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PERSISTENZA DELLA MAGIA RURALE IN UN’AREA DEL CATANZARESE

di  Marcello Barberio

 

“Se ti coglie la pioggia, evita di ripararti sotto un albero di noce e di attraversare i crocicchi, perché là si radunano le streghe con le anime erranti dei morti ammazzati, trasvolando nel vento con le sembianze di uccelli dal corpo di serpente, pronti a succhiare il sangue dei bambini” (1), raccomandava mia nonna, custode inconsapevole di un’antica cultura, che affonda le radici nelle prime civiltà mediterranee e nel culto di Ecate, la dea greca della fertilità dei campi.

Il mitema della strega non mi era per nulla chiaro a quell’età, perché non riuscivo a concepire la coesistenza nella stessa persona dell’alleata del diavolo dagli oscuri poteri, della guaritrice popolare e della vestale dei filtri d’amore e degli incantesimi perversi. Immaginavo la strega bellissima e ambigua, con i capelli attorti di piccoli serpenti velenosi e con gli occhi luciferini, officiando così nella mia fantasia il mito dei culti estatici della civiltà sciamanica e delle pratiche dionisiache, a caratterizzazione femminile, matristica, eversiva e destabilizzante. Solo nel XV secolo, nei processi della Santa Inquisizione, scompariva il riferimento al retaggio dell’estasi e si affermava la connotazione diabolica della magia, codificata nel Malleus Maleficarum o Martello delle streghe.

Il computo delle esecuzioni capitali per stregoneria e apostasia al diavolo è stato stimato, per difetto, intorno ai “60.000 roghi”, eseguiti nelle piazze europee e delle colonie (2): la prima condanna fu eseguita a Tolosa, nel 1275, mentre una delle ultime fu quella eclatante di Anna Goldi, la stria decapitata in Svizzera nel 1782.(3)

Attualmente, ogni 4 anni, il Museo Etnografico e della Stregoneria di Triora (Imperia) organizza un convegno nazionale, per ricordare le 15 streghe condannate a morte nel 1855 e per ribadire il diritto all’autodeterminazione delle donne, le quali, in provincia di Ancona, in occasione di Halloween, celebrano la festa delle streghe come un carnevale d’autunno, procedendo goliardicamente all’elezione di Miss Strega III Millennio e offrendo “pane e baci delle streghe” .

 Intellettuali e femministe del pensiero della differenza sessuale propongono ai visitatori la lezione di Ernesto De Martino sulla magia come tentativo di soluzione della crisi nella presenza in contesti agricoli pre-industriali;  qualcun altro, confortato dalla “Teoria generale della magia” di Mauss e Hubert, azzarda una comparazione con le società più complesse, dove la commistione di fenomeni  magici ed esoterici smentirebbe l’ipotesi dell’eclissi del sacro, a favore di una nuova “fame di magia”, proiettata sul futuro, in una sfera a-razionale.

 

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                    Torture dell’Inquisizione

Per troppo tempo il corpo femminile è stato descritto nei trattati di medicina come incompiuto e difettoso rispetto allo standard maschile, perché pericolosamente dominato da una “fiera selvatica, misteriosa e irascibile, contaminata e avvelenata dal sangue mestruale, secondo un tabù che è anche lo stereotipo dominante di diverse società chiuse, dove la condizione delle donne resta precaria e vulnerabile, come quella delle magare di un tempo, che tentavano di uscire dal “cerchio dell’immanenza” del disordine sociale e privato.

