di Marcello Barberio
Nel 1984 e nel ’92, su questa rivista, ho sostenuto l’esigenza di una rivisitazione critica dell’opera poetica di Agazio Di Somma e dell’intero Seicento letterario, dopo la frettolosa condanna degli antimarinisti e soprattutto del De Sanctis e dei romantici italiani e tedeschi; tale esigenza è divenuta più urgente dopo gli studi di Francesco Croce, Enrico Malato, S. Foa, Enrico Tostini, Anna Paudice e altri esperti dell’età barocca.
Agazio Di Somma
Il gesuita Agazio Di Somma (1) nacque a Simeri nel 1591 da Marc’Antonio e Camilla Ferrari, titolari del feudo di Calì (2). Intraprese i primi studi nel collegio dei Gesuiti di Catanzaro, li proseguì a Napoli e poi a Roma, dove venne ammesso all’Accademia degli Umorist, conseguì il dottorato in utroque jure ed entrò nei circoli dei cardinali Barberini, Gaspare e Borgia, distinguendosi sempre per impegno culturale e pastorale.
Diede alla stampa le seguenti opere:
– “Dell’America – Poema heroico, canti cinque”, con discorso sopra l’Adone del Marino, in Roma, appresso Bartolomeo Zanetto, 1624 (3);
– “Arte del vivere felice, ovvero le tre giornate di oro. Dialogo di Aristippo e Filadelfo”, Messina, per Giacomo Mattei, 1649 ed a Napoli ad istanza di Gio. Alberti Tarini, 1654;(l’opera fu riveduta ed accresciuta da padre Giovanni Fiore da Cropani, in un ms inedito);
– “Historico racconto dei tremoti della Calabria dell’anno 1638 fino all’anno 1641” , in Napoli, 1641 presso Camillo Cavallo;
– Compendium Concili Tridentini cum bullis recentiorum pontificium ad materias conciliares pertinenti bus;
– De Jurisditione Episcopi ;
– Lettere;
– Istoria dei nostri tempi;
– La Vie du pape Pie V (Vita di Papa PioV, nella traduzione di André Félibien, 1672).
Le ultime 5 opere manoscritte sono custodite in diverse biblioteche romane. (4)
La scoperta dell’America aveva prodotto la proliferazione di testi di genere epico-mitologico: Colombo si considerava un propagatore della fede cristiana, secondo una fantomatica profezia d’Isaia, e usava firmarsi “Xpo Ferens”, cioè “portatore di Cristo”.
Nel 1996, Eva Tostini ha pubblicato la tesi di laurea su “La scoperta dell’America nella poesia italiana dal XV al XVII secolo”, con capitoli dedicati alla “Historia della invenzione delle Canarie” del vescovo Giuliano Dati, alla “De navigazione Christophori Columbi libri duo” di Giulio Cesare Stella, al “Mondo Nuovo” di Giovanni Giorgini, al “Colombo” di Giovanni Villifranchi, all’”Oceano” di Alessandro Tassoni, al “Mondo Nuovo” di Tommaso Stigliani, all’”America” di Bartolomei e al “Dell’America” di Agazio Di Somma.
Nell’opera del Nostro è descritta in ottave – con la fantasia del verosimile e in un contesto idillico e leggendario – la scoperta dell’ammiraglio genovese, la “conquista” delle popolazioni americane, la sconfitta dei capi locali e la conversione di un giovane indigeno, celebrato come un novello eroe cristiano, secondo i parametri della tradizione biblico-letteraria dell’ortodossia romana.
Il poema è stato bollato da diversi critici come una composizione poetica di tipo meramente encomiastico e celebrativo, sulla falsariga delle opere ricercate e fastose del Marino, di cui Di Somma sarebbe stato un semplice replicante e non piuttosto – come oggi la critica letteraria più accorta sembra propendere, rendendogli il giusto omaggio (5) – un “originale riformatore” della complessa poetica barocca, al pari di Gabriello Chiabrera, di Federico Della Valle (6), di Fulvio Testi e di Cesare Monizio di Taverna.
Ultimamente si assiste a un tentativo di revisione critica del fenomeno barocco e di smentita del giudizio negativo del Seicento letterario, con la rivalutazione della “poesia petrosa” di Tommaso Campanella, del “suono basso” dei versi dialettali di Domenico Piro (alias Donnu Pantu) , delle fiabe popolari di Giovambattista Basile, delle poesie grecaniche di Antonio De Marco, della “melodia” di certa poesia che prelude al melodramma, a Gravina e al Metastasio. E non solo al genere eroicomico della “Secchia rapita” del Tassoni.
