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DON FRANCESCO CAPORALE: UN PRETE SCOMODO

DON FRANCESCO CAPORALE: UN PRETE SCOMODO

 

di Marcello Barberio

Alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, nel primo pomeriggio dei giorni festivi, gli studenti dei convitti religiosi di Catanzaro uscivamo infila per due lungo le vie della città,per la consueta passeggiata didattica e di svago. All’altezza della farmacia Leone, una domenica di primavera ci capitò d’incontrare un anziano prete claudicante e mal vestito, in un contrasto tanto evidente da muovere lo stupore riverenziale di ragazzi di paese. Interpellato, l’istitutore-accompagnatore fu molto vago, quasi reticente e, con molta circospezione, si lasciò sfuggire qualcosa come: “E’ un prete modernista!”. Ovviamente non capimmo granché. Diversi anni dopo, venni a sapere che si trattava di don Francesco Caporale (Badolato, 1872 – Catanzaro 1961), professore al seminario Pio X, utriusquejuredoctoreme uno dei maggiori rappresentanti del cattolicesimo sociale calabrese, insieme a Carlo De Cardona, Luigi Nicoletti, Antonino Anile,Francesco Maiolo, Giuseppe Vito Capialbi, Francesco Mottola, Gaetano Catanoso e Antonio Scalise. Quasi tutti, ”figure di sacerdoti che hanno vissuto la loro vita sacerdotale dando testimonianza di una forte tensione per l’elevazione morale e religiosa e per il riscatto sociale della propria gente”, come tenne a precisare Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita in Calabria nell’ottobre del 1984.

Gli stimoli politici e culturali della vita mi hanno indotto, nel tempo, a interrogarmi sulla figura di quel prete “irregolare”,in tempo di radicalizzazione dello scontro politico e sociale.Dalla lettura de “I cattolici e la Calabria” di Mario Squillace ho appreso che , nel 1912 don Ciccio Caporale aveva fondato e diretto a Catanzaro il settimanale di cultura e azione “Vita Nuova” (nato dalla trasformazione del periodico “La Stella dell’ Jonio”), senza interrompere la collaborazione con “La Buona Novella” e successivamente, nei primi anni ’40, con “L’Idea Cristiana” e “Nuova Calabria”.“Lo Sturzo di Calabria” servì i poveri con gratuità e coerenza e fu instancabile organizzatore dell’associazionismo cattolico operaio e contadino sin dal biennio 1919-21 dei “decreti Visocchi” per l’assegnazione delle terre incolte ai reduci della Grande Guerra; propugnò la convergenza tra spirito religioso e istanza democratica, ricercando nel secondo dopoguerra l’unità operativa tra le varie componenti del mondo del lavoro (Federterra,Camera del Lavoro, Acli-terra).Insomma,“ostinatamente  determinato a rompere e sconfiggere vecchie pigrizie e secolari immobilismi”, fu in Calabria uno dei più coerenti interpreti progressisti dei principi ispiratori dell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII e del pensiero “modernista” di Romolo Murri. Aderì subito al PPI di Luigi Sturzo, col quale condivise i cardini programmatici  e la forma aconfessionale del partito, convinto che “il cattolicesimo è religione, è universalità mentre il partito è politica, è divisione”. Molti, però, anche nelle gerarchie ecclesiastiche, erano di tutt’altro avviso e consideravano il popolarismo non una forza d’argine bensì un movimento “imbevuto di pericoloso modernismo, figlio della Rivoluzione Francese”.Al pari di p. Francesco Luigi Ferrari (e di don Ciccio Malgeri e don Giuseppe DeLuca), riteneva che per la Chiesa il pericolo più grave non fosse tanto il fascismo quanto la fascistizzazione  del clero.Intanto  il conte Giovanni Grosoli Pironi consolidava la rete del sistema bancario cattolico col controllo di vari istituti finanziari nazionali e regionali, come il Banco di Roma e soprattutto il Credito Nazionale (banca di vertice dell’intero sistema “popolare”); a Bologna, nel 24, dava vita al Centro Nazionale Italiano, nel quale confluivano i dissidenti del PPI e quanti si dichiaravano favorevoli alla collaborazione col partito di Mussolini. Sempre nel 1924, alla vigilia della discussione in Parlamento della famigerata legge Acerbo,Luigi Sturzo fu indotto alle dimissioni e all’esilio: don Caporale se ne tornò a Badolato, in una sorta di esilio volontario, dedicandosi a tempo pieno al suo apostolato religioso e alla scrittura.