Dalle fonti inquisitoriali si evince che alla stessa costruzione culturale e allo stesso ordine simbolico popolare vanno iscritti i cosiddetti benandanti del Friuli e le nostre “fimmini ‘e fhora”, una sorta di contro-stregoni e di fate benefiche con i piedi da gatto o da cavallo, che nottetempo entrano nelle case e nelle cascine, cantando e ballando, per curare i malefìci e difendere le bestie e i raccolti dei campi. (4)

L’ultima donna calabrese accusata di stregoneria fu Cecilia Faragò (sposata a Soveria Simeri col massaro Lorenzo Gareri), che nel mese di marzo del 1770 evitò la condanna dalla Gran Corte della Vicarìa di Napoli, grazie all’appassionata difesa del giovane avvocato catanzarese Giuseppe Raffaelli, il quale riuscì a convincere il ministro Bernardo Tanucci e re Ferdinando IV a far trasferire le nuove acquisizioni culturali sul piano normativo e giudiziario, rendendo obbligatoria la motivazione delle sentenze, “poiché i giudici sono esecutori delle leggi e non attori”.

La donna era accusata da due prelati di Soveria Simeri (don Domenico Vecchitti e don Francesco Biamonte) di aver provocato con la malìa la morte del canonico don Antonio Ferrajolo: era stata assolta dalla Regia Udienza Provinciale di Catanzaro, ma temeva di perdere fraudolentemente il suo pingue patrimonio (5), avendo stipulato un albaranus, col quale destinava l’eredità Gareri alla chiesa locale, “in perpetuum et mundo durante”.

Nonostante avesse un figlio (Sebastiano) monaco francescano, la Faragò era accusata di sortilegi e raggiri, attuati attraverso strane pozioni fornite da una donna di malavita di Catanzaro o da un viperaio (sampaularu) del luogo, ed era sospettata di ricettività paranormale e di contatti con l’ignoto attraverso il connubio col demonio. Il Regio Commissario catanzarese D’Elia aveva fatto sequestrare dalla sua casa rurale diversi corpi di reato: l’erba savina (dagli effetti abortivi), la salfa solutiva (purgativa, quasi quanto l’acqua della Salinella di Sellia), l’altea, il nasturzio, minerali vari, unguenti, incenso e ossa.

Di lei hanno scritto Serena Marcantonio (“Una strega fuori tempo: il caso di Cecilia Faragò”)(6) e Mario Casaburi (“La fattucchiera Cecilia Faragò. L’ultimo processo di stregoneria e l’appassionata difensiva di Giuseppe Raffaelli” (7)

Verosimilmente Pietro Smorto (8) e altri antropologi hanno attinto al suo processo per descrivere la fattura d’amore per antonomasia: polvere di ossicino di paganella (bimba morta e sepolta senza il battesimo) da mescolare nei cibi, pronunciando parole magiche, camuffate da giaculatorie devozionali. In difetto d’ossa e per legature più blande, si poteva ricorrere al mestruo nel vino o nel caffè o nei fichi secchi, alla lucertola a due code tappata in una canna, alla serpe nella giacca, agli infusi, ai confetti nascosti per 3 giorni sotto la tovaglia dell’altare, all’acqua muta, attinta alla fontana pubblica la notte magica di Natale, senza farsi riconoscere. La Faragò, come le atre magare e gli antichi stregoni-contadini, sapeva che la radica di lupo (aconito napello) era talmente velenosa da provocare la morte degli uomini e delle bestie (9), che l’olio dei cacciadiavoli o erba di San Lorenzo cicatrizza le ferite, che il decotto di malva è un efficace antinfiammatorio, che l’infuso di borragine, ginepro, ortica e lavanda cura le malattie respiratorie (10) e che la belladonna è un potente sedativo.

Intanto il secolo dei Lumi irrompeva nella storia e reclamava il superamento della concezione superstiziosa della stregoneria diabolica, anche se molte credenze e pratiche magiche continuavano a permeare la quotidianità delle masse popolari di diversi Stati extraeuropei e delle aree depresse del nostro Meridione, come quella della presente ricerca, colpita dalla grave carestia del 1764, dalla malaria cronica, dalla mortalità infantile, dalla violenza endemica.(11)

Questi, in sintesi, i risultati –  resi metodologicamente in termini solo descrittivi  –    in una realtà sommersa e frammentaria, ancorché attraversata  da mutamenti epocali senza precedenti.