Nel 1978, Anna Paudice ha discusso all’Università di Salerno la tesi “Un giudizio “parziale” svelato: Agazio Di Somma e il primato dell’Adone”, ora in “Filologia e Critica”III, 1, pp 95-106.
I versi del Di Somma risultano per nulla vuoti e freddi o scarsi di sentimento e di pensiero, né la forma appare artificiosa e vaporosa come nella poesia barocca di maniera, infarcita di espedienti stilistici. La scrittura è leggiadra ed efficace, mai affettata.. Né è possibile leggere la scomparsa degli ideali nobili e l’aridità dei sentimenti là dove, invece, è forte ed evidente il precetto morale e religioso, in un genere poetico epico, eroico e addirittura sacro. Di Somma, come Campanella, rifugge dalla preoccupazione dell’ortodossia del sistema normativo aristotelico, anche se si mostra attento ad adeguare l’opera al gusto del momento, sull’esempio del suo amico Giambattista Marino, troppo sbrigativamente liquidato come vacuo poeta di corte.
Nel “poema heroico”, del Di Somma non v’è traccia della “lascivia” e del tono sensuale di stampo marinista e alla materia amorosa è anteposta la lirica a soggetto storico, seppur col vezzo della metafora mirabolante della moda del secolo. La cosiddetta “poetica della meraviglia e del diletto”, perciò, è appena percettibile nell’”America”, dove non si coglie il rifiuto dei classici nè la concezione edonistica dell’arte, con la preoccupazione di stupire e meravigliare i lettori. La ricerca del “favore del pubblico”, invece, sembra essere una preoccupazione vera, ma c’è chi vi scorge un segno inoppugnabile di “modernità” e finanche l’ansia di rinnovamento stilistico rispetto alla stanca tradizione rinascimentale.(7)
In appendice al poema, il dotto prelato pubblicò un discorso di lode del poema mitologico “L’Adone” di Marino, nel quale sosteneva che la storia degli ardenti amori di Venere e Adone,
G.B.Marino
nei giardini dei sensi e dell’intelletto del mirabile Palagio d’Amore di Cipro, era da preferire alla “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, priva – a suo parere – di spirito eroico e religioso e pervasa di un cristianesimo stanco e affatto ortodosso. Per “fortificare il suo parere, appoggiò tal paradosso all’autorità del nome “ di Girolamo Preti, il quale, “ in pubblica accademia e in privato congresso”, si affrettò a smentire. In una lettre indirizzata a Girolamo Preti, così scriveva il Marino:” Le doglianze che voi fate contro il signor Agazio di Somma[…]da una parte sono ragionevoli, essendo per molti aspetti sproporzionato il parallelo; ma dall’altra non mi pare che la cosa meriti tanto schiamazzo[…]essendo egli incorso in questo errore ed eccesso per affezione[…]Essendo le colpe dell’autore tutte scusabili, può egli dire a voi quelle medesime parole che disse Euripide nella Ifigenia: Mihi exprobasti probrum honestum […] Io non ebbi mai sì fatte pretenzioni, dico di concorrere col Tasso, anzi riverisco la sua memoria come sacra ed ammiro il suo spirito come divino[…] Che il genere della Gerusalemme sia diverso, non si nega, che lo stile sia più magnifico, più laconico, più poetico e più ricco, questo ancor si conceda; ma che nel mio poemazzo non sia pure qualche particella, che gli si possa contraponere ed essere contrappesato alla medesima bilancia, di questo me ne riporto al vostro giudizio. Rompansi pure il capo i signori critici fra lor se con quel nome si debba battizzare; so che chi volesse far l’apologista, avrebbe mille capi da poterlo far passare per epico. E se ben favoleggia sopra cose favolose, si sa nondimeno che la favola antica ha forza di istorica; ma se altri non vorrà chiamarlo eroico, perché non tratta d’eroe, io lo chiamerò divino, perché parla de’ Dei.
Voi l’intitolate poema fantastico e fuor di regola, e dite che non può cadere la comparazione, perché sarebbe come voler rassomigliare l’Eneide alla Metamorfosi. Adunque, secondo voi, di necessità ne segue che quello della Metamorfosi, sia poema irregolato e fantastico[…]”.
