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NICOLA BARBUTO, DELATORE DI SETTEMBRINI

di Marcello Barberio

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                                                                                        ipotetico ritratto di Nicola Barbuto

 

Nel 1976, la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli ha allestito una mostra di autografi e documenti relativi al primo centenario della morte di Luigi Settembrini, con un catalogo (1) ricco di testimonianze calabresi: le comunicazioni dell’Università di Napoli sul concorso per la cattedra di Retorica e poesia latina al Real Liceo di Catanzaro, il decreto di nomina del 2 novembre 1835, la prolusione del 23  novembre, una farsa scritta a Catanzaro, il rendiconto dello stesso Liceo del 1839, il provvedimento di sospensione dall’insegnamento (ai sensi del R.D. 23.3.1823, n°582).

Ora, l’occasione di un approfondimento dell’esperienza del patriota risorgimentale in terra calabrese nasce non dalla volontà di un tardivo accordo con le celebrazioni napoletane, ma più semplicemente dalla fortuita circostanza che chi scrive è stato amministratore del comune di Simeri Crichi, il paese del parroco sicofante Nicola Barbuto, “censurato” dalla memoria collettiva, come figura negativa e   inquietante.

“Gli uomini sarebbero sollevati da un gran peso di mali, ed io non sarei in carcere per opera di un infamassimo prete! Per quanto è bella e consolante l’idea di un Dio, ed una augusta religione, per tanto ella viene disprezzata ed aborrita quando ha pessimi ministri”, è scritto nelle “Ricordanze della mia vita”. Addirittura Giovanni Patari (alias Alfio Bruzio), in “Catanzaro d’altri tempi” , sulla vicenda Settembrini-Barbuto ha costruito il personaggio del falso testimone di Crichi, il delatore per antonomasia. Vediamo perché.

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                                                                                                 Luigi Settembrini

 

 Mario Themelly avverte che le figure della storia non possono essere circoscritte in un medaglione o essere imbalsamate nel pantheon delle memorie nazionali: perché acquistino interesse devono essere calate nella storia e nella realtà o – come si dice oggi – devono essere messe in situazione. In Settembrini, poi, bisogna individuare tutta una classe dirigente meridionale liberal-moderata, “nei suoi entusiasmi, nell’ansia di rinnovamento, ma anche nei limiti che essa trasmise al nuovo edificio della nazione”. Ma proseguiamo con ordine, sul filo delle “Ricordanze” e delle testimonianze della mostra napoletana.

Il 19 agosto 1835 Luigi Settembrini fu nominato professore del Liceo di Catanzaro, quando la “primavera dei popoli” bussava alle porte della storia con i moti insurrezionali, che non risparmiavano il Regno di Napoli. Le sette segrete  –  la Carboneria murattiana, la Caldareria, i Cavalieri europei riformati, i Filadelfi, i Figlioli della Giovine Italia  –  avevano raggiunto grande potenza e diffusione tra la piccola e media borghesia calabrese, pur nel quadro di una dilagante miseria popolare, d’immobilismo economico e di politica protezionistica, instaurata  dal ministro Medici. La crisi economica era diffusa in tutti gli strati sociali e alimentava un esasperato stato di tensione e una forte spinta al rinnovamento, nelle forme consolidate nelle classi sociali calabresi, cioè col brigantaggio delle popolazioni rurali e col settarismo della borghesia, del basso clero, degli ufficiali subalterni, della magistratura e della polizia.

In una relazione del Segretario dell’Intendente della Calabria Ultra è scritto che “tutto l’apparato amministrativo è settario”, per cui il governo avvertiva l’esigenza dello “spurgo dei settari” dalla pubblica amministrazione, con l’inquisizione dell’esercito, della magistratura, della polizia, delle scuole e delle curie. Il Procuratore Generale della Gran Corte Criminale di Catanzaro, Vincenzo Catalano, veniva destituito dal suo ufficio e lo stesso Collegio Italo-Albanese di S. Adriano era sottoposto ad assidua vigilanza, perché ritenuto “un covo di vipere e una fucina di diavoli”, di giacobinismo e di pensiero rivoluzionario.