Sono di quel periodo alcune sue pubblicazioni: “Fede, Civiltà, Patriottismo per la liberazione di Gerusalemme” e soprattutto “Michelangelo e Vittoria Colonna nel “Giudizio” della Sistina”, il “mistero criptografico del sommo artista”, recentemente ripreso come dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino del movimento degli “spirituali”. Caporale fa esplicito riferimento alla pubblicazione del 1925 de “I volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio Finale” del medico calabrese Francesco La Cava e a quella successiva, del 1931, di un altro medico calabrese, Antonio Tropeano, “Michelangelo e la Lupa nel Giudizio Finale”. Entrambi gli studiosi calabresi avevano sostenuto “ la coesistenza del volto di Michelangelo (corrusco d’ira e di dolore) e della testa della lupa nella pelle di S. Bartolomeo, facendo risultare più chiara e precisa la vendetta dell’artista contro i suoi scorticatori”. Con l’enigma finale: “Chi può essere la figura femminile così strettamente legata alla sua sorte? Io ritengo debba rappresentare una donna reale che abbia fortemente influito sull’animo più che sui sensi dell’Artista, il quale ha dovuto avere per lei un culto di ammirazione e di stima grandissima e ricevere sollievo di affettuosa amicizia … Vittoria Colonna”.  Sappiamo che la marchesa di Pescara, “alta donna gradita” delle rime del Buonarroti fu la consolatrice di Michelangelo nel periodo del suo pessimismo acuto e dell’inquietudine spirituale e religiosa, che coincise con l’esecuzione del Giudizio della Sistina del 1536/41. Anche la critica moderna tende a riconoscere nel grandioso dipinto a fresco della Sistina una metafora profonda e complessa: in particolare le sembianze di Maria (altri dicono di Santa Marta o di Sant’Anna, collocata sotto la Madonna, prossima a San Lorenzo con la graticola) sarebbero le stesse del volto di Vittoria Colonna, come nel disegno in gessetto su carta della “Pietà”del museo di Boston.

Più di scuola risulta il discorso sulla liberazione di Gerusalemme pronunciato il 4 gennaio del 1918 nella cattedrale di Catanzaro, nel quale tratta del “successo delle nostre armi alleate” contro “ le orde turche, sbarcate dalle più selvagge foreste dell’Asia con la scimitarra” per “sottomettere al Corano vaste regioni”. Dopo aver ricordato che Omar, successore di Maometto, nel 637 s’impadronì della città santa, risorta dopo la distruzione romana col nome di Actia Capitolina, concludeva: “le crociate non raggiunsero il fine proprio e immediato”, ma apportarono “grandi e meravigliosi benefici all’Europa e al mondo, sia nell’ordine spirituale che materiale”.