In un’altra lettera il Marino apostrofa Antonio Bruni con queste parole: “ Con mia estrema e particolare meraviglia intendo che [..] VS, invece di difendere l’opinione del signor Agazio contro gli schiamazzi del signor Preti, in pubblica accademia e in privato congresso si dimostra sostenitor del contrario”. Nel 1627 l’Adone fu messo all’indice, mentre Tommaso Stigliani (Mondo Nuovo, Occhiale), Scipione Errico (Le rivolte di Parnaso) e altri minavano l’egemonia letteraria del Marino, accusato di aver utilizzare argomenti vuoti e fallaci nella sua “larva di poema epico-lirico” e di aver introdotto l’abitudine alle prefazioni auto-laudative e di ossequio, oltre che di denigrazione degli avversari.
Tornato da Roma in Calabria, Agazio Di Somma fu nominato vescovo di Cerenzia e Cariati e successivamente di Catanzaro.
Si trovava in Calabria, nel 1647, quando Catanzaro, alla notizia della rivolta di Masaniello, insorse contro gli Spagnoli, sotto la guida di Antonio Pisano, anch’esso di Simeri. Agazio, nominato ambasciatore dei Catanzaresi presso Giovanni d’Austria, risparmiò alla città la vendetta dell’esercito spagnolo, per il suo “ particulare affetto y amor grande “ per il re.
Qui egli morì nell’autunno del 1671, dopo aver restaurato la cattedrale neoclassica, edificata da Emman, e aver fatto costruire la fontana di Santa Maria di Zarapotamo, nella quale fece collocare una lapide con la scritta : Agostinus De Summa, Episcopus Catac. anno Dni XDCLXVI.
Stemma famiglia Di Somma
(con corona comitale)
Sicuramente gli spetta un posto di primo piano nella storia della letteratura del Seicento, perché fu letterato e poeta affatto ricercato e per certi versi addirittura antitetico allo stesso barocco, dal momento che seppe coniugare la ricerca del nuovo col modello stilistico petrarchesco e dei poeti “classicheggianti del circolo Barberini”, mantenendo nelle sue opere una sostanziale analogia strutturale, nonostante la diversità dei temi e dei modelli artistici. Il suo barocco è solo epidermico e forse inconsapevolmente egli riecheggia la lirica delle anacreontiche, al pari degli antiquari. Lirico di straordinaria bravura, egli impone una rivisitazione del severo giudizio sui cosiddetti marinisti minori, che tanto profondamente hanno influito sul gusto e sullo stile poetico delle epoche successive. La sua produzione letteraria è multiforme e ricca , ma non sempre i suoi saggi e le sue opere storiografiche raggiungono valori letterari ed artistici apprezzabili, a volte per mancanza di senso storico, altre volte per la propensione al discorso sentenzioso ed all’eloquio immaginifico e iperbolico.
Nel 2000 è stata pubblicata un’edizione critica, a cura del prof Pietro De Leo, del “Discorso sulle origini dell’Anno Santo”, pronunciato dal Di Somma in occasione della quaresima del 1625 e contenuto nei “Saggi accademici[…]” del 1630.
L’anno prima, Urbano VIII aveva indetto il Giubileo con bolla “Omnes gentes plaudite manibus”.
“[…]Discorrerò dell’Anno Santo, del quale ancorché siano usciti diversi trattati d’huomini non meno dotti, che pii, dubito che fin qui non ne sia stata spiegata l’origine[…]Dedicarono gli antichi a loro Dei non solo statue, tempi e altari, ma giorni, mesi e anni. De’ giorni sacri compose un calendario in verso Ovidio ne’ suoi libri de Fastis[…] Gli Egitti [..] formarono l’anno a un rivolgimento di luna, il quale è di un mese[…]Doppo qualche progresso di tempo gli Egitti[…]osservassero il raggiramento del sole, il quale è di dodici mesi, e lo chiamarono anno solare[…]Benché Romolo lo costituisse in Roma di dieci mesi, Numa Pompilio lo ridusse al compimento di dodici.