Scriveva Achille de Vaulabelle (2):”I carbonari improntano ai primi anni del cristianesimo alcuni principi che costituiscono la parte segreta della loro dottrina [..] fondata sul dogma della fraternità umana, ostile a tutti i privilegi e a tutte le ineguaglianze sociali, ils voyaient dans Jésus-Christ une victime de la tyrannie, e Lo glorificano come profeta e martire della  legalità”.

Il movimento settario, mai organicamente collegato, alimentava i moti insurrezionali del regno, tra l’indifferenza delle masse rurali e cittadine, di cui non riusciva a rappresentare gli interessi né a soddisfare la sete di terra e di beni per la sopravvivenza; Claude Henry de Saint-Simon (“La conspiration pour l’égalité”) iniziava a postulare il passaggio del potere dagli “oziosi” (nobili, clero, militari) ai “produttori” (imprenditori e lavoratori).

Nel 1819, in “Memoires, documents et écrits divers”, il principe di Metternich annotava:

“L’Italie est parfaitmente tranquille, dans les pays de Naples en particulier [..] L’Italie est une éspression géographyque [..] et l’Italien crie beaucoup, mais il n’agit pas”. Eppure, l’anno successivo, appariva nel Regno di Napoli lo “spettro della rivolta” e il popolo ignorante e superstizioso diventava inattesa avanguardia rivoluzionaria europea. La Calabria, che non aveva dato ascolto a Murat, decideva di rivoltarsi contro il dispotismo, con i suoi uomini colti, con le milizie provinciali e col basso clero, ma senza le masse asservite.

Le “vendite carbonare” contavano nel Regno oltre 60.000 adepti e la febbre d’azione faceva diversi proseliti, infiammando gli animi dei giacobini di furore politico, civile e morale, seppur in una confusa commistione d’insurrezionalismo, di cristianesimo sociale e di socialismo nascente.

A gennaio del 1820 i liberali spagnoli costringevano Ferdinando VII a ripristinare la Costituzione del 1812 e subito dopo, nel Regno delle Due Sicilie l’insurrezione capeggiata dal calabrese  Guglielmo Pepe imponeva a Ferdinando I un’ analoga Costituzione: il fuoco delle rivendicazioni si estendeva in Portogallo, in Piemonte, in Lombardia, ma con finalità diverse. (3)

Il 1821 rappresentò il momento culminante del ciclo rivoluzionario europeo, con moti “distanti nel tempo e nello spazio, che sopravvissero negli animi e non nelle cose, nel ricordo e nell’esempio, non nelle forme concrete, a chiusura del 1789 […] l’elemento liberale e nazionale si rivoltò contro la Restaurazione e la Santa Alleanza” (4)

Fallivano, però, i moti del ’20-‘21 di Morelli, Salvati e Menichini a Nola e di Raffaele Poerio a Catanzaro e a Cosenza e poi quelli di Pisacane, dei fratelli Bandiera e del ’48, mentre i contadini del Crotonese, di Albi, di Simeri, di Crichi, di Taverna e di Carlopoli riprendevano le invasioni delle terre ex demaniali usurpate (5)

La regione contava 792.601 abitanti (350.186 nella Citeriore e 442.415 nella Ulteriore: 148.000 erano possidenti, 6.300 impiegati e addetti alle arti liberali, 4.719 preti, 701 frati, 609 monache, 356.000 campagnoli, 33.000 artigiani e domestici, 18.000 mendichi, di cui 14.263 femmine). (6)

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          Benedetto Musolino

 

Questa complessa realtà incontrò Settembrini in Calabria e  – dal momento che non sapeva starsene “cheto” tra gli oppressi né mettersi dalla parte degli oppressori e “rimanermi inerte mi pareva codardia”  –  aderì alla setta dei “Figlioli della Giovane Italia”, fondata nel 1832 da Benedetto Musolino di Pizzo, il più fervente intellettuale radicale della Calabria di quel tempo, quando in Europa nascevano la Carboneria, la Massoneria, l’Adelfia, l’Eteria, la Società dei Sublimi Maestri Perfetti. Gli affiliati erano borghesi liberali, intellettuali e militari riformisti, uniti dal desiderio di abbattere  l’assolutismo regio, ma con scarsi collegamenti con le masse popolari, di cui teorizzavano astrattamente il consenso e la partecipazione alle insurrezioni armate.