Convinto che la profondità storica della vicenda di Cecilia dovrebbe consentire ancora la conservazione nella memoria collettiva dei relativi temi folklorici, ho avviato la ricerca proprio a Zagarise e a Soveria Simeri, dove, però, il campione intervistato si è dimostrato poco interessato e scarsamente disponibile. I più hanno inteso rispondere solo alle domande generiche sui fenomeni paranormali, fornendo comunque testimonianze singolari su esperienze di percezioni extrasensoriali, di chiaroveggenza e di precognizione.

Per certo, è risultato chiaro che massaro Gareri era un benestante del paese, non tanto per via dei terreni posseduti, quanto per i 10 paricchi di buoi, con i quali gli uomini della famiglia  patriarcale “andavano a giornata”, a favore soprattutto della corte feudale di Simeri e dei numerosi ordini religiosi della zona. Avevo così conferma che la memoria non è la semplice registrazione del passato, ma una costruzione culturale, un processo selettivo di ricordo e oblio, di omissioni, di confusione, di aggiunte, di alterazioni, di contrasto e di controllo, che  –  particolarmente nelle collettività statiche  –  possono portare alla perdita della memoria stessa o alla  musealizzazione degli accadimenti e della stessa iconografia degli elementi magici costanti. A Soveria, qualche anno addietro, l’Amministrazione comunale ha intitolato la villetta pubblica proprio a Cecilia Faragò, per avere una specie di “segna-memoria”, un sito per ricordare una figura femminile controversa e mitizzata e, con essa, l’olocausto delle donne di tutti i tempi e di tutte le latitudini. L’uso di andare a giornata ha riguardato soprattutto gli artigiani, in particolare sarti e calzolai, fino a una quarantina d’anni fa, praticamente fino all’esplosione del boom economico. Superficiali sono state le risposte sul malocchio e sugli scongiuri, le cui pratiche sono notoriamente persistenti nell’intera regione. Una testimonianza dotta ha irriso alla farmacopea popolare e ha preteso di propinarmi la ricetta dell’incantesimo del V libro degli Epodi di Orazio; lo stesso referente ha voluto sottolineare la non sovrapponibilità della storia della stregoneria con le persecuzioni della Santa Inquisizione, dal momento che per lungo tempo l’atteggiamento dei Padri della Chiesa è stato di riprovazione e di sanzione morale, ma non giudiziaria: la “svolta penale” si sarebbe verificata con la connessione della stregoneria con l’eresia. Comunque sia, il reato di stregoneria fu abolito dal codice penale napoletano alla fine del XVIII secolo, non già a seguito dell’appassionata arringa dell’avvocato Giuseppe Raffaelli, ma per ragioni politiche assai più complesse. Infatti, nel 1768 i Borboni avevano già espulso dalle loro terre ben 600.000 Gesuiti, avevano abolito la decima e la manomorta, negato l’omaggio della chinea (12)  e creato la R. Giunta di Giurisdizione, col compito di affermare la supremazia del potere statale sul clero locale e sulla Santa Sede, i cui rapporti erano regolati dagli istituti del placet e dell’ exequatur.

Insomma, l’Illuminismo si era riverberato anche sul caotico sistema legislativo napoletano e Cecilia poteva beneficiare di un concorso di circostanze, tese tutte ad affermare il primato del potere temporale. La Calabria Ultra era la regione più povera del Regno di Napoli e la sua economia era basata essenzialmente sull’agricoltura e sulla pastorizia, oltre che su forme residuali di manifattura, come quella della seta e della lana. Gli uomini vestivano di pilusedda (orbace), calzavano i cioci e portavano il tipico cappello a cono.

Il numero degli ecclesiastici era esorbitante e rappresentava una concentrazione patrimoniale grandiosa, addirittura più cospicua di quella feudale. Ha calcolato M. Schipa (“Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone”) che i religiosi secolari e claustrali possedevano 1/3 di tutta la ricchezza nazionale; vi era un frate ogni 167 abitanti, una monaca ogni 208 e un prete ogni 92 abitanti, per un totale di 75.000 ecclesiastici su 3 milioni di abitanti. Il clero secolare era dedito alle professioni più lucrose e sovente era causa di disordini sociali, di tumulti e di sedizioni; nei monasteri femminili, molte monache erano “sepolte” dall’avarizia familiare e dall’egoismo di conservare nel maggiorascato le ricchezze avite.

