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ETNOANTROPOLOGIA DELLE CAMPAGNE CALABRESI

di Marcello Barberio

Solo cinquant’anni fa veniva abolita la legge sulla mezzadria e si liberavano dall’agricoltura le forze vive, che costituiscono oggi la struttura portante della società meridionale, cioè i nuovi ceti produttivi, dirigenti e culturali. La famiglia colonica  –   horresco refens  –  era “immodificabile” fuori dai casi previsti dalla legge, per cui era difficile per tutti affrancarsi da un destino segnato sin dalla nascita, in un contesto di feudalesimo residuale, con le sue regole antiche di divisione dei prodotti della terra, di diritto di setto d’aia nel latifondo improduttivo del Marchesato e nei territori costieri, di setto di forno per lo jus picis in Sila.

Quest’ultimo era un diritto tipicamente feudale, sancito dall’editto di Re Roberto del 1333 e dalle Pragmatiche angioine, rinnovato dal Bando della Real Camera della Sommaria di Napoli del 1618, che fissava in 6 ducati il diritto della Corte su ogni setto di forno predisposto nella Selva Bruzia, al fine di ricavare la pece nera o bianca (o greca), usate per calafatare le imbarcazioni e impermeabilizzare le botti e il vasellame, sin dal tempo dei Romani e delle guerre puniche.

 

                                                                           Trebbiatura meccanica sul setto d’aia

 

Per effetto del diritto di setto d’aia, il colono era obbligato a conferire al fattore del padrone della terra 1/8 di tomolo (8 litri) di grano per ogni timogna (bica) realizzata sull’aia del concedente; per terraggio doveva conferire i 2/7 dell’intero prodotto, più 2/8 per la guardianìa di ogni tomolata di terreno coltivata e le spese di trebbiatura meccanica, calcolata in ragione di 5/7 del prodotto totale effettivo ricavato. Il terragerista doveva “rilasciare” un ottavo di tomolo (8 litri) di grano  –  oltre al concorso alla guardianìa  –   per la predisposizione della pisèra , su cui battere  e ventuliara gli ospri (le granaglie, come ceci, fave, favette), per separare i semi dai baccelli. I lavori di pisèra erano normalmente affidati al mezzadro, il quale provvedeva abitualmente col forcone di legno, il tridente ferrato e la pala di legno; quando, invece, si faceva ricorso agli animali dell’azienda (un cavallo o anche un paricchiu ‘e voi), aumentavano gli oneri del colono. Insomma, dedotti la terragerìa, il setto d’aia e l’affitto del cavallo per la pisèra, al contadino restava poco o niente, così che, testis temporum, se ne tornava a casa “ccu ra pala subbra i spaddhi e la menzalora vacanta”.

Per comprendere la natura dei diritti incorporati alla terra e le relative forme di servaggio, occorre risalire ai “Libri Feudorm” e alle “Consuetudines Feudorum”, i “codici civili e penali” di quella particolare formazione socioeconomica che va sotto il nome di feudalesimo, imperniato sul castello, dove affluivano i vari “ jussi”, come le contribuzioni dirette (decima, fida, diffida) e indirette, i diritti proibitici  e quelli particolari. Lo jus proibendi del feudatario riguardava  i mulini e i trappeti (1), i macelli e le fiere, i manganelli (2) e le feste, le acque dei fiumi e la trattura della seta (3), i forni e le osterie, la caccia e la pesca (4), i fondaci, la fascia (nascite) e i matrimoni, le vedove. Come se non bastasse, c’erano poi i diritti particolari, come quello di nominare giudici e dignità canonicali nelle chiese di jus patronatus, di esercitare il mero e misto imperio, lo jus plateatici, herbarii et affidatuae animalium, lo jus soli o di casalinaggio (5), lo jus jogaticum, glandagi, picis, di sbarro e di setto di forno. I diritti particolari includevano pure quelli sulle persone (angari e parangari), come l’obbligo dei contadini di prestare la loro opera per la coltivazione della vigna, degli uliveti e dei gelseti del feudatario, al quale bisognava fornire anche acqua e legna per la casa e assicurare i donativi (agnelli, galline, formaggio, ricotte, conigli, capretti) in occasione delle feste ricordate e del majo.