 

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E’ scritto nelle “Ricordanze della mia vita”:

“Nei paesi liberi ci sono le parti, le quali sono pubbliche. Nei paesi servi ci sono le sette, che sono segrete [..] e sono una necessità della servitù. Lo scopo era nientemeno che cacciare d’Italia non pure tutti i principi, e gli Austriaci e il Papa, ma i Francesi di Corsica e gli Inglesi di Malta, e formare una gran repubblica militare. Capo supremo, un dittatore sedente in Roma; dieci consoli a governare le dieci regioni in cui si dividerà l’Italia: ogni provincia comandata da un colonnello, ogni municipio da un capitano [..] Il giuramento era di fiere parole, e doveva farsi sopra un teschio bianco e la scritta: unità, libertà, indipendenza”.

Sull’organizzazione dei Figlioli della Giovane Italia ebbe un’influenza assai marginale la “Giovine Italia” di Mazzini, il quale rifiutava la concezione materialista, il socialismo egualitario, il militarismo illuminato e l’anarchismo ante litteram del giacobino di Pizzo, come è stato evidenziato in “Benedetto Musolino: il Mezzogiorno nel Risorgimento tra rivoluzione e utopia” (7)

  

Catechismo d’Apprendista Carbonaro-Mio B C… di dove venite? – Dalla mia Foresta. Dove siete stato ricevuto’? – Su di un pannolino bianco in B(aracca) d’Ord(ine) regolare. Fosti obbligato a de’ viaggi? – Signorsì.  Ne ho fatto tre; uno per la rovinosa Foresta; il secondo pel fuoco, e il terzo sul pugnale. Datemi le parole?    – Un pannolino bianco, l’Acqua, il Fuoco, il Sale, le Legna,  le Foglie.  

 

“Ma è questa la Giovine Italia di Mazzini”, chiedeva Settembrini a Musolino, che categoricamente   rispondeva: “No: io le ho dato quel nome già conosciuto perché se gliene avessi dato un altro, e detto che la fondavo io, chi l’avrebbe accettata?”

Anche la “Giovine Europa” mazziniana era orientata verso i risorgimenti nazionali, ancor più della “Junges Deutschland”, della “Mloda Polska” e della “Jeune Suisse”, e le polemiche ideologiche non risparmiarono neanche la “Giovane Ucraina”, la “Giovane Boemia” e la “Giovane Tirolo”.

Ma torniamo alla vicenda del parroco Barbuto, confidente della polizia e infiltrato nella setta carbonara, che a Crichi aveva sede (baracca d’ordine) nel palazzo Mirante.(8)

“Così passarono gli anni 1837 e 1838. Ma tosto ci fu un traditore.  Un prete mio amico G.L. (il canonico Gaetano Larussa, ndr) volle che io conoscessi il parroco di un paesello chiamato Crichi, col quale ei mi disse che s’erano allevati insieme in seminario, e che era liberale e bravo, e si chiamava Nicola Barbuto. Quando io vidi questo parroco Barbuto sentii certa ripugnanza, ch’egli era brutto e nero come un topo, e aveva il labbro leporino: pure io l’accolsi e gli feci dare un Catechismo (dei Figlioli della Giovine Italia, ndr). Io gli diedi una lettera  per Raffaele Anastasio, farmacista in Cosenza, e una pel Musolino di Napoli. Poi che il parroco fu partito sapemmo che egli aveva parlato più volte con l’Intendente, e io cominciai a sospettare[..] Il reverendo parroco aveva accusato me solo, temendo del prete che era suo paesano e poteva fare col tempo una vendetta calabrese”.