Dopo la caduta del fascismo,il bombardamento della città di Catanzaro del 27 agosto 1943 da parte delle fortezze volanti alleate (1), l’arrivo in Calabria delle forze anglo-americane e l’insediamento del Governo Militare Alleato dei Territori Occupati, don Francesco tornò a Catanzaro per riprendere il suo ruolo “naturale” di maestro d’impegno cristiano e civile.”Raccoglieva i giovani cattolici impegnati in politica nella canonica della parrocchia di San Rocco”, si legge nell’agenda del servo di Dio Antonio Lombardi, per ascoltare le sue lezioni sull’abate Bayraud , su Pio X, sulla massoneria, su Giovanni Pascoli e soprattutto sul barone Guglielmo Emanuele Von Ketteler (1811-1877), soprannominato “il vescovo sociale”, sostenitore nel parlamento tedesco dei grandi temi del cristianesimo sociale e forte oppositore del kulturkamphdel cancelliere Otto Von Bismarck, risolto nel 1887 con la revoca delle famose” leggi di maggio” del 1873. Come per mons. Ketteler e per il beato Giuseppe Toniolo, anche per don Caporale la questione sociale poneva al mondo cattolico l’urgenza morale a intervenire politicamente contro ogni forma d’iniquo sfruttamento del “ceto proletario” e anche a difesa della libertà di culto e d’insegnamento. Convinto sostenitore dell’aconfessionalità dello Stato, si mostrò sempre contrario a ogni indebita commistione tra potere religioso e politico, come sancirà il Concilio Vaticano Secondo (1962-1965) con la costituzione apostolica “Gaudium et spes” di Paolo VI, per una Chiesa e uno Stato sovrani e indipendenti, nel loro ordine.Caporale contribuì alla nascita della Democrazia Cristiana, con l’imperativo della difesa degli interessi e delle aspirazioni dei lavoratori, attraverso le formazioni partitiche e le organizzazioni sindacali unitarie. Era il periodo degli “Ottantotto”, dell’effimera Repubblica di Castrovillari e di quella di Caulonia, del rientro dei reduci “sbandati”, del mercato nero, delle epurazioni, della tessera annonaria,del carovita, dei trasformistici riposizionamenti politici, della lotta per la sopravvivenza e delle rinnovate clientele.

In una “Relazione mensile del prefetto di Catanzaro del 3.11.1944” (2) è scritto: “Il ritorno del sacerdote Caporale, ex popolare, con tutti gli aderenti al disciolto partito sociale agrario che il predetto ecclesiastico aveva fondato negli ultimi mesi dello scorso anno ha dato nuova vita alla Democrazia Cristiana di questa provincia […] L’organo del movimento, L’Idea Cristiana,è giornale moderato ma va sempre affermandosi per la collaborazione del nominato sacerdote”.L’anno prima, su Nuova Calabria del 25 agosto del ‘43 e su La Voce del Popolo (organo della federazione comunista di Catanzaro)del 5.12.1943, don Caporale aveva chiesto polemicamente ai partiti di sinistra:

“E’ lecito sostenere programmi che annullino le libertà civili della nazione e propugnino nuove dittature?[ …] E’ il comunismo anche democratico nel senso ordinariamente adoperato o solo fino ad un certo punto?”. Immediata e piccata la risposta del direttore autodidatta Francesco Maruca: “..dopo aver fatto una iniziale dissertazione di buon costume e di educazione, a cui bisognerebbe attenersi nel discutere i programmi e le idee degli avversari politici, ci domanda […]Si nota lo stentato tono cattedratico del piccolo borghese, professore di ginnasio, che impartisce lezioni e paternali e non si accorge che manca il suo predicozzo di ogni contenuto critico […] Se il nostro illustre contraddittore avesse cercato di comprenderci, prima di cianciare, avrebbe adoperato meno paroloni […]Distogliere le masse proletarie dall’influenza socialista fu il miraggio di tutti i parroci d’Italia e gran parte di questi divennero organizzatori, direttori di giornali, segretari di leghe bianche, di cooperative e di banche agricole[. …] La Chiesa ha il suo credo, il suo catechismo, la democrazia non ha dogmi[…] La dittatura del proletariato non mira alla distruzione delle libertà civili e umane,ma ad impedire che le forze della reazione risorgano e comunque nuocciano allo sviluppo della società nuova che è vera e completa democrazia, senza restrizioni [..] La funzione del partito popolare è stata nettamente antirivoluzionaria ed ha, in effetti, spianato la via alla dittatura brigantesca del fascismo. A don Sturzo si poteva chiedere e farlo arrivare dove si voleva nel campo delle riforme politiche, ma quando si entrava nel libero pensiero, qui si arrestava di botto perché subentrava il dogma.[…] In grazia di questo popolo noi siamo con la penna in mano a cianciare di democrazia e altro.  […] dovreste lasciare parecchie spoglie del vostro abito mentale. E per ora basta!”.Prescindendo dal merito politico e dallo stile della polemica, la risposta del bordighiano Maruca contribuisce a rappresentare la situazione reale del particolare momento storico, lo stato economico e sociale di fine guerra e di fine dittatura,meglio descritto in un altro rapporto prefettizio di due anni dopo(3).

