,  prorompe in un  canto melodioso e idilliaco:

 

“ Oh di ché bel sereno

entro dell’alma gode,

chi degli affetti suoi siede  al governo,

e ne modera il freno;

né si gonfia, ò si rode

si che mai turbi il bel tranquillo interno;

questi,se ben discerno,

fra se stesso possiede in human velo,

quasi usurpata a Dio parte di Cielo.

 

O che destra fortuna.

Lusinghi, ò che proterva

S’armi di nuovo orgoglio, egli con fronte

 

Né più chiara, né bruna,

immobil si conserva,

disprezzando ugualmente i vezzi e l’onte:

 

come d’eccelso monte

ne l’human’ ondeggiar  mira, a sue sponde

tutte sotto à suoi pie’  frangersi l’onde,

 

si convolga à sua voglia

de le cose mortali

l’instabil mare, e ‘l Ciel  fra membi tutto

 

balenando discioglia

tuoni e pioggia di mali;

ch’ei vede in spume e in luce sua ridutto

 

ogni lampo, ogni flutto

e se subilme sotto ciel sì puro,

che da venti, e da folgori è sicuro.

 

Sovra le come assiso

Di virtute altamente

I dubbij eventi del futuro attende

 

Con immutati viso.

Talvolta con la mente

Oltre le nubi, e oltre il sol trascende;

 

per li spatij si stente

de l’eterne Provincie e con la speme

già lo scettro occupandone, il previene;

 

e vedrò pur, un giorno,

(frà se dice) l’Aurora,

fiorir sotto a miei piè, né lunge humile

volger la Luna il corno,

e la notte aprir fuora

de le sue stelle l’immortal’Aprile.

 

Qual alma sia sì vile,

che tante glorie  apprende e de la sorte

curi poi minaccie anzi di morte”.

La vena elegiaca si è dissolta in melodia, d’inesplorata raffinatezza stilistica e concettuale, senza i capricci e le fastosità del tempo, e può stare a fianco delle petrose campanelliane e delle liriche di Gabriello Chiabrera e di Fulvio Testi. Con buona pace dello stesso Marino.

 

N O T E

 

(1)     La sua biografia è desunta, oltre che da ricerche personali sulla feudalità calabrese, da: Giovanni Fiore, “Della Calabria illustrata”, Na, 1743; Angelo Zavarrone, “Bibliotheca calabra”, Na, 1753; Luigi Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cs, 1870;L. Allacci, Apes Urbanae”, Roma, 1633; Nicola Toppi, Biblioteca napoletana”, Na, 1678; L. Nicodemi, Addizioni copiose alla Biblioteca napoletana del dottor N. Toppi, Na, 1683; F.S. Quadrio, Della storia e ella ragione d’ogni poesia, MI, 1749, Vol VI; G. Falcone, Poeti e rimatori calabrese. Notizie ed esempi, Na, 1902; L.Aliquò-Lenzi-Aliquò Taverniti, Gli scrittori calabresi, RC, 1955; Francesco Croce, Il marinismo conservatore del Preti e del Bruni, in Tre momenti del barocco letterario italiano, FI, 1966, pag. 15; P. Gauchat, Hierchia catholica.., IV, Manoasteri 1935, pp 135, 141;Enrico Malato, Storia della Letteratura italiana: cap VIII, La critica dell’età barocca; S. Foa, Di Somma Agazio”, in Dizionario Biografico degli Italiani,Vol. XL

 

(2) Nella contea di Simeri. Sul suo luogo di nascita molto si è discusso.  Vito  Capialbi, in “Biografia del Regno di Napoli”, scriveva:”Stan per Catanzaro: Toppi, l’Allacci, il Barbosa,     l’Aceti  e Vincenzo Amato; il Zavarroni, il Soria, il Giustiniani  nol precisano. Il Fiore poi  assolutamente il vuole nato in Simari nel 1591. Padre Fiore, scrittore sincrono, intrinseco amico e commentatore del nostro Monsignore fa sospettar d’averle ricavate ( le notizie) dalla bocca dell’istesso Somma”.

La controversia è stata  superata nel momento in cui ho potuto  verificare  che nei “Relevi e Informazioni” (AS Napoli), Vol. 360, fascicolo 4, nell’anno 1659, nel fondo Calì del territorio di Simeri, risultava iscritta nella tassa di successione feudale Donna Caterina Di Somma.

(3) Il discorso sulla superiorità dell’Adone rispetto alla “Gerusalemme Liberata” di T. Tasso è contenuto nella lettera del 5 settembre 1623 indirizzata a Fabrizio Ricci

(4) Biblioteca Apostolica Vaticana (Chigi, VII, 273,cc324r-326r), Bibl. Barberini Lat.    (3886,cc86r-88v), Biblioteca Borghese (184,cnn: Dell’America è a fine codice). Anche il discorso storico-erudito “Della Prefettura di Roma” è custodito manoscritto presso la Biblioteca Vaticana in due esemplari (Barb.Lat 2425 e 5194; Vat. Lat.  12934), mentre la Vita di papa Paolo V  è nella Barb. Lat 4937, 4938 e 4951.

 

(5)  Imprescindibili sono gli studi di B. Croce. Cfr  U. Limentani, “La critica stilistica e il barocco letterario”, Fi, 1957; M.T. Marcialis, “La disputa sei settecentesca sugli antichi e sui moderni”, Mi,1970; F. Croce, “Tre momenti del barocco letterario italiano”, Fi, 1966; e la nutrita critica degli ultimi 30 anni

(6) Tragedie: Ester, Judit, Reina di Scozia

(7) Alessandro Tassoni, nel 1618, ne aveva dato un giudizio alquanto negativo:Cfr A. Tassoni, Lettere, a cura di P. Pugliatti, Ba 1978, I, pp.368/9; Giovan Pietro D’Alessandro, nel ms “Difesa dell’Adone” fa un’accuratissima analisi intertestuale dell’opera.Cfr inltre: Enrico Malato, “Storia  della letteratura italiana, Cap VII “La critica dell’età barocca, 3. La polemica sull’Adone: Di Somma, Stigliani, Aleandri, Aprosio, Villani

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