Hebbero ancora l’anno di Venere, Mercurio e Marte[ …]Fra gli anni solari gli antichi n’hebbero alcuni che chiamarono grandi, ne’ quali, perché riconoscevano spetial perfettione di giri di luna, stimarono che fussero sacri[…]introdussero diverse cerimonie di religione[…]il terzo anno di Bacco, il quinto celebre nella Grecia per li spettacoli dedicati a Giove Olimpo[…]Così in Delfo ebbero il novennio[…]gli Ateniesi il vigesimo primo e i Pitagorici il quinquagesimo nono[…]Fra gli anni grandi appresso i Romani vi era ancora il centesimo[…]Erano celebri questi sacrifici, che non solo si bandivano al suono della tromba[…]Da questo nacque che desiderosi i santi pontefici di convertire queste idolatrie in puri sacrifici, pubblicassero l’indulgenza in favore di chi venisse al centesimo anno a Roma, e qui riverissero non il sole e la luna, ma bensì i due pianeti splendidissimi delle nostra religione, San Pietro e San Paolo[.…]Bonifacio VIII promulgò la sua costitutione Antiquorum,, con la quale determinò l’indulgenza plenaria per ogni cinquantesimo anno […] Clemente VI ridusse l’indulgenza del centesimo anno a cinquanta anni[…]e Clemente VIII finalmente nella sua bolla De Iubileo[ …]stimò che l’indulgenza secolare fusse stata determinata a similitudine del Giubileo ebraico[…]ogni cinquanta[…]..Da poi ridutto a venticinque anni[…]ne parlano le stampe di nostri uomini dotti”.
Prosatore e polemista di primo piano, pubblicò anche un’opera filosofica e morale di notevole valore sia per la profondità del pensiero etico sia per le infinite risonanze della sua sensibilità artistica, capace di esprimere il turbamento e la commozione di una coscienza assillata dalla complessità della natura e dello spirito. Infatti è ricca di divagazioni e di straordinarie anticipazioni filosofiche, d’ insistite descrizioni paesistiche e di inusitata scorrevolezza narrativa la sua “ Arte del vivere felice o le tre giornate di oro: dialogo di Aristippo e Filadelfo”
Nella prima giornata Aristippo – trovandosi in solitudine nel romitaggio del monte Elia – confida di voler svelare al lettore l’arte del vivere felice, secondo l’insegnamento di Filadelfo, sapientissimo filosofo d’Egitto. Avviatosi per un ombroso sentiero, s’imbatte in un “ vecchio di venerabile canizie, ma di tanta vivacità d’occhi”, il quale, prima lo interroga sulle ragioni del suo turbamento, e poi gli mostra il suo eremo, “ ruvida fabbrica della natura e del caso più che dell’ humano artificio”, perché consistente in due grotticelle, di cui una ridotta “ ad uso di camera e l’altra di tempio”, come nella tradizione del monachesimo calabro-greco. Quindi così il vegliardo inizia il suo discorso: “ Io ho nome Aristippo e nacqui poco lontano da queste montagnole; nel cominciar dell’adolescenza fui inviato ad Atene[…] e di là mi condussi alla corte di Melfi.Riputava il mio esilio in Melfi più fortunato del mio ritorno in Patria, ma il sommo Calife mi bandì dal suo regno con pubblico esilio […] Ma tutta la Terra agli uomini è Patria comune, come il mar’à i pesci e l’aria à gli augelli”.
Nella seconda giornata l’eremita confida ad Aristippo: “ Io nacqui in Alessandria d’Egitto e i miei genitori fin dalle fasce mi chiamarono Filadelfo[…]Come finalmente piacque alla provvidenza del Cielo, m’abbattei d’accompagnarmi con uno dei nostri Brancmani, che sono i sacerdoti della dea della sapienza. Questi in pochi dì m’insegnò l’arte del vivere felice, e mi rese capace che tutte le cose del Mondo sono semplici opinioni, con le quali noi stessi ne facciamo istrumenti delle nostre miserie o felicità […] Quest’arte non è altro che una via e compita notizia della conditione delle cose umane. Per primo fondamento di quest’arte, io ti mostrerò che tutte le cose umane non contengono d’infelice o di felice altro che, opinione, e conforme che questa s’apprende, quelle a noi paiono o misere o fortunate[…] In due maniere credono i giovani esser rimesse le felicità di lor anni, e nelle lautezze delle gran tavole o nelle dissoluzioni degli altri sensi più inferiori. Ma qual savio direbbe giammai che il ben de’ mortali fosse riposto nel ventre o alle dissolutezze veneree? Queste nel desiderarsi n’affligono, nel godersi n’opprimono, e godute ne lasciano miseri affetti di mestitia e di pentimento. Infelice felicità che non s’ardisce mai comparire alla luce del giorno, ma sempre si nasconde fra le tenebre e sozzure e vigilie in quietissime delle notti”.
Quindi, continuando il suo discorso sull’arte del vivere felice, il canuto vegliardo spiega due concetti alquanto complessi, quello del dominio degli uomini e quello della ricchezza, nei quali è evidente l’influenza filosofica di Tommaso Campanella, che poneva a fondamento della sua Città del Sole la comunione dei beni, “le scienze e onori e spassi “.