“La fame è il problema più grave delle masse popolari, alle prese col secolare problema della disoccupazione!” riportava Calabria Domani; l’ordine pubblico, invece, era la preoccupazione dei proprietari terrieri, alle prese con i decreti Gullo del secondo governo Badoglio di unità nazionale, come si evince anche dalle prime pagine di “Calabria, Avanti!”, “Il Calabrese”, “La voce della Calabria”.Nel ’46, si svolsero le prime elezioni a suffragio universale per il rinnovo (dopo 24 anni) dei consigli comunali, per il referendum istituzionale e per l’Assemblea Costituente.A Catanzaro, al commissario di nomina prefettizia, il socialista Correale Santacroce, subentrava il primo sindaco dell’era repubblicana, il democristiano  Vincenzo Turco; a Badolato veniva eletto sindaco il giovane comunista Luigi Tropeano, a Crotone il “medico dei poveri”  Silvio Messinetti,  a Nicastro  Giuseppe Cuiuli. L’eredità del vecchio regime era pesante:il 68% della popolazione attiva era assorbito dall’agricoltura, il salario giornaliero medio era di 46 lire in montagna e 37 in collina e in pianura (solo 14 lire quello femminile), il prezzo del pane era di 3 lire al chilo, della carne 50 lire e dell’olio 18; la disoccupazione superava il 37%, gli analfabeti erano 700.000.L’opera di ricostruzione post-bellica diventava assai ardua, come lumeggiato da Cesare Mulè: cinque milioni di vani distrutti, 30% delle strade non praticabili, 13 mila ponti e 80% di binari distrutti, 90% del tonnellaggio della marina mercantile affondato, 90% degli automezzi inservibili, 1 milione di terreni improduttivi.Intanto si andava acuendo il contrasto di don Caporale col gruppo dirigente del suo partito, che, a suo parere, stava attuando una politica di subalternità al liberismo, d’incertezza nell’adempimento della scuola cristiana, per la “gestione del potere che concede pochi spazi all’immaginazione e all’utopia ideologica”. Chiudeva “L’Idea cristiana” e nasceva la nuova testata de “Il Popolo d’oggi” di V.G. Galati. Dopo l’estromissione della sinistra dal governo nazionale nel ’47 e la rottura dell’unità sindacale (nascevano la Cisl e la Uil), nel nuovo clima internazionale di “guerra fredda”, l’indomito combattente diventava ancora più scomodo, specie dopo la morte del primo segretario provinciale della DC di Catanzaro, il terziario francescano e dirigente dell’Azione Cattolica Renato Leonetti, commemorato dallo stesso Caporale. Sempre nel ’47 veniva istituita l’Opera per la Valorizzazione della Sila, per l’attuazione della riforma agraria, con l’assegnazione di 86.000 ettari di terreni e la formazione di 11.557 poderi e 6.705 quote: dimensionamento rivelatosi insufficiente a produrre reddito adeguato al fabbisogno familiare.