In diverse Cartelle della Segreteria Pagana della Cassa Sacra (AS.CZ) sono conservati gli atti relativi ai monasteri calabresi, nei quali troppi frati ignoranti avevano perso il senso della loro vocazione. Così nella Cart. XVI (Fasc. 305/1782 contro i padri della Certosa di S. Stefano del Bosco; Fasc. 307 relativo agli attentati nel convento dei Domenicani di Nicastro) e nelle Cartelle XXI (Fasc. 433/1785 contro le occultazioni delle rendite della Chiesa Parrocchiale di Vincolise di Taverna) e  XXIV (Fasc. 526/1786 sulla controversia dell’esazione delle tasse a Sersale e Fasc. 522/1786 per il notamento dei Corpi Demaniali di Zagarise).

La Cart.66 (fasc.1511/1787) contiene gli “Atti di diligenza praticate a istanza del sindaco di Simeri, Fiore Longo, e dall’eletto Vincenzo Riccio di Soveria, per frodi e altro commessi in danno dell’Università e particolari dal notaio Vincenzo Pettinato”, il quale “aveva fatto formare una tassa contro l’ordine dell’Avvocato Fiscale della Giunta della Cassa Sacra, si era impossessato di 28 ducati, si era intromesso in affari di giustizia e ordinato di propria autorità carcerazioni e scarcerazioni”. Da parte sua il notaio, “prostrato ai piedi di S.E. La prega , non potendo più soffrire le calunnie per mezzo di denuncia con falsi testimoni, […] di conoscere la verità e poi procedere al castigo del calunnioso ricorso fatto dal Riccio”.

Informazioni ancora più dettagliate è possibile ricavare dalla Cart. IV (Fasc. 102/1787, Catanzaro e suo Riparto: Istruzioni e Rescritti del Vicario Generale Pignatelli e Reali Dispacci sui bisogni delle Università): erano tassati 33 testatici a Simeri, 172 a Crichi e 178 a Soveria .

E’ da precisare che, in talune realtà  –  anche nello Stato feudale di Simeri, Soveria e Crichi, ma soprattutto nel  vicino Marchesato –  i religiosi senza comunità erano ridotti in povertà ed erano costretti ad esercitare “arti meccaniche e vili” , vivendo “stentatamente per occasione della mancanza di legati […] Si presentano nelle case delle persone pie e ricordando lo stato infelice in cui si trovano, impietosiscono il cuore di queste persone che gli somministrano qualche cosa per celebrare messa o per carità”(Cassa Sacra – Seg. Pag-   Cart.50, Fasc.1100 del 1790).

  

L’ospedaletto di San Giacomo della Grecìa di Simeri era adibito ad asilo di mendicità, ma veniva utilizzato anche come stabilimento per la custodia coatta dei mentecatti (quando i folli non restavano segregati in casa o non erano abbandonati in qualche masseria della zona).In prossimità del carcere, donne della fibbia gestivano la taverna dell’approdo finale dei parenti dei detenuti: al vespro la cantante intonava cana scelleratu, nelle cui strofe celava messaggi gnermicu.

In tale situazione, Cecilia Faragò   –   donna tenace, irregolare e straordinaria come l’archetipo popolare del brigante, del santo e della magara  –   “confessa et sacri oli roborata, reddidit anima Deo in domo Crisafi”(13) di Soveria, il 17 dicembre 1785, una settimana prima della notte magica  che segue il solstizio d’inverno, ma dopo aver costretto lo stesso avvocato Raffaelli a rivolgersi alla Gran Corte della Vicaria di Napoli per vedersi liquidare l’onorario professionale relativo alla causa di 15 anni prima. Altro che pulzella di Calabria!