“ Le montagne quanto più si sollevano con l’eccelsa lor fronte tanto più agevolmente patiscono gli assalti di venti e la violenza di tuoni[. ] Le ricchezze, che con travagli s’accumulano, con ansietà si mantengono e non senza pericolo si posseggono, faranno mai la nostra tranquillità, quelle che per lo più per mezzo di biasimevoli usure , per mercè di pattuite ingiustizie e talvolta per spoglie di segreti o pubblici latrocini si acquistano, faranno mai la beatitudine nostra?[ ..]Ti sei avvenuto già mai in alcune di queste pitture che hanno due prospettive tra sé contrarie? Dall’un fianco per avventura faranno mostra d’una bellissima Dama, che coronata il capo delle sue bionde trecce, quasi d’aurea ghirlanda, le svolazzino su la fronte come spezzate per negligenza; e dall’altro fianco rappresentino un fiero Drago, che di brutte squame coperto spanda l’ali scagliose. Il singolar precetto dell’arte del vivere farà di guardarle sempre per quel lato che ne dilettano, non per quello che n’atterriscono e ne travagliano. Dio creò comune e in servigio di tutti quel ch’è più necessario e prezioso al vivere humano. Come questo amplissimo palagio dell’Universo che ugualmente tutti n’accoglie, come questa meravigliosa luce che sparge di sereno candidissimo il giorno e ingemma di Stelle le tenebre della notte. Comuni furono prodotti questi mari, queste selve e queste campagne[…]Un gran Maestro di savji chiamò stolta l’avidità dei mortali che non reputa suo quel che è pubblico e si possiede in comune, quasi che nei principi del Mondo fosse stato tutto il genere humano mendico. Solamente quel ch’è pubblico e indiviso vivrà senza invidie, senza emulationi e senza timori, e questo à punto è l’esser di beati che possiedono il bene in comune[. ] Dunque a te pare che un cieco non trovi nelle sue tenebre soddisfazioni uguali a quelle che dà la luce; già che la notte è madre del riposo dei mortali, dove il giorno è padre delle fatiche[…]Tu prendi per gran male la morte? E’ altro, per tua opinione la morte, che un mancamento di vita? Perché, dimmi, i fiumi non corrono dolci per tutto lo spatio che si frappone dal luogo del nascimento fin dove terminano mescolandosi con l’onde del mare? Perché la vita nostra non deve correre similmente tranquilla finché finisca in morte, nostra liberatrice di tutti i travagli e sicuro seno della Natura? La morte che mostra di accoglierci fra le tenebre del suo grembo, ne partorisce alla vita di un altro Cielo, d’un altro mondo più fortunato”.
Dopo aver affermato l’ortodossia della sua teologia della salvezza, Filadelfo , soavemente rapito in un’estasi divina, prorompe in un canto melodioso e idilliaco:
“ Oh di ché bel sereno
entro dell’alma gode,
chi degli affetti suoi siede al governo,
e ne modera il freno;
né si gonfia, ò si rode
si che mai turbi il bel tranquillo interno;
questi,se ben discerno,
fra se stesso possiede in human velo,
quasi usurpata a Dio parte di Cielo.
O che destra fortuna.
Lusinghi, ò che proterva
S’armi di nuovo orgoglio, egli con fronte
Né più chiara, né bruna,
immobil si conserva,
disprezzando ugualmente i vezzi e l’onte:
come d’eccelso monte
ne l’human’ ondeggiar mira, a sue sponde
tutte sotto à suoi pie’ frangersi l’onde,
si convolga à sua voglia
de le cose mortali
l’instabil mare, e ‘l Ciel fra membi tutto
balenando discioglia
tuoni e pioggia di mali;
ch’ei vede in spume e in luce sua ridutto
ogni lampo, ogni flutto
e se subilme sotto ciel sì puro,
che da venti, e da folgori è sicuro.
Sovra le come assiso
Di virtute altamente
I dubbij eventi del futuro attende
Con immutati viso.
Talvolta con la mente
Oltre le nubi, e oltre il sol trascende;
per li spatij si stente
de l’eterne Provincie e con la speme
già lo scettro occupandone, il previene;
e vedrò pur, un giorno,
(frà se dice) l’Aurora,
fiorir sotto a miei piè, né lunge humile
volger la Luna il corno,
e la notte aprir fuora
de le sue stelle l’immortal’Aprile.