La formula d’investitura feudale prevedeva la cessione e l’acquisto delle terre “cum hominibus, vaxallis vaxallorunque redditibus”. “Era il regno del capriccio e del terrore”, concludeva padre Francesco Russo, che così proseguiva: ” Questa regione abbonda anche di mostri, vale a dire di piccoli re e tiranni, i quali la saccheggiano, la scorticano ogni giorno, con sete inestinguibile e inesausta avarìa, si pascono dei travagli dei mortali: essi infatti si sono usurpati le selve, le balze, le terre, i fiumi, la caccia, in una parola, tutti i diritti dei popoli”.

Certo, con i vari “Capitoli, Grazie e Stabilimenti” le Università  feudali e demaniali riuscivano in qualche modo ad alleviare il peso di tutti quei gravami fiscali, che restavano comunque insopportabili per le popolazioni rurali e per gli artigiani urbani, tanto da provocare endemiche e cruenti ribellioni: a Santa Severina e a Martirano nel 1553, ad Amantea nel 1606, e ancora a Taverna, a Simeri, a Cropani e nei casali cosentini.

Tale situazione perdurò ben oltre il 1806 e l’eversione della feudalità, specialmente nelle comunità chiuse alle influenze esterne, dove i cambiamenti si realizzavano assai lentamente.

Nel 1810, la Commissione Feudale sancì l’abolizione di qualunque diritto di servitù sulle terre del Regno di Napoli, dello jus proibendi  e delle privative. Tuttavia lo jus picis (fidare per fare barili di pece), come pure la fida dei porci alla faglia, la licenza di caccia in Sila, il diritto di pescare trote (mettendo la calce o il tasso nei fiumi), la diffida degli animali dei forestieri, la fida d’accetta per tagliare legne morte e dede, la fida per fare sporte, fiscini (6) e panieri durarono fino al 1853, quando furono modificate con rescritto del 9 maggio

Solo nel 1876 le terre della Sila Regia e della Sila Badiale furono di pieno diritto devolute integralmente al Demanio dello Stato, con la liquidazione degli usi civici e la fissazione di nuove tariffe per i debitori della fida e della granetteria (giogatico o aratro di buoi aggiogati): il terraggio e la fida sull’uso civico della semina e del pascolo, però, rimasero invariati rispetto a quelli del 1619

 

                                                              Grecia di Simeri: Abitazione e rustico giustapposti

 

 Spulciando le rileve del Catasto Onciario del 1741/52, si deduce che la popolazione viveva prevalentemente del lavoro agricolo e che molti contadini prendevano a censo terreni della corte feudale e dei monasteri. A quel tempo il censo era mediamente di 2 carlini per ogni ducato di valore del fondo, secondo l’annuo estaglio degli stimatori.

La jermana (7), le fave e i ceci erano valutati 5 carlini a tomolo e comunque il profitto dei terreni a censo rimase assai modesto per tutto il XVIII secolo, come sembra confermare il “Prospetto generale dei fondi rustici ecclesiastici anteriormente al 1784”, relativo alle operazioni della Cassa Sacra, dopo il terremoto del 1783. Ancora al censimento del 1921 risultava impiegato in agricoltura il 73,1% della popolazione attiva calabrese: il 64 % braccianti e salariati, il 26% conduttori in proprio, il 3,1% fittavoli, il 6,9% mezzadri e coloni.

Nel secondo dopoguerra, l’Istituto Nazionale di Economia Agraria verificava su 1.025,9 mila ettari di proprietà privata in Calabria, la sostanziale identica distribuzione percentuale dei conduttori agricoli del ’21 e del ’31, compresa la quota di colonia parziaria e di mezzadria: restava così  dimostrata la subordinazione del proletariato rurale al latifondo, con la sua tipica struttura a maglia, cioè col fattore, i massari, i guardiani, i soprastanti, i terrageristi. Ovviamente il latifondo era basato sulle colture estensive cerealicole e sul pascolo, con ridotti appezzamenti a oliveto e a vigneto: la figura del proprietario era separata da quella del conduttore imprenditore, che normalmente era un grosso affittuario, attorno al quale continuavano a ruotare le figure complementari del latifondo stesso e della fittanza, la cui origine rimanda ai Romani e, prima ancora, all’economia italiota, precedente all’arrivo degli stessi coloni nella Magna Grecia.