 Risultati della ricerca

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 A Crichi e a Sellia ho potuto verificare – non senza meraviglia –  la persistenza della credenza del lupipampinu (lupo mannaro), che nelle notti di plenilunio andrebbe in giro ululando, aggredendo e depredando animali e persone, fino all’alba, quando, per riprendere le sembianze umane, deve graffiare 3 volte l’uscio di casa propria.

Con grande leggerezza, più di un intervistato ha finanche indicato il supposto licantropo del luogo, il quale, nelle notti fatali, si farebbe serrare  dalla moglie  in una robusta gabbia di ferro, nascosta sotto il letto: in caso di pericolo, la moglie sa di doversi fare 3 volte il segno della croce e con una canna appuntita pungere a sangue  la “bestia pelosa”, per placarla e farla tornare alla dimensione diurna. Variante della favola del lupo cattivo e di Cappuccetto Rosso.

Per scongiurare l’insorgenza del disturbo, si suggerisce di tracciare con un carbone fumante un segno di croce sotto la pianta del piede dei neonati, per 3 notti consecutive, ad iniziare dal 24 dicembre. Una persona distinta, affascinata dalle letture spiritualistiche, mi ha mostrato la copia della rivista turistica “Cities of Southern Italy and Sicily” del 1883, contenente la storia della “Licantropa di Nicastro”, la bella figlia del barone di Arena, andata in sposa al conte Masano, suo futuro carnefice. Queste storie continuano a disturbare il sonno di poche creature semplici e superstiziose dei paesi, dove peraltro è presente anche la credenza nello spiritismo dei sensitivi, come quello della giovane Maria Talarico, protagonista del mistero del ponte maledetto, per aver determinato nel 1939 l’arresto e la condanna dei responsabili dell’omicidio di Giuseppe Veraldi, ritrovato cadavere sotto il ponte di Siano di Catanzaro. Maria, passando dal ponte, “prese lo spirito” del giovane morto ammazzato, assumendone la personalità, la voce e le abitudini, riuscendo a convincere il procuratore Pagani della colpevolezza di tre fratelli assassini.(14)

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‘A vucata al fiume

 

La pratica dell’adocchiu ( affascinu) e dello scongiuro è stata registrata in tutti i paesi dell’area indagata (16), dove qualche promoter turistico ha intravisto la possibilità di organizzare 6 distinte “notti bianche della strega”, con percorsi gastronomici guidati, vendita di profumi e mazzetti di  assenzio e rosmarino col marchio “Crepi l’invidia”, intrattenimenti musicali e tersicorei per giovani e anziani, stand di cartomanzia e sfera di cristallo, lettura più o meno faceta della mano.

La jettatura è considerata una forza malefica sprigionata dal malo-occhio dell’invidioso, che può provocare malattie, disgrazie e finanche morte, attraverso la fattura con polvere d’osso o con cenere e la cerma: purbara ‘e moru ti veni a pigghiara (e si pronuncia il nome)/ ti vegnu a jettara e fin’a ra morta ti vogghiu levara” (e si butta un pizzico di polvere sulla persona).La fattura a morte si fa con una mela raccolta allo spuntare della luna piena o con l’abitinu perciatu con gli spilloni e poi sotterrato con la jestima; riti ancora più lugubri prevedono l’utilizzo di organi interni di animali, in particolare cuore, fegato, lingua e polmone, che corrispondono alle parti da affatturare. Lo jettatore (‘u pitusu)  –  lombrosianamente individuato nello spilungone occhiu siccu e guarda ‘nterra, emaciato e con le sopracciglia folte  –  è da tutti discriminato e praticamente condannato alla morte sociale. Su un campione di 150 intervistati, 46 credono “con certezza” nella capacità di alcuni soggetti di “gettare il malocchio” e di eccitare l’odio o la simpatia, 20 “abbastanza”, 30 “poco” e gli altri “per nulla”. In ogni ruga è stata individuata almeno una donna esperta di magia bianca, capace di levare l’affascinu, attraverso la recita del carme di scongiuro, una giaculatoria  appresa in chiesa la notte del solstizio d’inverno (Natale), tenendo in mano un oggetto o un indumento della persona adocchiata.  Questo u carmu  più diffuso nell’area: nel nome del Padre…Miseria maleditta, vattinna a mara ad affucara, ca chista è carna beneditta e tu nun c’hiai a chi fara. Carrica, scarrica, pitittu, tigna e rugna, quannu vidi a mia, morta ccà cadi!…”.  

