La KETUBAH di Calabria del 1439

di Marcello Barberio

Nel 1907, Nicola Ferorelli annunciava, presso l’Archivio Storico per le Provincie Napoletane (Gli Ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana a Carlo Borbone), la scoperta di un documento, in caratteri “ebreo-rabbinici”, riguardante i patti prematrimoniali ebraici, stipulati nella Giudecca[1] di Simeri il 1439, in occasione delle nozze, nel mese della fioritura dell’anno 5179 della creazione, tra Salomone e Giaele, figli entrambi di due rabbini del luogo. Si tratta di un documento unico e inedito, sottoscritto da ben 10 rabbini, in lingua aramaico- ebraica, di cui non si ha avuto più notizia per lungo tempo, fino alla pubblicazione nel 2013 del testo in lingua santa della Ketubah, recuperata dal testo latino del paleografo Giuseppe Canonico del 1854 (in: Explanatio duorum veterum diplomatum) e dalle Annotazioni di Angelo Granito, già Soprintendente Generale degli Archivi del Regno, da parte del prof Giancarlo Lacerenza[2]. Il territorio di Simeri[3] si estende nella parte mediana del Golfo di Squillace, in provincia di Catanzaro, naturalmente delimitato dai bacini imbriferi dell’Alli e del Simeri. Il borgo è situato a strapiombo su una rupe “come la tolda di una grande nave lanciata verso l’azzurro mare d’oriente”, mentre i quartieri antichi della Grecìa e dell’attigua Giudecca sono ubicati nella parte bassa, su una stretta terrazza separata dal Baglio o Vaglio (dal fr.a. bail) del castello bizantino da una piccola rupe e, in basso, da profonde gole cadenti a picco nel “cafone di Venga”, che sversa le sue acque nel fiume Simeri “a quo oppidum nomen sumsit”, come congettura Plinio (Naturalis Historia), che lo definisce navigabile nella sua parte terminale.

Nel Syllabus di F. Trinchera è presente Simeron nel 1124 mentre nelle Rationes Decimarum di D. Vendola è ricordato castrum Simari nel 1202, ma già nella Cronaca Araba dell’Annalista Salernitano e nella Cronaca di Arnolfo del X secolo, risulta che, l’anno 903 i Saraceni di Absdraele espugnarono e occuparono i fortilizi di Simeri, Belcastro, Taverna e Petilia, aggregandoli all’Emirato di Scillazio[4]. Nel 933, il saclabio Sain riprese i paesi greco-bizantini, “uccidendone parte de’ cittadini e mandando i restanti prigionieri in Africa”. Nel 982 i paesi in mano agli “infedeli” furono conquistati dall’imperatore Ottone II di Sassonia. Poi vennero i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi. Tutte le Chroniche del tempo e quelle successive celebrano la ricchezza del territorio, dove “si fanno li risi, si coglie la manna, la spina pontica […] i capperi, la vitice, la sesama, il bambagio, lo zucchero nei cannameli”, ancor prima dei gelsi per la sericoltura.

Le uniche evidenze architettoniche del ghetto che hanno resistito all’edacità del tempo e all’incuria degli uomini dovrebbero essere una cisterna impermeabilizzata (per bagni cerimoniali?) e i ruderi della chiesetta di S. Infantino, più volte manomessa e riadattata. Non è da escludere, infatti, che il piccolo edificio ecclesiale fosse stato utilizzato in passato come struttura sinagogale, come in altre realtà, dove “li iudei di chissa terra hanno deliberato vindiri la muschita predicta e beni di quella ad opu di sustintari li poveri ….”

Calabria Judaica del 2019 conferma la circostanza della trasformazione delle sinagoghe in chiese cattoliche, a Catanzaro (chiesa di S. Stefano, nel palazzo Fazzari di corso Mazzini), a Nicastro (chiesa di Sant’Agazio, del rione Timpone), a Castrovillari, a Caccuri, a Serrastretta. Nelle comunità più piccole poteva trattarsi di un semplice locale comunitario di preghiera e di studio, comunque dotato di un armadio o di una nicchia per i rotoli del Sefer Torah, quando una delle famiglie più in vista non si offriva di ospitare la preghiera del ringraziamento o tefillah.

Qualche anno fa, ricordavo (in: Le Judeche di Calabria, CL) che la presenza degli Ebrei in Calabria viene fatta risalire al 168 a.C., prima delle deportazioni di Tito e della distruzione del tempio di Gerusalemme, anche se le ondate d’immigrazione nella regione si verificarono soprattutto nel XV secolo, a seguito delle espulsioni del 1492 dalla Spagna, dalla Germania, dalla Francia e dal Portogallo.