La notte tra l’8 e il 9 agosto1839 la polizia arrestava Settembrini, i fratelli Pasquale e Benedetto Musolino, un loro servitore e quattro studenti che si trovavano in casa loro. Nella “prigione dei ladri e dei rei di stato” di Santa Maria Apparente, il commissario inquisitore mise a confronto Settembrini col suo accusatore.

“Sul Barbuto, l’istruttore ebbe a Catanzaro le più fosche informazioni, anche dal vescovo, che lo diceva indegno sacerdote e sospeso a divinis; ed altri lo accusarono di brutte infamie, che non voglio ripetere, e chiunque fu dimandato di lui, lo dipinse come un ribaldo [..] Quando si fu chiarito denunziante, ognuno gli calò la mano addosso. Per non tornare più su di lui, dirò sin da ora che egli, sopraffatto dal pubblico disprezzo e dallo sdegno anche della sua famiglia, ammalò e morì poco dopo che fu fatta la causa” (“Ricordanze della mia vita”, Il Giudizio)

In effetti fu la vendetta della borghesia carbonara a raggiungere il prete delatore, il quale –   secondo una locale tradizione orale  –  morì a seguito della “visita” del Protomedico di Catanzaro, chiamato a Crichi per “curarlo”.

Nel Liber Mortuorum della parrocchia non è registrata la morte del parroco, perché una mano pietosa e “patriottica” ha ritenuto di dover in ogni modo cancellare l’onta del paese, anche con l’occultamento e la manipolazione del registro.

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   Liber Mortuorum Crichi

 

Di Nicola Barbuto sappiamo che era nato a Crichi il 25 dicembre del 1803 da Domenico e da Diana Lopez (9), ma s’ignorano le ragioni che lo spinsero alla delazione, nonostante le certezze di Settembrini: “Non timore di Dio, né fedeltà al principe, ma il desiderio di farsi ricco e potente spinse quest’uomo, che vedendo come la grazia di Dio gli fruttava poco, volle la grazia del governo”. Ma perché timore di  Dio e fedeltà al principe? O non piuttosto l’esonero di suo nipote Francesco dalla lunga leva militare? (10)

L’ala moderata della Carboneria cospiratrice del Regno di Napoli temeva lo sconvolgimento dello stato sociale e dei rapporti di classe e perciò accusava i “radicali fochisti” di voler instaurare il socialismo con la violenza, dal momento che  – come anticipato  – il giuramento dei Figlioli della Giovane Italia prevedeva esplicitamente l’abolizione di ogni forma di proprietà e di religione.

Scriveva, infatti, Musolino, in aperta e aspra polemica con Mazzini: “Il profeta di Bisagno, ostinandosi a ritenere la causa politica come inseparabile dalla religiosa, si espone a delle alternative poco favorevoli al suo ingegno come alla sua morale […] Non avendo potuto Mazzini guadagnare al suo partito i membri del Comitato Latino, li fece denunziare al Governo, non solo svelandoli come membri del Comitato Latino, ma accusandoli ancora come cospiratori contro la sicurezza dello Stato, in appoggio della quale ultima assertiva, faceva citare concerti immaginari e fatti calunniosi” (11).

 

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Sigillo di vendita carbonara

 

Insomma, per Musolino il Genovese era semplicemente “un uomo nullo, intruso, usurpatore, giudeo errante della speculatrice democrazia del XIX secolo, un eccellente capo di scherani”. Ma, allora, la delazione era un normale e abituale strumento di lotta e di supremazia anche nel complesso mondo della cospirazione e del settarismo?