A seconda di quando arriva lo sbadiglio, l’adocchio può essere di donna, di uomo, di chiesa (se fatto in chiesa o da religiosi),di strada e di casa.  A Crichi, però, la formula magica di scongiuro più condivisa recita: “China t’hadi adocchiatu/ u cora s’ha recrijatu./ CCu ru cora e ccu ra menta/ vavattinna malu ca u d’è nenta! Nel nome…”.

Negli scongiuri dei pastori sono sempre presenti gli amuleti, come grani di sale di miniera, chiavi, foglioline di palma benedetta, cera d’altare, grani d’incenso, chiodi, tutti rigorosamente in numero  di 3, tranne il ferro di cavallo e il corno rosso: si sputa 3 volte in terra e si recita per 3 volte un’invocazione a Santa Barbara.

Un’anziana mastra ha millantato le sue virtù magiche nella preparazione di filtri d’amore, a base di potentilla, pervinca e angelica, precisando però di non aver mai operato la magia nera, pur conoscendo la pratica della fattura a morte con la datura e l’elleboro pestati nel mortaio (sozèri) con un impasto di grasso animale, digitale, sangue femminile o vino. Altre 12 “esperte etno-farmacobotaniche”  –  depositarie di saperi e di tradizioni rurali legate alle piante medicinali,

 

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              Soveria Simeri: villa Cecilia Faragò

 

alimentari, tintorie e cosmetiche  –  hanno mostrato di conoscere il rituale della segnatura per eradicare porri e verruche con l’ausilio di foglie di mirtillo, salice, giunco  e fava.

La moglie del caporale della mandria di […] continua a curare la zoppia delle pecore con un unguento a base di erba d’ericrisu, mentre col bosso previene la mastite delle vacche e tiene lontano il malocchio con un decotto di vitalba, foglie d’olivo e semi di finocchio; col ginepro allontana u monacheddu,il furetto antropomorfo misterioso e bizzarro dei miti folklorici , che si diverte a ordire burle dispettose agli animali e alle persone, essendo nient’altro che la personificazione dei pericoli del mondo agricolo e la realizzazione della paura istintiva della notte e del buio, che nel folclore calabrese assume il nome di Augurello.

Assai diffusi sono risultati i cosiddetti riti di bonaguru.(15) Il giorno dell’Ascensione si continua a raccogliere la scenziona, un’erba dai fiorellini gialli, che si compone in mazzetti da appendere alle tavarche del letto, per favorire la fertilità della coppia e degli animali, oltre che la fioritura degli alberi da frutto; si regalano trecce di spighe di grano o corone di edera ai giovani sposi, augurando loro prosperità. Ancora più radicati (16) sono i riti del cordoglio, finalizzati ad allontanare la minaccia del dolore in occasione di morte o di “disgrazie”.

Le persone colte della zona hanno contezza, a vario livello, degli studi sulla morte in campo sociologico e antropologico e partecipano normalmente alle processioni funebri. L’antico repitu  sopravvive in termini residuali, sotto forma di lamentazione non più parossistica, negli strati più fragili della popolazione locale, mentre i ceti più abbienti  –  pur oscillando tra razionalità e superstizione   –   propendono per le commemorazioni “istituzionali”, accompagnate  da opere di bene, da elemosine e da doni alimentari  in favore dei poveri e degli orfanelli, considerati “vicari” dei defunti, per prossimità di condizione.