 

Traduzione della Ketubah di Simeri dal testo latino

dei Tena’im (patti prematrimoniali ebraici) più antichi sinora noti in Italia, redatti su carta bombicina, nel mese di Shevàt dell’anno 5179 della creazione del mondo (1439 del calendario giuliano), il quarto giorno dopo il sabato della Parasah. La data per celebrare il matrimonio (Nissuin) tra Salomone, figlio del rabbi Davide con Giaele di rabbi Davide, è fissata all’anno successivo alla prima Pesach (Pasqua di liberazione dall’Egitto): così è scritto chiaramente nella Ketubah. Questa esordisce con un’invocazione rituale (con l’aiuto del Signore) e precisa che “queste sono le condizioni pattuite da messer Salomone, figlio del defunto rabbino Davide (sia il suo riposo nell’Eden) e messer Salomone figlio del rabbino Davide (si conservi fra i vivi) nel dargli in moglie sua figlia Giaele, al momento del fidanzamento (Tena’ime).

La dote (prezzo della sposa): un materazzu e cuscinu con un paio di lenzuola di lino, una cutra (coltre o imbottita) di lino bianca; per un altro letto una carpita (coperta) e un paio di lenzuola bianche di lino; tre tovaglie larghe da tavola, tre tovaglie guardanappi, tre tovaglie per la faccia, un copricapo (scialle) di seta colorata, una coperta di seta a capicciola, un bollitoio di 5 libbre, un tegame di 2 libbre, una coperta di seta e altri corredi di pregio di seta selvatica. Si conferma quanto già pattuito col fidanzamento: una veste del valore di 5 tarì a canna, orecchini d’argento con perle del valore di 76 tarì, una cintura d’argento del valore di 12 tarì, un paio di babbucce […]. Gli orecchini dovranno essere consegnati alla prossima festa del Savuot (Pentecoste) e la cintura alla prossima Hanukkah (festa dei lumi o delle luci); la veste e le babbucce sarà il padre dello sposo a darle a Giaele per il prossimo Purim. Il padre dello sposo giura che darà l’altro suo figlio come sostituto marito nel caso in cui (ce ne scampi) lo sposo muoia prima della sposa (cfr.levirato).  Gli sposi risiederanno per almeno altri 5 anni nella città di Simeri. Testimoni: Eliyyah figlio del defunto rabbino Giacomo, Giacomo del defunto Giuseppe, Iesael di rabbi Kalev, Nissin delR. Giacomo, Giacomo del defunto R. Hayyim, Hayyim del defunto R. Sabbatay, Avraham del defunto R.Hayyim, Yishaq di R.Salomon. Io Yishac figlio di R. Mohsè del Cairo, medico e chirurgo.”

La cerimonia, carica di simbolismi e di rituali antichi, prevedeva che gli sposi (lei vestita di bianco col bedeken dopo il bagno purificatore[5] del migveh e lui con lo scialle di preghiera o tallit), sotto un baldacchino di stoffa (chuppàh), ancor prima della lettura della Ketubah, ricevessero le 7 benedizioni da parte del rabbino celebrante, il quale consegnava ai genitori degli sposi un bicchiere di vino e questi lo passavano ai rispettivi figli. Gli sposi bevevano il vino dal calice di vetro, lo sposo, quindi, poteva infilare l’anello al dito indice della mano destra della sposa dicendo: “Ecco, tu sei consacrata a me, con questo anello, secondo la legge di Mosè e di Isdraele”. A questo punto lo sposo calpestava il bicchiere e tutti gridavano: Mazel Tov! (congratulazioni e buona fortuna). Seguiva la lettura della Ketubah, le benedizioni dei genitori e il banchetto nuziale, con la corale invocazione: “Lodate il Signore perché Egli è buono, eterno e misericordioso”. La cerimonia poteva svolgersi nella sinagoga o in un luogo privato consono.

La mattina seguente lo sposo mostrava dalla finestra il “fazzoletto o il lenzuolo della illibatezza” della sposa; solo dopo accurata verifica del betulim (lenzuolo), i testimoni apponevano la loro firma sulla Ketubah, precedendola dalla espressione: “Abbiamo trovato il giardino chiuso e la fonte sigillata”. In caso contrario, lo sposo ingannato aveva il diritto di rivolgersi al tribunale per chiedere la lapidazione della donna. Normalmente per 7 giorni[6] gli sposi non dovevano uscire di casa, ma proseguire il banchetto.

Con la Ketubah gli sposi s’impegnavano a rimanere a Simeri per almeno altri 5 anni, nonostante la radicalizzazione dell’odio e le angherie nei confronti della loro etnia, specialmente durante la Settimana Santa. Verosimilmente lo sposo poteva essere un magister con licenza a tempo, obbligato al rispetto delle norme consuetudinarie e di quelle della magistratura dell’arte dei setajoli, dei tintori e delle filande. Se non alle corporazioni dei chirurghi e dei fisici, di cui era componente Isacco, l’estensore della Ketubah.