Qual alma sia sì vile,
che tante glorie apprende e de la sorte
curi poi minaccie anzi di morte”.
La vena elegiaca si è dissolta in melodia, d’inesplorata raffinatezza stilistica e concettuale, senza i capricci e le fastosità del tempo, e può stare a fianco delle petrose campanelliane e delle liriche di Gabriello Chiabrera e di Fulvio Testi. Con buona pace dello stesso Marino.
N O T E
(1) La sua biografia è desunta, oltre che da ricerche personali sulla feudalità calabrese, da: Giovanni Fiore, “Della Calabria illustrata”, Na, 1743; Angelo Zavarrone, “Bibliotheca calabra”, Na, 1753; Luigi Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cs, 1870;L. Allacci, Apes Urbanae”, Roma, 1633; Nicola Toppi, Biblioteca napoletana”, Na, 1678; L. Nicodemi, Addizioni copiose alla Biblioteca napoletana del dottor N. Toppi, Na, 1683; F.S. Quadrio, Della storia e ella ragione d’ogni poesia, MI, 1749, Vol VI; G. Falcone, Poeti e rimatori calabrese. Notizie ed esempi, Na, 1902; L.Aliquò-Lenzi-Aliquò Taverniti, Gli scrittori calabresi, RC, 1955; Francesco Croce, Il marinismo conservatore del Preti e del Bruni, in Tre momenti del barocco letterario italiano, FI, 1966, pag. 15; P. Gauchat, Hierchia catholica.., IV, Manoasteri 1935, pp 135, 141;Enrico Malato, Storia della Letteratura italiana: cap VIII, La critica dell’età barocca; S. Foa, Di Somma Agazio”, in Dizionario Biografico degli Italiani,Vol. XL
(2) Nella contea di Simeri. Sul suo luogo di nascita molto si è discusso. Vito Capialbi, in “Biografia del Regno di Napoli”, scriveva:”Stan per Catanzaro: Toppi, l’Allacci, il Barbosa, l’Aceti e Vincenzo Amato; il Zavarroni, il Soria, il Giustiniani nol precisano. Il Fiore poi assolutamente il vuole nato in Simari nel 1591. Padre Fiore, scrittore sincrono, intrinseco amico e commentatore del nostro Monsignore fa sospettar d’averle ricavate ( le notizie) dalla bocca dell’istesso Somma”.
La controversia è stata superata nel momento in cui ho potuto verificare che nei “Relevi e Informazioni” (AS Napoli), Vol. 360, fascicolo 4, nell’anno 1659, nel fondo Calì del territorio di Simeri, risultava iscritta nella tassa di successione feudale Donna Caterina Di Somma.
(3) Il discorso sulla superiorità dell’Adone rispetto alla “Gerusalemme Liberata” di T. Tasso è contenuto nella lettera del 5 settembre 1623 indirizzata a Fabrizio Ricci
(4) Biblioteca Apostolica Vaticana (Chigi, VII, 273,cc324r-326r), Bibl. Barberini Lat. (3886,cc86r-88v), Biblioteca Borghese (184,cnn: Dell’America è a fine codice). Anche il discorso storico-erudito “Della Prefettura di Roma” è custodito manoscritto presso la Biblioteca Vaticana in due esemplari (Barb.Lat 2425 e 5194; Vat. Lat. 12934), mentre la Vita di papa Paolo V è nella Barb. Lat 4937, 4938 e 4951.
(5) Imprescindibili sono gli studi di B. Croce. Cfr U. Limentani, “La critica stilistica e il barocco letterario”, Fi, 1957; M.T. Marcialis, “La disputa sei settecentesca sugli antichi e sui moderni”, Mi,1970; F. Croce, “Tre momenti del barocco letterario italiano”, Fi, 1966; e la nutrita critica degli ultimi 30 anni
(6) Tragedie: Ester, Judit, Reina di Scozia
(7) Alessandro Tassoni, nel 1618, ne aveva dato un giudizio alquanto negativo:Cfr A. Tassoni, Lettere, a cura di P. Pugliatti, Ba 1978, I, pp.368/9; Giovan Pietro D’Alessandro, nel ms “Difesa dell’Adone” fa un’accuratissima analisi intertestuale dell’opera.Cfr inltre: Enrico Malato, “Storia della letteratura italiana, Cap VII “La critica dell’età barocca, 3. La polemica sull’Adone: Di Somma, Stigliani, Aleandri, Aprosio, Villani