F. Caporale

Nel ’48  debuttavano anche in Calabria i “baschi verdi” dei “Comitati Civici” di Luigi Gedda; l’anno dopo l’Italia aderiva al Patto Atlantico, mentre nelle campagne calabresi si sperimentavano gli scioperi alla rovescia, col tragico epilogo dell’eccidio di Melissa.La situazione socioeconomica della regione veniva così tratteggiata dall’inviato  del periodico “Tempo”del 4 ottobre ’54:  “Dall’inchiesta parlamentare sulla miseria, condotta nel 1953, è risultato che la Calabria ha la più alta percentuale di famiglie povere. Contro una media nazionale dell’11/%, la Calabria presenta il 37/% […] patate e castagne messe al forno per cena e verdure selvatiche per pranzo, pasta una volta alla settimana, la carne tre volte all’anno, uova da vendere per comprare il pane e qualche altro prodotto necessario […] Stando a un rilevazione statistica del 1951, la Calabria ha il più alto numero di grotte abitabili:25 mila.[…] Le industrie sono poche  e in difficoltà […] la riforma agraria va avanti […] la luce elettrica è portata dalla S.M.E.”.

Risale a 6/7 anni dopo il mio incontro casuale con don Ciccio, il prete dall’abito talare liso e smunto e barcollante sul bastone, di cui ho detto all’inizio, e ancora non mi è chiaro il commento dell’istitutore: non so, né mi sarà più dato sapere,se don Caporale fu definito prete comunista o modernista, a dispetto del decreto della Congregazione del Sant’Uffizio, che condannava il materialismo storico come apostasia della fede cattolica.So, però, che morì povero, emarginato, dimenticato anche da buona parte dei suoi amici di partito e delle organizzazioni operaie e contadine,cioè dalle personalità più in vista del tempo. Nel 1966, a Torino (sic!) è stato fondato un Centro Studi intitolato alla sua memoria, che la verbosa retorica nostrana continua a rappresentare in modo quasi oleografico e qualche volta apologetico. La mistica dell’eroe defunto ha fagocitato l’ “imprudenza” del suo apostolato, col pericolo della banalizzazione dell’impegno cristiano, civile e politico, privato  dell’ originaria finalità di servizio. Sarebbe più corretto, invece, rovistare negli archivi di stato e in quelli diocesani, nei rapporti alle prefetture dei carabinieri e delle rabule del Pnf, negli stessi memoriali di partito. Temo che risulterebbe ancora attuale la triste riflessione di Alcide De Gasperi: “I cocchi dei trionfatori passano schizzando fango sui travolti che stentano a salvarsi sugli angoli della via”.Fortunatamente, il fervido don Pietro Emidio Commodaro gli ha dedicato una pregevole monografia (Don Francesco Caporale, pioniere del  cattolicesimo sociale in Calabria).In occasione della presentazione di “uno dei più illustri oscuri samaritani di Calabria”, gli ha fatto dire:“Io sto con i vinti, i buoni operai delle ore oscure […] speranza nel pianto infinito dei poveri, al contrario dei vanesi vincitori, tronfi e liquefatti nel fumo acido della supponenza”.

N O T E

  • La città era sede del XXXI Corpo d’Armata Italiana, appoggiata dalla Divisione Corazzata Hermann Goering del generale Kesserling. Anche se la lotta di liberazione era operativamente concentrata al Nord, il contributo di Catanzaro fu notevole: 3 ufficiali insigniti di medaglia d’oro al VM (Aldo Barbaro, Vincenzo Cortese, Saverio Papandrea), il comandante partigiano Frico, gli internati e i prigionieri.
  • ACS, Min.Int.Dir.Gen.PS. 1931-1949- busta 59°.C2.
  • Visionato da Pietro Borzomati in “La Provincia di Catanzaro nel 1945 in un rapporto riservato del prefetto Federico Solimena”, in Civiltà di Calabria, studi in memoria di Filippo De Nobili, a cura di Augusto Placanica, 1976.