Musolino tentò di demolire l’immagine di Mazzini e altrettanto fece il moderato Settembrini non solo con Barbuto, ma anche con gli adepti “fochisti” della stessa setta carbonara dei “Figlioli della Giovane Italia”, portatori di idee politiche diverse dalle sue. Non esitò a definire Domenico Mauro “scrittore di rabbuffate poesie e di versi ventosi, tutto orgoglio e vanti e minacce”. Nel panorama insurrezionale ottocentesco, Mauro rappresentava idee politiche fortemente orientate a sinistra, per impegno sociale e fede repubblicana, focalizzati sui bisogni dei contadini poveri e sul diritto “comune” alla terra. (12)

Il “tradimento” di Mazzini nei confronti dei membri del Comitato Latino, quello di Baracco contro i fratelli Bandiera e quello di Barbuto ci rimandano alle radici delle cause che trasformarono la primavera italica ed europea in fallimento militare e fanno riflettere sulla dialettica interna alle associazioni segrete del periodo risorgimentale. Quando, invece, arrivò Garibaldi, i contadini si mobilitarono fiduciosi, ma con l’unità d’Italia la questione meridionale e delle masse popolari assunse i connotati della sconfitta. Capitolò anche il movimento anarchico di Musolino, tanto che, nel suo programma politico del ’60, divenne esplicito l’appello ai Comuni a rispettare “religiosamente” le leggi e la proprietà privata, “cumulabile, trasmissibile, ereditaria”: ogni riforma sociale doveva mirare a un più equo rapporto tra proprietari e contadini, poiché ogni cittadino ha diritto a un’esistenza dignitosa e all’indipendenza dal bisogno materiale. Consolidata l’alleanza tra borghesia illuminata ed agrari “galantuomini”, i contadini continuarono a muoversi solo “per ragioni immediate e contingenti […] dal momento che nessuno ha insegnato loro un indirizzo politico diverso da quello localistico e ristretto”. Nicola Barbuto era un uomo del popolo, con i limiti e le debolezze del suo ceto: il ricordo dell’eccidio (13) del 1809, la sua condizione sociale, il suo ufficio religioso, la coscienza di contadino e di parroco di un paese poverissimo segnarono fortemente la sua personalità.

In seminario si era formato sulle encicliche di Pio VI “Inscrutabile divinae sapientiae” e di Clemente XIII “Christiana reipubblicae salus” (1766), dove il secolo dei “Lumi” era visto come un portato apocalittico del diavolo e la rivoluzione era un castigo di Dio e un monito per scongiurare future punizioni. Anche nell’enciclica di Gregorio XVI “Mirari vos” del 1832 la libertà civile, politica e religiosa restava incompatibile con la dottrina cristiana, che propugnava l’intesa e l’alleanza del trono con l’altare, per evitare ogni forma di sovversione al vivere sociale. Verosimilmente negli incontri col canonico Larussa e con l’intellettualità catanzarese ebbe modo di conoscere le idee di Filippo Buonarroti, autore nel 1828 di “Cospirazione per l’uguaglianza detta di Babeuf” e probabilmente s’imbatté in qualche libello “neobabouvista” del cattolico liberale Louis- Marie de Cormenin (14), che indicavano una società cosmopolita, ben oltre la disputa nazionalistica.

Nel 1832, A. Rosmini, con “Delle cinque piaghe della chiesa”, proponeva l’elezione del vescovo ad opera del clero e del popolo e l’abbandono del rapporto privilegiato con le autorità civili.

Vincenzo Villella, in un recente studio pubblicato su “La Provincia di Catanzaro” (anno V, n°2, pag 77) ha scritto che dallo schedario del vescovo di Nicastro del 1834, risulta che su 316 preti, oltre 50 erano affiliati alla Carboneria: “dopo la promulgazione della bolla “Ecclesiam” del 1821, il vescovo Gabriele Papa ordinò ai preti di fare l’abiura”. E quasi tutti ubbidirono, per scelta ideale o per convenienza.

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                  Crichi

 

Dalle carte dell’Intendenza del periodo francese (15) risulta che Crichi contava 783 abitanti (2 preti,80 agricoltori, 5 artigiani, 2 briganti…) e “la popolazione vive miseramente in debito da un anno all’altro […] pel sostentamento quotidiano fanno uso del granone, il poco grano che raccolgono dovendolo dare a coloro che esigono gli affitti e per la soddisfazione de’ debiti che

contraggono l’inverno”. Nicola Barbuto conosceva le condizioni di miseria della sua gente ed era egli stesso povero, in una regione che pativa ancora gli effetti dei terremoti del 1835-36, del colera, della malaria e della vessazione baronale.