Le magare raccomandano inoltre di non uccidere e neanche menomare lucertole e farfalle, perché vi potrebbero albergare le anime del Purgatorio in cerca di pace, particolarmente sui muri a secco e attorno alle luci accese.

Molti intervistati si sono dichiarati scettici di fronte ai riti della magia rurale e dell’occulto, ma hanno negato la necessità di contrastare tali pratiche, anzi, hanno rivalutato l’antico precetto magico: ”‘e venneri e de marti, non si spusa e non si parta, né si dà principiu d’arta.

Se poi a tavola dovesse cadere un po’ di vino, meglio ricorrere al pizzico di sale. Per non dire del gatto nero che attraversa la strada: meglio, molto meglio tornare indietro e, ad ogni buon fine, toccare…ferro!

Infine, un’anziana ed erudita fabulatrice ha voluto ricordare il processo alla Corte d’Assise di Cosenza del 1880 contro alcuni falsi profeti della setta della “Società dei Santi di Bocchigliero”, coeva del movimento dei Lazzaretti dell’Amianta. Gli adepti  – accusati anche dell’omicidio di una donna procace  –  provenivano dal mondo dei “massari”, si richiamavano alla magia della natura, praticavano la preghiera nelle agapi notturne, evocavano il demonio per poterlo incatenare nella pubblica piazza, osservavano severi digiuni e misuravano il loro ascetismo con la penitenza della “coricata”: uomini e donne, cioè, si mettevano nudi a letto, sfidando il desiderio carnale, si strofinavano con gli ombelichi e recitavano : “ncucchiamu villicu e villicu, ppe scacciare lu malu nimicu!” Una “missione salvifica” raggiunse a dorso d’asino anche i paesini del Catanzarese, provocando strane processioni, che sovente si concludevano con sonori pestaggi e manifestazioni di varia superstizione.

Queste, per approssimazione, sono le forme di maggiore persistenza dei temi folklorici vissuti come cultura residuale attuale nell’area indagata, a dispetto della civiltà livellatrice (ed espropriatrice?) della televisione e della scuola di massa.

Intanto i genietti dei campi e delle selve   –  ignorati dalla società contemporanea senza più miti  –  continuano a preparare i profumi e i colori per i fiori, l’acqua per la rugiada del mattino, il letto caldo per i semi e per le radici, la cornucopia per Saturno, la zampogna per i satiri, le ghirlande per le ninfe, la dispensa per gli Opi, la deda per i folletti del focolare domestico e, nel tempo libero, si divertono a rincorrere le larve degli insetti dannosi, armati dei pungiglioni dei calabroni.

 

N O T E 

(1)     Così nella traduzione “normalizzata” dal dialetto. Nel saggio “Della superstitiosa noce di Benevento” (traduzione dal latino “De Nuce Maga Beneventana”) di Pietro Piperno, del 1639, è ripresa la leggenda delle streghe di Benevento, che sotto l’albero celebravano il loro sabba, di banchetti, balli e orge con spiriti demoniaci in forma di gatti o di caproni, seminando orrore e sventure. Le magare o zocculare si ungevano il petto e le ascelle con speciali unguenti e, a cavallo di una scopa (evidente l’analogia con la Befana) o di un agnellone “castrato nero”, raggiungevano la loro meta, urlando la formula magica: “’nguentu, ‘nguentu:/ .”

subr’ acqua e sutta ventu,/ a ra nucara ‘e Beneventu / subra ogni malutempu  (2)

(2)     Le malcapitate – di solito contadine, levatrici, prostitute, guaritrici herbarie, serve, malate  –  venivano arse vive, ma dal 1573 venivano prima decapitate o strangolate e poi incenerite , ovviamente dopo aver reso confessione sotto tortura o  aver mostrato il sigillo del diavolo, cioè un segno distintivo di colpevolezza, come un neo, una cicatrice, una macchia scura sul corpo, il segno dell’unione carnale col Maligno.  La Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione fu creata da Paolo III nel 1542; nel 1908 Pio X la ribattezzò  Sacra Congregazione del Sant’Uffizio; Paolo VI istituì la Congregazione per la Dottrina della Fede.