Certo è che in tutto il regno vigeva un fiscalismo vessatorio, statale e feudale, che comprendeva servigi personali, arrendamenti o affitti di dazi (sulla seta e sui filati, sulla raccolta della manna dai frassini), parangari, pedaggi (su animali, attrezzi agricoli, sui cadaveri, sui lenoni e sulle meretrici) e finanche lo jus stercoris o fiato dei porci. Tuttavia l’elenco della “roba sponsalicia” della ketubah e la presenza di ben 10 rabbini-testimoni testimonia una certa importanza e opulenza delle famiglie interessate, che forse costituiva la parte più ragguardevole dell’intera comunità locale, con gli stessi diritti e garanzie dei Nobili e degli Honorati. Gli Aragonesi, infatti, continuavano a sostenere convintamente una politica filogiudaica, in campo sociale e fiscale, accordando privilegi e concessioni, anche contro le dispotiche velleità della corte baronale e del vescovo, i quali pretendevano di sottoporre gli Ebrei alla propria giurisdizione, per meglio gestire i cospicui capitali e le stesse maestranze della seta, della filatura, della torcitura e della tintoria, come pure l’importante apparato commerciale dell’industria tessile e le franchigie sulla seta franca[7]. Infatti impareggiabili erano i prodotti calabresi (damaschi, broccati, taffetani, velluti, rasi), con impresso il sigillo dell’arte, cioè le tre V (Velluto, Vento, Vitaliano), che li rendeva famosi in mezza Europa.

Con l’avvento degli Spagnoli, nel 1503, e la persecuzione delle minoranze etniche e religiose (cfr. massacro dei Valdesi), attraverso l’Inquisizione, gli Ebrei furono costretti a emigrare o ad abiurare il giudaismo; l’editto di Carlo V del 1541 ne decretò l’espulsione definitiva anche dal Regno di Napoli, per cui le Giudecche si spopolarono e gli abitanti si confusero con la popolazione locale.

Tutti dovevano dichiarare pubblicamente la loro adesione o la conversione al cristianesimo: i conversi erano additati come marrani o porci, per distinguerli dagli anusin o costretti. Tutti, comunque, erano sottoposti a continue rappresaglie, ruberie, insulti, lazzi e saccheggi di ogni genere, che continuavano ad alimentare l’odio antico verso gli usurai e i traditori di Cristo.

Di nascosto, però, i costretti continuavano a consumare i cibi simbolici della tradizione (il matzah o pane azzimo di Mosè, il charoset di mele e miele, ecc.) e a tenere accesa la Ner Tamis o Fiamma Eterna[8], nell’armadio posto in direzione di Gerusalemme, nel ricordo della Menorah.

In una società che si voleva monolitica sotto l’aspetto culturale e religioso, si parlò di Ebrei cristianizzanti o di Cristiani giudeizzanti, provocando un diffuso fenomeno di sdoppiamento d’identità, conosciuto come criptogiudaismo. Ogni converso poteva manifestare la propria fede solo tra le mura domestiche, perché all’esterno era costretto a vivere secondo i precetti cristiani, con circospezione e il timore di dover sperimentare la mai sopita avversione verso gli Ebrei. La stessa chiesa cattolica manteneva nella liturgia della Settimana Santa la preghiera Oremus pro perfidis Judaeis, fino alla riforma liturgica del 1959 di papa Giovanni XXIII e al Concilio Vaticano II.

 

 

NOTE

[1] Posta accanto alla strada della località Grecìa, il quartiere più antico. Cfr. Convegno del 2022 presso S. Maria del Cedro sulle 130 Giudecche di Calabria, i ghetti ove vigeva lo jus cazacà o diritto inquilinato perpetuo.

 

[2] I Patti prematrimoniali di Simeri, Calabria, 1439). La ketubah originale in lingua santa risulta ancora irreperibile.

 

[3] Dalla gola di Gonìa, sotto Sellia, dove venivano raccolti i tronchi della Sila, per essere trasportati verso il mare a mezzo della fluitazione e con l’ausilio di piccole imbarcazioni.

 

[4] Nella Geografia di Edrisi o Libro di Re Ruggero del 1154 sono indicate anche le distanze tra Simiri, Catanzaro, Genicocastro, fiume Neto, ecc. Dalla comparazione dei dati del Levamentum Foculariorum Regni del 1276, si può ipotizzare una popolazione ebraica del ghetto di un centinaio di fuochi. Tutti dovevano portare il distintivo d’ignominia o tau, consistente in un circulum croceum sul petto degli uomini e nel segno delle meretrici sulla testa delle donne (la rota di seta gialla).

 

[5] Il bagno purificatore doveva essere ripetuto anche dopo il matrimonio, alla fine di ogni ciclo mestruale.

 

[6] Il numero sette è ricorrente nella Bibbia (7 gli anni delle carestie, 7 i giorni del banchetto nuziale): 7 sono le braccia della menorah (candeliere simboleggiante i 7 giorni della creazione e i 7 pianeti), 7 i giorni di riposo dello shabbat e di altre ricorrenze del calendario lunisolare, 7 i giorni del lutto stretto, durante i quali era proibito lavarsi e radersi la barba.

 

[7] Catanzaro vantava oltre 1000 telai e diversi paesi dell’hinterland (Taverna, Simeri, Cropani, Sellia, Belcastro) contavano numerosi iscritti nelle matricole dell’arte della seta. Fino agli anni cinquanta del secolo scorso, nei paesi calabresi persisteva la tradizione del telaio, del filatoio, del lino, della coltivazione del cucullo, della cardatura della lana.

 

[8] Lampada a corpo piriforme con attacchi per le catene fitomorfi, assimilabile all’incensiere dei cerimoniali cristiani.