Nel latifondo di epoca romana, i proprietari non perseguivano il massimo profitto attraverso la maggiore produttività, poiché preferivano dedicarsi ad altre attività, disinteressandosi sia degli ordinamenti colturali che degli esiti produttivi: nasceva così l’affittanza, che consentiva di separare la figura del proprietario latifondista da quella dell’imprenditore affittuario (o anche amministratore generale).  I campi prima “chiusi” coltivati a olio o a vigna, si trasformarono in “campi aperti”, perché dopo la raccolta dei cereali o delle leguminose venivano lasciati aperti al pascolo.

Si determinarono in tal modo nuovi rapporti giuridici tra il latifondista, i grandi e piccoli affittuari e la manodopera servile. La gerarchia del latifondo, con la collegata affittanza, si consolidò nei secoli, fino a oltre l’eversione della feudalità: all’ultimo gradino era relegato il terragerista o vrazzala (che lavora con le braccia), il quale molte volte non riusciva a pagare  col raccolto neanche il terratico al massaro, per cui si ritrovava indebitato  da un anno all’altro e costretto finanche a scomputare il debito con giornate lavorative proprie  e della famiglia. Comunque non erano infrequenti le figure promiscue, come quella del guardiano-terragerista e qualche volta anche soccidante..

Tra gli obblighi del terragerista rientrava il famigerato diritto del setto d’aia.

Quella condizione si protrasse fino a dopo il ventennio fascista, nonostante la parola d’ordine della ruralizzazione dell’economia e la contadinizzazione dell’agricoltura. Al momento dell’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943, il sistema socioeconomico dell’agricoltura calabrese era così strutturato: nel Marchesato di Crotone e nelle fasce costiere e collinari joniche e tirreniche resisteva il latifondo appoderato; le grandi estensioni a colture cerealicole e a pascolo erano associate a piccoli poderi in affitto o a colonia parziaria; in Sila perduravano la marginalità del mercato e il sistema della piccola produzione per l’autoconsumo, con le elementari forme  di baratto e di scambio di prestazioni lavorative; nella fascia costiera non assoggettata al latifondo (Piana di Gioia Tauro) si rendeva compatibile, seppur in proporzioni limitate, una certa agricoltura intensiva di esportazione o piccola produzione mercantile, ad alto tasso di manodopera.

Molto forte, in ogni caso, era il principio della cooperazione per l’autosufficienza, con la tipica maglia di relazioni sociali e di rapporti economici. Erano non solo rapporti parentali e di collateralità, ma anche quelli del cosiddetto  sistema della reciprocanza, che implicava scambi di varia natura tra i vicini (di giornate lavorative, di doni, matrimoniali), sempre con la funzione di garantire e di riprodurre la coesione sociale e il funzionamento del sistema socioeconomico.

Facevano parte del sistema della reciprocanza (legato alle esigenze produttive dell’azienda agricola), le relazioni della quotidianità, come lo scambio del dazzitu  del porco e del lievito per il pane, ma anche il sangianni col figlio dell’altro colono.

Altro che spontaneità di sentimenti d’altri tempi!  Infatti, per fare un ettaro di scippa (scasso profondo del terreno, a fosse aperte), occorrevano da 500 a 1.000 giornate lavorative; un giornaliere riusciva a vangare 200 mq di terreno, a sarchiarne 400 mq e a rincalzarne 500 mq. Un mietitore riusciva a falciare e accovonare 0,12 ettari di grano al giorno – 3 giornate a tomolata –  e abbicare 0,50 ettari al giorno di covoni (3 tomolate in 2 giorni).