Il suo impulso patriottico (!?) lo aveva spinto ad aderire alla setta di Musolino, “presentato” dal canonico catanzarese Gaetano Larussa, che lo conosceva sin dal tempo del seminario. Il suo tradimento maturò nella coscienza di un uomo combattuto tra gli ideali di libertà e di riscatto sociale e individuale e il timore dello sconvolgimento dell’ordine costituito e della stessa religione, che il catechismo della setta considerava un semplice strumento di dominio dei ceti dominanti.

Non fu certo un eroe, ma merita le attenuanti generiche della storia, anche di quella scritta dai suoi nemici e dalle sue vittime, poiché fu egli stesso vittima di un sistema ingiusto e della causa politica e ideale dei fautori degli interessi dell’élite del censo e della cultura.

Il ribellismo atavico e ricorrente e l’anelito di libertà  –  vissuti in termini di mito, di orgoglio naturale “romantico” e come supporto patriottico  –  assunsero le connotazioni di disvalore nella coscienza del Barbuto, quando si rese conto che gli obiettivi politici di Musolino erano carichi di significati diversi e distanti da quelli che lo avevano indotto ad aderire alla setta carbonara.

In seguito, galantuomini e intellettuali non disdegnarono il ruolo di cinghia di trasmissione  del consenso sociale e dell’omologazione civile ed economica.

Nicola Barbuto si sentiva tradito dai Figlioli della Giovane Italia, dal loro ateismo e dal socialismo anarchico-rivoluzionario. Negli occhi di Settembrini e di sua moglie forse aveva scrutato tutta la diffidenza e il disprezzo verso i campagnoli; questi, però, quando nel 1848  – dopo il fallimento delle spedizioni di Pisacane e dei fratelli Bandiera – ripresero l’occupazione delle terre usurpate, non condannarono il tradimento del prete, perché forse lo sentivano vicino a loro e distante dai loro avversari. Settembrini non poteva capire. Ma non si può invocare la nemesi per spiegare le ragioni della sconfitta di un uomo dell’”ultima plebe” e dei muti della storia.

Tuttavia pigramente persiste lo stereotipo del prete-traditore, anche nella gogna mediatica e in salsa vernacolare:

Cantàu aprendu a gargia traditura,

ca Settembrini fu cospiratura;

tradìu u cora e st’omu d’intellettu,

facendulu arrestara  di nto lettu.

 

Cantàu ccu l’Intendenza da finanza

 

jettatu nta na cellla e na galera”.(16)

 

N O T E

(1) “Quaderno” a cura di S. Guardati, M. Romano, G. Marcello, A. Garofalo e prefazione di A. Guarino

(2) “Chute de l’Empire- Histoires des deux restaurations jusqu’à la chute de Charles X”, Vol V, pag 30.

(3) Piemontesi e Lombardi volevano affrancarsi dagli Austriaci, i Napoletani volevano la Costituzione, i Siciliani miravano all’indipendenza dai Borboni, mentre Benedetto Musolino proponeva l’abolizione della proprietà privata e della religione. A Napoli, nel ’20, erano presenti anche i carbonari di Crichi Giuseppe e Antonio De Fazio e i selliesi Domenico Pontieri e Raffaele Lostumbo; alla “baracca” di Simeri erano associati Gaetano Nania, Domenico Tiriolo e il sacerdote Rosario Benincasa

(4) Franco Venturi, Storia d’Italia, Ed. Einaudi, Vol. III, pag 1223

(5) A.Basile,”Moti contadini in Calabria dal 1848 al 1870”, ASCL, anno XX, 1958, fasc. I-II, pag. 83.

(6) Arch.St. Napoli, Interno, I, f. 96/3, in “Calabria Napoleonica” di Umberto Caldora

(7) Convegno di Pizzo del novembre 1985.