 (3) A Varallo Sesia (Vercelli) è stata collocata una lapide a ricordo della stria Gatina, tale Margherita  G  Guglielmina “ultima strega massacrata in Italia nel 1828”. Bellezza Orsini fu processata nel 1883. Addirittura nel 1946, in provincia di Siena, veniva massacrata, senza processo, la fattucchiera Teresa, che con le sue erbe rare preparava decotti e conosceva i segreti dei riti benigni.

(4) Carlo Ginzburg, “I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento”, TO, Einaudi, 1966

(5) Il Prof. Casaburi è risalito alla situazione patrimoniale dei Gareri consultando il Catasto Onciario di Soveria  Simeri del 1742 (AS. Na, Vol. 6423, parte terza, ff.11 e 12): vigne, 20 buoi d’aratro, vacche, asini, cavalli, capre, terreni, in località Munizzi, Soverito, Siliano e  Spatoletto.

(6) In Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria del 1995

(7) Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996. La postfazione (G. Raffaelli, la sua città e i suoi tempi) è di Umberto Ferrari. L’arringa Raffaelli è contenuta nel IX tomo della Collezione di Scritture di regia giurisdizione, Bibl. Naz di Napoli.

(8) “Occhio, malocchio e corna: magia, ritualità e scongiuri in Calabria”, RC, Laruffa, 1990

E’ stato accertato che 2 milligrammi dell’aconitina  sono letali per l’uomo e che la jermana mucata (la segale        infestata dal fungo claviceps purpurea) ha effetti allucinogeni.

( 9) Dal 1587 veniva utilizzata nei processi dell’Inquisizione per i suoi effetti inibitori sulle imputate, mentre i          fumi  di origano evitavano la “contaminazione delle prove” da parte delle forze malefiche.

(10) Nell’area dei comuni della vecchia Direzione Didattica di Simeri Crichi.

(11)  Popolazione (dell’epoca): Soveria 1035 ab, Simeri 637 ab, Crichi 683 ab, Sellia 930 ab, Magisano 1001 ab, Zagarise 1082. Possedevano terreni a Soveria  alcune famiglie di Taverna e di Catanzaro; a Crichi i De  Placida di Sellia e a Simeri alcuni conventi e privati cittadini-  Il duca Barretta possedeva beni feudali (per i quali pagava l’adoa) e beni burgensatici, per i quali pagava la bonatenenza. Nel Catasto Onciario  del 1741, la rivela del duca comprendeva 3000 tomolate di beni privati e solo 125 feudali, oltre a un consistente patrimonio zootecnico. Sempre nel 1742, dei 14 massari di Soveria il più ricco era Giacomo Gareri ; gli ecclesiastici erano 15 a Soveria, 14 a Simeri e 2 a Crichi; gli abitanti 855 a Soveria, 721 a Simeri e 560 a Crichi; le case e i tuguri: 170 a Soveria, 290 a Simeri e a Crichi 31 + 10 tuguri.e un numero imprecisato di baracche e pagliai. Nella Calabria Ultra (410.000 abitanti, dei 750.000 della regione) si registravano 580 morti ammazzati all’anno.

(12)  Il pagamento alla Santa Sede del tributo annuo di vassallaggio.

(13) Liber Mortuorum della Parrocchia di Soveria Simeri

(14) Cfr L’Aurora, anno IV, n°3/4, 1955 e G. Alaimo, “Alla frontiera dell’impossibile”, 1976. Il tema è stato    affrontato anche in una trasmissione televisiva.

(15) 50 su 150 hanno dichiarato di crederci “abbastanza”, 30 “come per l’oroscopo di giornali e TV”, 15 “quasi      per ridere” e gli altri “per nulla”.

(16) Coinvolgono la maggioranza della popolazione e dei nostri intervistati.

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