Con la diffusione delle trattrici meccaniche, delle seminatrici e delle mietitrebbiatrici si riduceva drasticamente il fabbisogno di manodopera in agricoltura; le grandi trasformazioni post-belliche hanno modificato i sistemi economici e produttivi tradizionali, integrandoli nei sistemi pluralistici di dimensioni europee, per meglio stare nel mercato reale.

Ora la mezzadria è finita e non si parla più di diritto di setto d’aia e di forno, anzi non esistono più l’aia per la trebbiatura meccanica e la pisèra, né si produce più pece in Sila.(9)

Anzi il 98% di un campione di giovani calabresi tra i 15 e i 35 anni non sa cosa sia e a cosa serva la pece: preferisce frequentare le autostrade informatiche e discutere di organismi geneticamente modificati, ma anche di agricoltura senza terra, di agricoltura idroponica, di marchio di garanzia dei prodotti tipici regionali e di agricoltura biologica, di piano faunistico, di ripristino della razza del cavallo calabrese, di ripopolamento della macchia mediterranea con la lonza, col gatto selvatico e con la selvaggina di passo accidentale. Si è consolidato un mondo nuovo, che, però, rischia di perdere la memoria di sé. Prima, però, che si verifichi tale perdita (nella catena della trasmissione orale popolare) e si disperda un grande patrimonio culturale, diventa non più rinviabile la predisposizione di un Piano di conservazione, tutela e valorizzazione della cultura e dei saperi della società contadina e pastorale, con l’avvio in ogni comune o in ogni scuola di un museo etnografico, sul tipo di quello di San Costantino Calabro. Ecco le ragioni dell’urgenza.

In un campione di 1.000 alunni della scuola secondaria di primo grado di 8 comuni del Catanzarese, solo 40 hanno toccato con mano un chicco di grano, 35 hanno visto utilizzare la vanga, 35 hanno mangiato ceci ancora verdi (troppa ‘e ciciari), 20 hanno mangiato la ‘mpanata al caccamu, 300 hanno assistito a San Floro alla dimostrazione dell’allevamento del baco da seta, nessuno conosce la jermana e ha mai visto un pagliaio di creta e strame, 1 solo conosce il significato di  pisèra (e ha visto ventuliara le granaglie), 50 hanno visto in attività un telaio a mano tradizionale, ma nessuno sa

come si riempiono le cannelle del fuso di ferro (vasaronta). Eppure in ognuno degli 8 comuni esistono da 3 a 7 antichi telai a mano ancora efficienti.

 

 

N O T E

  • Frantoi oleari: il diritto era esteso anche al quatriculu (olio d’inferno), alla murga (morchia) e al nozzularu (deposito della sansa).
  • Mangani e manganelli: aspri per lavorare il lino e la canapa (stuppa), dopo la macerazione nei vulli (pozze) dei fiumi o delle gambitte (canali di scolo);
  • Riguardava u siricu (baco), u cucuddu (bozzolo) e a frunna (foglie di gelso bianco);
  • In alcuni periodi era consentito ‘ntassara (mettere il tasso, il cui lattice stordisce e avvelena i pesci) le acque dei fiumi, per pescare anguille o trote;
  • Qualcosa di analogo allo jus aedificandi;
  • Le dede sono legnetti resinosi usati per accendere il fuoco, i fiscini sono corbelli di vimini per il trasporto a basto d’asino o di mulo;
  • Segale, frumentum germanum;
  • Farsi comparelli il giorno di San Giovanni, con lo scambio di un mazzetto di spicanarda; si                        diventava cumpari ‘e juri o ‘e mazzettu;

(9)  La pece era detta “pix Bruttia” dai Romani e “pitta Bruttia” dai Greci. Gli addetti alla lavorazione erano detti “stellatori”, i quali operavano le incisioni e la slupatura sul tronco del pino laricio: a marzo raccoglievano la trementina e d’estate la resina, che lavoravano nelle carcare da picia, simili alle carbonaie e alle carcare da càcia);

(10) Mandra: ricettu o scarazzu (riparo), mandrizzu o mungaru (mungitoio), mandrigghiu (recinto per gli agnelli)