(8) I Mirante (Al-Mirante, in spagnolo “ammiraglio”) erano collegati con le omonime famiglie di Sellia e di Serrastretta, con i De Fazio di entrambi i paesi, con i giornali “Risorgimento di Nicastro” e “Gazzetta Brezia” e con le “baracche carbonare” di Soveria Simeri, Sellia, Taverna, Magisano, Zagarise e Pentone. Nel Museo Nazionale dell’arte sanitaria di Roma è custodito uno storico cimelio: un mortaio in bronzo da farmacista, utilizzato a mo’ di campana nei riti segreti della setta dei “Figlioli della Giovane Italia” di Monteleone (ora Vibo Valentia).

(9) Cfr. Arch.St. CZ, Intendenza, Simeri Crichi, Lista di Leva militare del 1824/5: Nicola Barbuto risulta tra i coscritti di Crichi (distinti da quelli di Simeri), col n° 65, “seminarista in Catanzaro”. La madre (Diana Lopez, figlia di Aloisio e di Angela Amelio: morì a Crichi, all’età di 36 anni, il 5 dicembre 1816) aveva già un figlio (Tommaso, nato il  25.4.1803, da padre ignoto, registrato nella Lista di leva di Crichi al n. 93). A sua volta, Domenico Barbuto era figlio di Nicola (di Saverio e Annunziata Terzo), morto a Crichi l’11.3.1808, all’età di 85 anni, come dal Liber Mortuorum parrocchiale. Il prof Marcello Giovene (“Simeri e i suoi casali”, pag 133) riferisce una confidenza del compianto canonico Antonio Scalise (Crichi 1877-1963), secondo la quale al parroco Barbuto sarebbe stata affidata la parrocchia di San Fantino della Grecìa di Simeri;  sarebbe stato presentato a Settembrini dal professore Giuseppe Lice, suo compaesano e docente di filosofia allo stesso liceo. Secondo tale “confidenza”, le iniziali G.L. delle “Ricordanze” potrebbero corrispondere a Giuseppe Lice e non a Gaetano Larussa, come invece in tutte le edizioni dell’opera di Settembrini. N. Barbuto era nato alla “Petragarilla” di Crichi, dalla famiglia soprannominata “I cozzati”.

(10) Così nella “trasmissione orale”, oramai affievolita e  socialmente quasi ignorata o rimossa; così anche nelle confidenze del parroco A. Scalise, riportate da Giovene

(11) Atti del convegno di Pizzo, novembre 1985

(12) Cfr: Benedetto Musolino (“La rivoluzione del 1848”), Carlo Pisacane (“Guerra civile in Italia nel 1848-49”), Luigi Settembrini (“Opuscoli politici editi e inediti”), D. De Giorgio (“Benedetto Musolino e il Risorgimento in Calabria”), A. Pagano (“Il Calabrese, foglio politico progressista avanzato”). Sia Mauro che Musolino parteciparono alla spedizione di Garibaldi del 1860, assieme a Raffaele Mauro, al generale Francesco Stocco, ad Antonio Plutino, ad Alessandro Toja, a Luigi Miceli, ad Alfio Merlino e ad altri calabresi.

(13) Pietro Colletta, “Storia del Reame di Napoli” e “Monitore Napoletano” del 12 luglio 1809, in BN Napoli.

(14) Raccolti a Parigi in “Pamphlet sur l’indépenence de l’Italie”.

(15) Arch.St. Catanzaro, Intendenza, Amministrazione, Simeri Crichi, Cartella 1061, fascicolo “Risposta alli quesiti in stampa”. I 2 preti erano il parroco Francesco Mantia e il cappellano Giuseppe Lostumbo, succeduti a Lorenzo Mirante (deceduto nel 1793  e sepolto nella chiesa parrocchiale).

(16)  Sul Web: “My Catanzaro”, versi di Mimmo Badolato, che, però, sembra confondere (intenzionalmente o meno) l’Intendente (già Preside della Provincia e ancor prima Giustiziere) con l’Intendenza di Finanza.

Enea sul Simeri

Articolo tratto da “La Gazzetta del Sud”

 

 

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